La notte in cui fece pace con Dio

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Ciao a tutti! Ormai manca davvero pochissimo a scoprire finalmente quali saranno le sorti di Lorenzo. Godetevi questo ultimo capitolo "tranquillo" (se così lo si può definire 😅) perchè dalla prossima volta la situazione potrebbe precipitare ma soprattutto stupirvi e non in senso positivo...

Selene Salviati non aveva mai creduto di essere destinata alla felicità. Non si trattava di vittimismo, di disillusione, di manie di protagonismo: le sue lacrime le aveva sempre piante in solitaria o al massimo fra le braccia del fratello e dell’amico di una vita, Donatello; tale convinzione proveniva, piuttosto, da un vissuto destabilizzante e da un carattere emotivo che, sommati insieme, la avevano condotta a dubitare che in cielo ci fosse la propria personale buona stella. Anche nel momento in cui aveva giurato fedeltà eterna a Lorenzo davanti a Dio le ci era voluta tanta forza di volontà per smettere di avere paura: semplicemente non pensava che la sua esistenza potesse davvero essere cambiata dall’oggi al domani, non riteneva possibile che soltanto pochi mesi prima fosse una ragazza di strada e adesso invece la moglie dell’uomo che amava, circondata unicamente da possibilità felici. Il tempo però poi era passato, lento ed inesorabile, e dopo i primi anni turbolenti la vita aveva cominciato a scorrere serena e senza scossoni, a Palazzo de’ Medici. Selene aveva visto nascere e crescere i suoi figli e i suoi nipoti, aveva visto l’adorato cognato prendere il potere sulla meravigliosa Firenze e trasformarla pian piano nella città in cui chiunque avrebbe desiderato abitare, protetta in ogni momento dalla sorella, dal fratello, dal marito, dagli amici. Dal loro semplice esistere. La sera in cui Andrada era entrata tremante e stravolta nella stanza di Ginevra e Rosa per informarla di ciò che era accaduto a Lorenzo, Selene non poteva certo dire di averlo previsto. Ma erano mesi ormai che non faceva altro che darsi della stupida, dell’irresponsabile, della povera scema: come aveva fatto a credere di essere al sicuro? Gli attacchi continui alla famiglia, la morte di Michela e Giuliano, la scomparsa di Marco Bello, la fuga precipitosa a Venezia, la fine tremenda di Cristian. Era stato un susseguirsi di dolori, di colpi inferti all’altezza dello stomaco da un destino inesorabile. La Medici avrebbe imparato soltanto molti anni dopo ancora che lei non aveva nulla di diverso dal resto del mondo, che lei non era meno degna di altri di ubriacarsi di gioia. Che ciò che stava accadendo in quei mesi non voleva dire che si era ottusamente illusa: avrebbe imparato a dare equa importanza ai momenti buoni e a quelli meno buoni, perché la vita dà e la vita toglie. Non lo sapeva ancora ma in realtà questo meccanismo di cognizione era già in moto nel suo cervello e nel suo animo: era perfettamente conscia della criticità estrema delle condizioni del coniuge, tutti i dottori non facevano altro che dirle che sarebbe morto a breve, se non per la gravità delle ferite quanto per il deperimento. Non si illudeva certo di poterlo abbracciare e baciare di nuovo, di poter udire ancora la sua voce ma ora sapeva cosa fosse la felicità e non riusciva ad impedirsi sempre, in ogni momento, di sperare egoisticamente in un nuovo capovolgimento della sorte. Eppure la vita privilegiata che le era caduta dal cielo quel giorno di tanto tempo prima le aveva anche aperto la strada alle responsabilità: prima non ne aveva effettivamente mai avute ed ora si ritrovava a dover mettere le necessità dei figli davanti alle proprie. Non era un qualcosa che le pesava eccessivamente, era sempre stata dominata da un forte istinto alla genitorialità, molto di più ad esempio del suo stesso marito o di Andrada, che avevano imparato a gestire quel nuovo ruolo con il tempo e l’esperienza. Eppure in quelle settimane sentiva di non essere abbastanza per Lorenzo Ugo, Francesco Marco, Ginevra Anna ed Andrada Rosa, aveva il terrore di influenzarli con il suo stato d’animo. Le sembrava di essere la causa principale di ogni loro lacrima e non riusciva invece a rendersi conto che se i quattro frutti dell’amore immenso che aveva sempre nutrito per suo marito non erano crollati sotto il peso di un dolore troppo ingiusto a quell’età era solo per merito suo. D’altronde Selene sapeva benissimo cosa significasse perdere un padre, non aveva un’età troppo distante da quella delle gemelle quando Ugo ed Anna erano morti e questo le consentiva anche di sapere benissimo come esserci per i bambini. “Siamo noi adulti a pretendere chissà quali attenzioni, sorella. Noi che vogliamo che venga fatto l’impossibile per strapparci un sorriso comunque tirato. A loro basta niente, basta un sorriso, una carezza, una fiaba letta insieme.” Le aveva detto un giorno Andrada e così Selene, che era sempre stata