Una certezza in più

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Il clima di sospensione nel quale i Medici si erano ritrovati, loro malgrado, costretti a vivere dal giorno del ferimento di Lorenzo non accennava a voler lasciare il posto a una più stabile, seppur terribilmente dolorosa, concretezza. Il giovane banchiere sembrava ostinato a restare vivo come non lo era mai stato prima. Dopo la lunga operazione alla quale era stato sottoposto, e durante la quale aveva continuato a svegliarsi, svenire e riaddormentarsi ripetutamente, era caduto in un coma profondo. Il dottore più anziano e facoltoso dell'intera Toscana era stato fatto arrivare da Pisa, dove ormai trascorreva in pace il meritato riposo da anni insieme alla consorte, per ordine di Cosimo: suo fratello meritava soltanto il meglio. Ma quando anche lui era stato costretto a guardarlo negli occhi e a dirgli con tono addolorato ma fermo che non avrebbero dovuto farsi false speranze e che il destino di Lorenzo era cupo e inquietante nella sua semplice e fatale attesa della morte il signore di Firenze aveva dovuto, per quanto possibile, rassegnarsi. Si era scoperto, nel cuore della notte, a pregare che Lorenzo morisse il prima possibile...sia perchè desiderava ardentemente che non soffrisse (nessuno gli aveva assicurato che, seppur apparentemente addormentato, non provasse dolore fisico o non sentisse le voci attorno a lui, impossibilitato anche solo a muovere un dito o a parlare) sia perchè se fosse successo l'irreparabile loro avrebbero cominciato a fare i conti prima con il fatto che lui non ci sarebbe stato mai più. Avevano sentito tutti le parole dei vari dottori e frati guaritori, ma era innegabile che nei loro animi ci fosse ancora una flebile ma caparbia fiducia nei miracoli divini. Non si erano mossi dal nosocomio per un giorno e mezzo. Elsa e Filippo avevano portato loro cibo e coperte ed avevano badato ai bambini fornendo delle scuse abbastanza credibili che giustificassero l'assenza dei genitori e degli zii e facendoli giocare con i piccoli Brunelleschi, trasferendosi tutti insieme e momentaneamente a Palazzo Medici. All'inizio la numerosa progenie dei Medici ne era stata felice: avevano sentito molto, nel periodo trascorso a Venezia, la mancanza dei loro amichetti del cuore ma, passato l'entusiasmo iniziale, avevano iniziato a domandarsi, almeno i più grandi, quale gravoso impegno tenesse fuori da casa così a lungo i loro quattro punti di riferimento, che tra l'altro erano spariti di notte senza neanche salutare. In più l'atmosfera tetra che si respirava nei corridoi del Palazzo di via Larga e i sospiri e le lacrime che servitù e adulti in generale cercavano di nascondere insospettivano sempre di più Lorenzo Ugo, Giovanni, Francesco Marco, Arianna, Ginevra Anna ed Andrada Rosa. Così Cosimo e sua moglie avevano deciso di tornare, anche perchè restare a struggersi al nosocomio non avrebbe aiutato né Lorenzo né Selene ma si erano dovuti scontrare con la ferma decisione di quest'ultima di non voler lasciare il capezzale del marito. La Salviati non aveva toccato cibo dalla sera del tentato omicidio e aveva bevuto pochissima acqua, dormiva raramente e in orari sballati e ogni volta che riusciva a chiudere gli occhi sul mondo sognava Lorenzo morto, i suoi genitori senza vita e si risvegliava urlando e madida di sudore così che era sempre più difficile convincerla a stendersi almeno per qualche ora. “Vieni a casa con noi, Selene. Devi lavarti, mangiare e riposarti. Devi vedere i tuoi figli...non possiamo essere noi a dir loro cosa è accaduto. Questa sera tornerai qui...promesso.” Aveva cercato di convincerla, inutilmente, Andrada. Perfino Donatello aveva insistito a lungo senza ottenere risultati: sapevano tutti che l'unico che avrebbe avuto la decisione e l'autorità necessarie a fare in modo che la giovane si prendesse cura del proprio corpo e della propria mente era Marco Bello e, per quel che ormai ne sapevano loro, Marco Bello poteva essere dall'altra parte del mare oppure morto e sepolto sotto metri di terreno. Avevano così deciso di non lasciarla sola ma non di lasciare più soli neanche i bambini e quindi Cosimo, Andrada, Donatello, Elsa e Filippo si erano creati una tabella mentale di turni e c'era sempre almeno qualcuno di loro al nosocomio e qualcuno di loro a Palazzo. Cosimo aveva dovuto, nonostante non ne avesse la minima voglia, riprendere le proprie attività di capo di una Signoria e di una banca. Era sconvolgente quanto lavoro si fosse accumulato in poco più di ventiquattro ore di assenza sulle sue scrivanie, quante decisioni lasciate in sospeso fossero pronte ad assillarlo. Tuffarsi a pieno ritmo nel recupero del lavoro lo aiutava a non pensare per qualche ora, ma bastava una parola sbagliata, uno sguardo compassionevole di un cliente, una lettera giunta a Firenze da città lontane o una parola fuori posto di uno dei bambini a farlo piombare in uno stato di dolore assoluto. Non era capace di immaginare la propria vita senza Lorenzo, questa era la verità. Non era capace di credere che avrebbe dovuto gestire tutto da solo d'ora in avanti: