Amor omnia vincit

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Se si fosse trovata ancora a Firenze, in compagnia della sua famiglia al completo, dei suoi amici e senza snervanti crisi coniugali a dilaniare i suoi fratelli, Andrada avrebbe senza dubbio brindato a quel giorno: il 16 Dicembre 1430. Era la prima volta, da che ne avesse memoria, che si svegliava prima di Selene. Il silenzio nel palazzo era inquietante e rilassante allo stesso tempo. Si vestì velocemente e uscì dalla propria stanza, intenzionata a godersi quella pace per ogni secondo che le sarebbe stato concesso. Da quando aveva ricevuto la lettera anonima, che a parer suo era opera di Ostasio da' Polenta senza il minimo dubbio, non era più stata completamente tranquilla. L'idea che il loro nemico sapesse dove si trovavano la faceva sentire scoperta e soprattutto, come sua sorella non aveva mancato di farle velatamente notare, era lei l'obiettivo del da' Polenta: ciò le aveva instillato nell'animo un senso di colpa che le chiudeva lo stomaco e le risaliva fino al cervello, soprattutto nei confronti dei bambini. Scese piano in cucina. Sapeva che palazzo Thibault era controllato ad ogni ingresso e che nessuno poteva entrare o uscire senza essere visto dalle guardie, ma la parte istintiva del suo essere le faceva sperare che Tancredi si alzasse il prima possibile. Quell'uomo le piaceva, in sua presenza era tranquilla e respirava quasi normalmente. Il fatto che fosse però anche lui così vicino a Selene la insospettiva e non sapeva se fosse o meno il caso di parlare alla moglie di Lorenzo di ciò che suo zio Cristian si era fatto sfuggire. Mentre rifletteva su ciò, si versò una tazza di latte e si stupì di quanto le fosse risultato spontaneo quel gesto: Andrada de' Medici era diversa dall'adolescente Andrada de' Albizzi, quest'ultima, se le avessero detto che un giorno si sarebbe occupata da sola della propria colazione, sarebbe scoppiata in una fragorosa risata. Si sedette al tavolo e respirò l'odore della bevanda. Non era calda, ma era buona. Fu il pianto di un bambino a farla trasalire e a rompere il silenzio. “No, no...Clarice fa silenzio piccola ti prego...così sveglierai Maddale...na.” Bianca non aveva fatto in tempo a finire la frase che alle grida della sua bambina si erano aggiunte quelle della figlia di Michela e Giuliano. Andrada sbarrò gli occhi e si voltò verso la sala da pranzo, da cui aveva sentito provenire i pianti e la voce. “Bianca...sei, sei tu?” Chiese alzandosi, con un filo di voce. La nutrice comparve sulla soglia visibilmente scossa. Aveva i capelli scompigliati, le bambine in braccio e l'aria di chi non dormiva da settimane. “Ma...donna, perdonatemi...io...io non volevo spaventarvi ma la mia Clarice non voleva saperne di dormire...e per non svegliare tutto il palazzo sono venuta qui, non credevo di trovarvi...” disse tutto d'un fiato. Andrada respirò con il diaframma per riprendere il controllo sui battiti del suo cuore, poi si avvicinò e rassicurò la donna. “Bianca, non scusarti. Davvero. Dammi la bambina, ci provo io. Se vuoi, ovviamente.” Le disse. La popolana la guardò stupita ma, stanca com'era, non se lo fece ripetere due volte. Due minuti dopo Clarice dormiva beata fra le braccia della moglie di Cosimo che, per un solo secondo, riflettè su quanto sarebbe stato bello avere un terzo figlio.