una madre presente e soprattutto equilibrata, pur continuando a pensare di non fare abbastanza cercava di non lasciarli mai soli se non quando comprendeva che ne avevano bisogno, leggeva ancora più fiabe del solito, parlava con loro di tutti gli argomenti possibili, li aiutava a studiare e, seppur con fatica, non aveva lasciato che la loro sofferenza la intenerisse e perciò se si comportavano male o se mancavano di rispetto gli uni agli altri sapeva essere severa al punto giusto. Ma tutto ciò la sfiancava ancora di più ed ogni sera, dopo aver fatto addormentare le bambine ed aver risposto alle infinite domande dei maschi, si ritirava nella sua stanza e si gettava sul letto a piangere tutte le lacrime trattenute durante le ore diurne fino a quando, sfinita, si addormentava ancora vestita e pettinata. Quella sera però era particolarmente provata e Marco se ne era accorto durante il pasto, quando lui e Cosimo (Andrada non aveva potuto rinunciare ad una cena di rappresentanza e quindi era assente) avevano dovuto insistere più del solito per farle inghiottire almeno un po’ di brodo. “Bambine, che ne dite se per questa volta la storia della buonanotte ve la racconto io?” Aveva chiesto alle nipoti. Ginevra Anna (che da quando Lorenzo stava male era diventato praticamente impossibile separare dalla madre) ed Andrada Rosa, nonostante le iniziali reticenze, non ci misero molto a lasciarsi convincere, essendo stata loro accordata la presenza di Selene per la vestizione della notte. Francesco Marco venne invece coinvolto dal cugino Giovanni in una serata di preghiera per Lorenzo nella cappella privata di Palazzo Medici mentre il maggiore degli eredi scomparve con Arianna in una delle loro tante misteriose e inspiegabili fughe negli angoli più segreti dell’edificio. Quando la Salviati si chiuse finalmente la porta alle spalle e si gettò sul grande letto in mogano che ormai da tanto, troppo tempo non ospitava più una coppia felice ed innamorata, non sentì, come di consueto, le lacrime salirle agli occhi. Era come svuotata, apatica, inerme. Lentamente si tirò a sedere, poi in piedi. Nello specchio affisso esattamente dinanzi a lei vide riflessa una figura che tutto le appariva meno che quella della sua persona. Si percepiva improvvisamente più vecchia, annientata. Non era solita convogliare la propria rabbia verso Dio: aveva sempre condotto un’esistenza parallela a quella celeste, cercava di non farsi troppe domande ma non potè impedire a sé stessa di sentirsi sbagliata: perché la maggior parte delle persone nei momenti difficili riuscivano a trovare conforto nella fede (persino suo nipote, un bambino) mentre lei no? Che cosa aveva che non andava? “Maledizione! Prenditelo, prenditi Lorenzo… prenditi mio marito! Hai capito? Prenditelo, portatelo via se è questo che vuoi ma liberalo da una sofferenza che non merita, liberaci tutti da questa tortura… mio Dio, ti prego, se esisti, abbi pietà non di me ma di tutti gli altri! Se vuoi punirmi per qualcosa allora punisci me, non quattro bambini innocenti!” Si ritrovò improvvisamente a gridare e si accorse solo dopo averlo fatto di essersi scagliata contro il mobile laterale, di essersi gettata a terra e di aver finalmente ritrovato la forza di piangere. Non ne poteva più e quella sera riuscì ad ammetterlo con sé stessa: non avrebbe resistito ancora a lungo, non abbastanza da permetterle di riuscire a gestire in futuro gli strascichi di quel martirio psicologico. Pianse per un tempo indefinito seduta a terra, con il fianco sorretto dal mobile, la testa fra le mani. Pianse fino al momento in cui non le cadde l’occhio su un cassetto semiaperto, dal quale fuoriusciva una bustina. Capì al volo ma sperò fino alla fine che non fosse ciò che credeva, tentò di impedirsi di afferrarla e di scoprirlo ma si conosceva abbastanza bene da sapere che sarebbe andata fino in fondo. Quando lesse l’intestazione, quando riconobbe la calligrafia di suo marito, sentì come se la carta le bruciasse le mani. Si alzò e si sedette di nuovo sul letto, perché la testa le girava vorticosamente e non sarebbe riuscita mai a non svenire se avesse fatto un solo passo in più. Era consapevole che se l’avesse aperta e letta avrebbe provato il senso di colpa più lacerante del mondo, che nulla avrebbe più potuto risollevarla dal baratro, che avrebbe attraversato il confine della sopravvivenza per non tornare più indietro. Ma la aprì. La aprì e torturando le lenzuola con i pugni lesse per la prima volta una delle tantissime lettere che Lorenzo aveva inviato alla Giudecca sperando in una sua risposta mai giunta, che non sapeva neppure lei come fosse riuscita a sopravvivere alle fiamme di Palazzo Thibault per arrivare in quella stanza e pronta, subdola ad essere trovata in un momento che poteva essere definito contemporaneamente giusto e sbagliato.

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