L'amore per amore

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Il pensiero di fare l'amore con Alexandra non aveva mai attraversato la mente di Marco Bello. L'uomo sapeva perfettamente quale fosse il passato tremendo di sua moglie, sapeva che per lei spogliarsi davanti ad un maschio equivaleva ad essere violentata, a dover stringere i denti e a trattenere le lacrime per non venire condannata ad una sofferenza maggiore per puro godimento del carnefice. La voleva accanto a sé per tutta la vita perchè la amava, perchè si era ripromesso di proteggerla dal male e dalla cattiveria che troppo a lungo avevano dominato sulla sua fragile esistenza, non per poterne gioire esclusivamente da un punto di vista fisico. Certo, avrebbe voluto che lei superasse il trauma ma non per lui, semplicemente perchè potesse in questo modo sperimentare anche il piacere carnale ed esserne felice. D'altro canto, Alexandra tremava al solo pensiero ma al contempo aveva timore che Marco potesse ripudiarla se lei non gli si fosse offerta. E lei ci teneva troppo a lui. La sera dopo le nozze dunque, quando lui tornò da un'intera giornata di lavoro, la trovò stesa nel letto, nuda e piangente. Sentendo la porta aprirsi, la ragazza si asciugò velocemente le lacrime e tentò di assumere una posizione provocante e un sorriso dolce, ma la paura che le regnava nel cuore era troppa e non le riuscì. Marco era una persona molto empatica e se ne accorse subito. Lasciò la borsa di pelle nella quale lei gli metteva il pranzo ogni mattina sull'uscio della porta e le corse incontro, sedendosi accanto a lei. “Piccolina, cosa succede? Che hai?” Le chiese prendendole le mani, sinceramente preoccupato. La giovane scosse la testa e tentò di inarcare le labbra all'insù. “Vieni a stenderti qui accanto a me...” mormorò. Lui la guardò senza capire, allora Alexandra sollevò il lenzuolo quel tanto per lasciargli intravedere la sua nudità. Lui comprese in un attimo e sentì una forte emozione esplodergli nel cuore. “Ma cosa...no...no.” Disse. Si alzò, afferrò una vestaglia e poi la coprì. “Amore mio dolcissimo, se e solo se sarai un giorno pronta allora permetterò che i nostri corpi si uniscano in uno solo. Fino a quel momento, non pretenderò nulla da te.” Le disse, carezzandole la guancia. Si vedeva che lei cercava di trattenere il pianto, ma anche che le risultava difficile. “Ma io...io...avevo paura che tu...” Marco Bello non la lasciò finire. Scosse la testa e le prese la mano che si agitava nell'aria in cerca di un appiglio. “No. No, piccolina. Non pensarlo mai più, hai capito? Mai più. Sarà una scelta tua, quando e se vorrai. Fino a quel momento, sia fra due giorni o fra venti anni, non ci saranno altro che baci appassionati fra noi due. In fondo sei mia moglie davanti a Dio, a me non serve altro.” Affermò convinto. Finalmente, un flebile e timido sorriso si dipinse sul dolce volto di Alexandra. “Davvero?” Chiese. “Ma certo, amore mio. Ma certo.” Quelle parole la riempirono di sollievo. Si lasciò cadere sul petto di lui e Marco le accarezzò i capelli stringendola forte. Ogni giorno che passava era sempre più convinto della scelta che aveva fatto e poco gli importava se da fuori poteva sembrare azzardata. Non immaginava di certo quanto gli sarebbe costata.