“Lorenzo...Lorenzino? Svegliati...” Arianna de' Medici scosse con poca grazia il corpo addormentato del cugino maggiore. Lorenzo Ugo, che di certo non si poteva dire avesse preso dalla madre la tendenza a dormire poco la mattina, grugnì e nascose la testa sotto il cuscino. Arianna sbuffò e gli si gettò addosso. “Lorenzoooo...ma quanto dormi?” Domandò. Il bambino rinunciò a malincuore a riacciuffare gli ultimi frammenti del sogno che gli stava deliziando la mente e, alzando gli occhi al cielo, si sedette sul letto, facendo scivolare dolcemente ma non troppo la figlia di Cosimo e Andrada. “Che cosa vuoi, Nina?” Aveva cominciato da un po' a chiamarla con quel nomignolo, del quale era gelosissimo. Nina veniva da Ariannina. Lei fece spallucce. “Mi annoio. Vieni a farmi compagnia?” Gli occhi di Lorenzo Ugo lampeggiarono. “Tu mi hai svegliato perchè non sai cosa fare? Và a giocare con le mie sorelle e lasciami in pace razza di disturbatrice...” borbottò, stendendosi di nuovo a letto. Arianna però, non sembrava intenzionata a demordere. “Dai Lorenzino...è pronta la colazione. E poi c'è una scena che ti farà ridere...” L'erede maggiore dei Medici intuì chiaramente che non c'era più speranza. Assunse un atteggiamento buffamente adulto per i suoi dodici anni (d'altronde essere il più grande di ben sei marmocchi era per lui motivo di vanto) e di superiorità nei confronti della “piccola Nina” e si alzò. Non ebbe però neanche il tempo di cambiarsi che la cugina ridendo come una matta lo prese per mano e lo trascinò giù per le scale di Palazzo Thibault. Lorenzo e Selene avevano insegnato ai loro figli a rifiutare la violenza, ma in quel momento il bambino avrebbe volentieri dato un pizzicotto a quella pazza di Arianna. Quando però si ritrovarono in sala da pranzo, davanti al divano, Lorenzo Ugo non potè fare a meno di scoppiare a ridere. Andrada e Bianca dormivano placidamente, tenendo rispettivamente strette fra le braccia Clarice e Maddalena, che invece erano ben sveglie e si guardavano attorno con aria interrogativa. Quando riuscì a riprendersi, Lorenzo Ugo appoggiò una mano sulla spalla di Arianna. “Ti perdono per avermi svegliata!” Esclamò. “Ne è valsa proprio la pena!” “Voi due...non si ride della Signora di Firenze e della balia Bianca!” La voce di Selene giunse dalle loro spalle. La ragazza però era ironica e divertita e si capiva benissimo che quella scena aveva suscitato anche la sua ilarità. Teneva in braccio Rosa e il resto della ciurma la seguiva insieme all'immancabile Tancredi Cappelli. Si avvicinò al figlio e alla nipote, mise giù Rosa e strinse a sé Lorenzo stampandogli un bacio sulla testa. Le loro risate allegre svegliarono le due belle addormentate e, dopo un'iniziale imbarazzo, l'allegria dilagante coinvolse anche loro. Fu Tancredi che, a malincuore, si trovò costretto a interrompere il momento. “Madonna Andrada...c'è una lettera per voi.” Le due donne persero un battito. L'ultima volta che la moglie di Cosimo aveva ricevuto una lettera non era stata esattamente cosa gradita. Si scambiarono un'occhiata eloquente e Selene prese in braccio Clarice. “Bambini, lasciamo la mamma/zia riprendersi un momento...venite con me, andiamo a prepararci per la colazione. Bianca, ci accompagni?” La nutrice comprese al volo, si alzò dal divano ed entrambe, seguite dai piccoli, si avviarono verso la cucina. Andrada si ricompose, poi si alzò fissando Tancredi. “Ti prego, ti prego...non sono sicura di volerlo sapere se è una brutta notizia.” Mormorò. Cappelli non disse nulla ma semplicemente le consegnò la busta. Non aveva intestazione se non l'indirizzo della Giudecca. “Non so di chi sia. Ma non preoccupatevi, Madonna...io vi proteggerò a costo della mia stessa vita.” Andrada lo guardò e annuì, incapace di parlare. Aveva gli occhi lucidi. Poi, sospirando con coraggio, la aprì. Quando riconobbe la grafia di Cosimo si lasciò cadere sul divano, sollevata, e non potè impedire a due lacrime di rigarle il volto. “Amore mio, mi dispiace non aver scritto il mio nome sulla lettera, ma dopo gli ultimi avvenimenti dobbiamo essere attentissimi nelle comunicazioni. Volevo avvertirvi che stiamo bene, stiamo entrambi bene. Lorenzo ed io siamo stati a Ravenna, ma posso assicurarti che Ostasio da' Polenta non c'entra nulla. Avrebbe potuto ucciderci, eravamo disarmati. Non ha fatto nulla. Il nostro nemico va cercato altrove. Luce dei miei occhi, ti amo con tutto il cuore e non sopporto più questa distanza. Ho bisogno di te, di Giovanni, di Arianna. Selene e i bambini come stanno? Lorenzo è distrutto e non so più come consolarlo. Ti prego, cerca di parlarle. La nostra famiglia non può sfasciarsi. Quando tutto sarà risolto ti prometto che andrò a cercare Marco Bello, fosse anche in capo al mondo. Ora devo andare, ma voglio lasciarti con una speranza...forse fra una decina di giorni, per Natale, potrete tornare a casa. Tanto a cosa serve stare lontani, se quell'anonimo bastardo sa dove siete? Ti amo, tuo Cosimo.” La nipote di Albizzi piegò il foglio di carta e non potè reprimere un moto di rabbia: come facevano suo marito e suo fratello ad essere così ciechi? Per lei era chiaro che “l'anonimo bastardo” fosse il signore di Ravenna, anche considerando che non li aveva uccisi. Era ovvio: se l'avesse fatto si sarebbe scoperto e non avrebbe mai raggiunto il suo obiettivo. Ostasio, il maledetto Ostasio, era il loro nemico. E Cosimo e Lorenzo sembravano non capirlo. Cosa poteva fare lei per proteggere tutti? Non ne poteva veramente più.

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