52. Promesse

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Ulrik si risvegliò in un bagno di sudore. Si alzò a sedere, portandosi una mano alla gola. Voleva urlare, voleva disperatamente urlare, ma non gli usciva la voce. Si guardò le mani tremanti. Al buio riusciva solo a intravederne la forma. Ma no, neanche stavolta erano davvero macchiate di sangue.

Due braccia sottili gli avvolsero la vita irrorando il suo corpo di un tiepido barlume di calore.

«Cos'è successo?»

«Niente.» Era la prima volta che si svegliava in preda agli incubi da parecchio tempo. Colpa del titanio: più abbandonava il suo corpo, più la mente ricominciava a vacillare. Erano passate due settimane da quando l'avevano staccato dalla macchina. I sintomi lentamente cominciavano a rimanifestarsi tali e quali a prima.

«Me ne vuoi parlare?»

No, non se la sentiva, non ancora.

La prese tra le braccia, si coricò con lei e tornò a chiudere gli occhi, fingendo di riprendere sonno.

Sentì le sue dita che gli accarezzavano una guancia, poi il suo respiro divenne sempre più pesante e alla fine almeno Evangeline riuscì a riaddormentarsi per davvero.

Quando fu sicuro che riposasse profondamente, si allontanò con delicatezza. Ricoprì il corpo magro con le lenzuola e le spostò una ciocca di capelli dietro l'orecchio. Poi, in silenzio uscì dalla stanza, ancora scalzo, per prendere una boccata d'aria.

La brezza fredda del mattino lo tramortì e ogni traccia del sogno scomparve.

Il villaggio era ancora immerso in un sonno abissale, nonostante al di là delle montagne si avvistasse un flebile chiarore, segno che tra un'ora al massimo l'alba avrebbe cominciato a sorgere.

Fuori dalla tenda dell'Umana erano cresciute numerose ipomee di un blu così intenso da sembrare irreale. Sbocciavano solo di prima mattina, quindi era molto raro ammirarle, le loro corolle infatti duravano solo poche ore, lui se ne accorgeva perché tornava molto presto nella sua stanza, prima che chiunque altro si destasse e lo vedesse uscire dall'ex-infermeria.

Era alquanto bizzarro nonostante nessuno più sembrasse farci caso, quella fioritura così localizzata. Quella tenda rossastra circondata da tutto quell'indaco. Da una delle aperture che fungeva da finestra era cominciato a crescere perfino un rampicante. Si era offerto di estirparlo, ma l'Umana l'aveva ammonito con uno sguardo tagliente. La sera in cui fiori si erano schiusi, aveva emanato un profumo penetrante che somigliava tantissimo a quello della sua pelle. Si era rivelato essere un gelsomino.



«Bene bene bene.» Ulrik trasalì. Dietro le sue spalle era comparsa l'unica persona sulla Terra che non avrebbe mai voluto vedere, soprattutto a quell'ora del mattino, soprattutto in quel posto.

Il suo volto si calcificò in una maschera di cera, mentre i suoi occhi cercavano di sostenere impassibili quelli bui e fondi come prigioni dimenticate di Melchor.

«Buongiorno Ulrik.» Aveva un sorriso sprezzante che gli sfigurava il volto da teschio. Perfino il comandante avvertì il sarcasmo dietro quel saluto.

«Melchor» pronunciò freddo.

«Come mai da queste parti di buon'ora?» 

Il giovane uomo drizzò la schiena. «Potrei farti la stessa domanda» commentò col suo tono più glaciale.

Il capo villaggio scoppiò in una risata così convulsa e rumorosa che Ulrik temette che Eva potesse svegliarsi e il solo pensiero lo fece infuriare.

«Oh, Ulrik, che ne dici, saltiamo i convenevoli? Eh?»

Il sangue gli si condensò nelle vene.

Non aveva fatto abbastanza, non avevano fatto abbastanza.

UMANA ∽ L' Antico PotereDove le storie prendono vita. Scoprilo ora