Come se non bastasse il dramma che aveva colpito Venezia togliendole brutalmente uno dei suoi più importanti cittadini, il giorno della partenza delle Medici il cielo era plumbeo e prometteva pioggia, mentre un forte vento scompigliava abiti e capelli. Era appena l'alba, ma Selene aveva pregato Andrada di partire il prima possibile: si sentiva di troppo nella villa nella Giudecca dopo ciò che era accaduto. Così, il giorno dopo il funerale di Thibault le valigie erano state caricate sulle carrozze e le stanze accoglienti che le avevano ospitate per quasi cinque mesi abbandonate. Il palazzo non aveva più nulla dell'allegria e della vitalità che le due sorelle e i loro figli avevano conosciuto. Era spento, triste, sembrava anch'esso vestito a lutto. Era come se Attila fosse passato nel grande giardino seccando tutti i fiori dicembrini e ricoprendo ogni cosa di una coltre apocalittica. Fosse dipeso dalla moglie di Lorenzo, il viaggio sarebbe incominciato subito dopo la cerimonia, la mattina di Natale, ma su questo Andrada era stata irremovibile: dopo una notte in bianco c'era bisogno di riposare e inoltre il loro ritorno a Firenze era troppo scontato in quel momento per affrontarlo in modo così leggero. “Tu forse sei ancora troppo sconvolta, ma hai rischiato di morire. Ti hanno lanciato una freccia. Se zio Cristian non...non si fosse messo in mezzo ora non saresti qui. E non lo posso permettere. Non lo permetterò. Nessuno può toccare la mia famiglia.” Aveva sentenziato la moglie di Cosimo. La notizia del tentato omicidio ai danni di Selene intanto si era diffusa a macchia d'olio ed era giunta fino in Toscana. Quando l'aveva saputo, Lorenzo aveva quasi perso la testa e suo fratello maggiore aveva dovuto chiuderlo a chiave in camera per impedirgli di partire alla volta di Venezia. “Non ti rendi conto? Andando loro incontro rischieremmo ancora di più. Non possiamo permettercelo, è quello che il nostro nemico vuole. Stanno tornando. Ti prometto che non li allontaneremo mai più, ma ora devi fidarti di me. Sono protetti dai nostri migliori soldati, fra pochi giorni li riabbracceremo.” Gli aveva detto il Signore di Firenze attraverso lo stipite. L'impulsività di Lorenzo lo aveva portato a prendere a pugni la porta e a dirne di tutti i colori a Cosimo, ma poi si era calmato e aveva accettato la decisione. Il viaggio alla volta della propria città natale fu, per le due sorelle Medici, il più lungo di tutta la loro vita. Il tempo sembrava dilatato e stagnante. Andrada in particolare, che aveva sempre odiato quei veicoli traballanti, sentiva la bile risalirle nello stomaco e aveva voglia di proseguire a piedi, libera dal dolore e dalle responsabilità. Per fortuna, il fatto che erano partite così presto aveva garantito loro che almeno le bambine dormissero placidamente. Rosa era stesa lungo tutto un sedile e teneva la testa in grembo a sua madre, Ginevra le era appoggiata sull'altra spalla e Arianna, di fronte a loro, stringeva convulsamente una mano del cugino Lorenzo e gli dormiva praticamente addosso, con la bocca socchiusa. Accanto a loro c'erano Andrada e infine Francesco e Giovanni, che guardavano fuori, spaesati e scossi. Il silenzio era spettrale. I bambini non avevano voluto separarsi dalle loro madri e così erano stati sistemati tutti e otto nello stesso vagone. Ce n'era poi un altro per Bianca e le neonate e infine, dietro alla carovana, l'assassino di Cristian viaggiava incatenato su un cavallo, controllato fin troppo attentamente da Tancredi e dagli altri soldati. Selene era ben consapevole di quanto i bambini fossero spaventati. Non era giusto quello che stavano vivendo. Negli ultimi mesi avevano visto morire la loro balia, l'uomo che si era preso cura di loro quando il loro papà non c'era e lo zio a cui erano legatissimi era scomparso. Si sentiva totalmente impotente, ogni giorno credeva di non essere più capace di proteggerli. Solo quando Lorenzo Ugo, a pochi mesi di vita, le era quasi morto fra le braccia durante l'incendio del vecchio Palazzo Medici, aveva provato una sensazione simile. Ed era talmente orrenda e distruttiva che ogni sera, nelle sue preghiere, implorava di non doverla sperimentare più. E invece ora ci conviveva da settimane. Lorenzo era l'unico che aveva capito che la freccia che aveva ucciso Cristian era indirizzata a lei. Nonostante avesse solo dodici anni era un bambino molto attento e sveglio, curioso e premuroso e si era guardato bene dal dire ai fratelli e ai cugini quella verità ma ora aveva paura, aveva davvero paura. Era però felice di tornare a casa in quanto convinto che accanto a suo padre e a suo zio Selene sarebbe stata al sicuro. Strinse leggermente più forte la mano di Arianna. Non aveva dimenticato la promessa fatta a Cosimo: anche se ora non si trovavano più a Venezia, si sentiva comunque in dovere di proteggerli. Tutti.

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