40. La missione

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Evangeline sentiva il petto sempre più pesante. Faticava a respirare, come se un enorme masso le comprimesse la gabbia toracica.

La conformazione della schiena degli elefanti non era adatta a una cavalcata. La ragazzina però era molto magra e minuta ed era stata deposta sul dorso dell'animale più forte, quindi non gli recava alcun fastidio.

Era comunque molto scomodo, sentiva le cosce bruciarle contro quella pelle così spessa e rugosa. Inoltre le vertigini le facevano girare la testa. Si trovava a un'altezza tale da riuscire a scorgere tutto il panorama che circondava la valle. Al di là di essa, in lontananza, immersi nella vegetazione, spiccavano i grattacieli di un'antica rovina. La foresta da cui erano sbucati era molto più estesa e ampia di quanto le era sembrato dall'interno, mentre le montagne verso cui si stavano dirigendo i loro compagni erano più vivide e vicine di quanto le fosse apparso da terra.

Già sentiva la nostalgia, il senso di impotenza, la paura di rimanere sola, tutta la sua fragilità immensa.

Uno di questi elefanti avrebbe potuto benissimo sopprimerla con il solo peso del proprio corpo. Lei non avrebbe potuto lottare in alcun modo, forse non avrebbe nemmeno provato a resistergli. Si sarebbe arresa prima ancora di realizzare il suo destino. Le parve di sentire lo scrocchiare delle sue ossa, le grida dei suoi compagni, i loro occhi spiazzati da una scena raccapricciante...

"Non ti faremmo mai del male."

Eva si riscosse dai suoi angosciosi pensieri. Teneva ancora le mani aggrappate al collo tarchiato dell'animale.

«Lo so» mormorò, ma con un tono insolitamente insicuro.

L'animale non ci fece caso.



Avanzarono per un'ora abbondante, a un passo molto tranquillo.

Eva studiò a fondo il branco. Erano quasi tutte femmine, a parte il maschio che la portava sul dorso e un cucciolo semi-nascosto tra le gambe della madre. Gli esemplari maschi infatti preferivano vivere isolati e non erano molto socievoli. Di solito si aggregavano al gruppo quando avevano desiderio di socializzare e accoppiarsi. Raramente vi rimanevano.

Viceversa poteva fare anche un'esemplare femmina, anche se era più raro.

L'elefante che l'aveva presa era un padre. La sua compagna li precedeva di qualche passo. Non si voltò mai a guardarla, teneva il capo chino e la mente chiusa, come se non volesse comunicare con lei, come se ancora non si fidasse.

Arrivarono a un rilievo roccioso, nel bel mezzo del nulla. Una rupe sporgente sotto la quale, tra massi e detriti rocciosi, si era formata una minuscola caverna.

Là dentro, nella semi-oscurità, Eva intravide una figura sdraiata.

Fu depositata sul terreno sabbioso sempre grazie alla proboscide del pachiderma.

Non esitò nemmeno un istante, non si fermò a valutare i rischi, a porsi inutili domande, a interrogarli, a perdere tempo utile. Non le balenò nemmeno nell'anticamera del cervello l'ipotesi di fuggire. Avanzò nella cavità orizzontale, aperta sull'insenatura del piccolo rilievo.

L'elefantino giaceva sul fianco, la coda si dimenava flebile mentre la proboscide era adagiata nella polvere. La gamba posteriore destra era stata arpionata da un'antichissima trappola. La zampetta era infatti orribilmente avvolta da uno spesso filo di ferro che si era incistato così a fondo sotto la sua pelle ancora morbida da infettarla. Non era riuscito in alcun modo a liberarsi e i suoi genitori non avevano potuto far nulla per aiutarlo. La piaga era così dolorosa e purulenta che l'animale non poteva sollevarsi a quattro zampe. Questo, per le ferree leggi della natura, avrebbe segnato la sua condanna. Il branco doveva muoversi e lui sarebbe stato lasciato indietro.

UMANA ∽ L' Antico PotereDove le storie prendono vita. Scoprilo ora