casa, famiglia, Signoria, banco. L'impulsività, la decisione, la visione chiara e nitida dei contorni delle cose erano qualità di suo fratello fondamentali nelle loro abitudini di vita quotidiana. Già non potergli chiedere consiglio in quei giorni, non poterlo interrogare e addirittura non poterlo sgridare per le sue decisioni affrettate e poco diplomatiche erano sensazioni per lui distruttive ed indescrivibili, non riusciva neanche a pensare che sarebbero diventate la sua “nuova normalità”. E cercava, almeno per il momento, di ignorare tutto ciò che quel terribile avvenimento significava per la sua famiglia: fino ad allora erano state colpite persone esterne alle quali sì, erano affezionati, ma che non facevano parte del ristretto nucleo di amore e fondamenta che costituivano loro quattro con i bambini. Michela, Giuliano, Cristian...era stato facile abituarsi alla loro assenza, anche se adesso Cosimo se ne vergognava. Ma in realtà aveva sempre saputo che l'obiettivo finale di tutto ciò che stava accadendo erano loro, il nucleo: c'era qualcuno che voleva ucciderli tutti per potersi impossessare della sua amata moglie come se fosse un oggetto o un bottino di guerra: non avere la minima idea di chi questo qualcuno potesse essere lo faceva impazzire. Fin da subito, da quando cioè aveva riacquistato le proprie facoltà mentali una volta trovato il corpo agonizzante del fratello, il Signore di Firenze aveva sguinzagliato uomini e soldati per trovare i bastardi che avevano ridotto Lorenzo in quelle condizioni, ma si era giunti ad un nulla di fatto e ciò non aveva sortito ulteriori conseguenze se non irritarlo ancora di più. L'idea che i responsabili di quella che sarebbe stata senza dubbio la morte di una delle persone più importanti della sua vita fossero ancora a piede libero, pronti a colpire ancora pur di trasportare senza pietà la sua Andrada al loro padrone gli faceva perdere il senno. Aveva passato una gelida serata invernale a stringere forte, ben avvolti in pesanti coperte di lana, le bambine, stesi in giardino, ad osservare il cielo. Aveva permesso loro di restare sveglie più a lungo del solito e aveva raccontato a sua figlia e alle sue nipoti la storia di tante fra le costellazioni, sentendo di non riuscire più a tenersi nel petto il peso insopportabile del dramma che si stava consumando a pochi edifici di distanza da lì. Andrada, dal canto suo, non aveva più perso la testa. Era tornata la donna forte e imbattibile che era sempre stata, decisa a prendersi cura di sua sorella quando era al nosocomio e dei bambini quando le toccava stare a casa, ma nel profondo del suo animo sapeva che a tutto quel dolore solo lei avrebbe potuto porre la parola “fine”. Se solo avesse avuto la certezza che l'anonimo bastardo fosse Ostasio, avrebbe salutato con un bacio i suoi figli addormentati, avrebbe unito con amore e dolcezza per l'ultima volta il proprio corpo a quello del marito e sarebbe partita cavalcando Aurora alla volta di Ravenna. Ma non ne era certa. E non voleva aggiungere altro dolore al dolore che già tutti in quel momento provavano: doveva lasciare che si abituassero alla dipartita di Lorenzo, per poter permettere loro di acquisire la forza necessaria a fare i conti anche con la sua, di assenza. Sperava davvero che se colui che tanto la voleva fosse riuscito a farla propria senza dover uccidere per forza tutte le persone a cui voleva bene, almeno i Medici superstiti potessero ricominciare a vivere raccogliendo i cocci della loro ormai passata e dimenticata serenità. Non le importava che i suoi figli pensassero li avesse abbandonati per gettarsi fra le braccia di un altro uomo, non le importava se avessero creduto che se ne fosse andata per fare la mamma degli eredi nati dall'unione forzata fra lei e quell'essere immondo...il suo grembo avrebbe potuto generare altre centinaia di esseri umani, ma il suo cuore avrebbe sempre e solo battuto per Giovanni ed Arianna. E credeva, confusa dal dolore, dal senso di colpa e dalla stanchezza mentale, che un giorno loro avrebbero accettato facilmente la sua scomparsa se si fosse trattato semplicemente di odiarla, e non di amarla eccessivamente perchè aveva sacrificato la propria intera esistenza per salvarli. Ormai non le importava più nulla, non la deprimeva l'idea di una vita che non sarebbe andata come lei voleva, al fianco dell'uomo che amava e delle persone a cui voleva bene. Era apatica e ogni suo minimo pensiero ragionato, ogni sua azione, erano indirizzati al benessere altrui. Ormai Andrada de' Albizzi in Medici non esisteva più, aveva cominciato a spegnersi quando la cassa piena di vino avvelenato era arrivata a Palazzo mentre loro si riposavano a Careggi in quella che ormai le pareva un'altra vita. Nel suo intimo però, sapeva perfettamente che quel suo atteggiamento era portato anche a salvaguardare sè stessa, perchè se si fosse soffermata a pensare a Lorenzo, la sua apatia non avrebbe retto al dolore e sarebbe crollata. Trattava Selene come una bambina perchè sua sorella, mangiata viva dal senso di colpa, si era ridotta ad un'ameba e non era più capace neanche di alzarsi dalla brandina nella quale “dormiva” senza qualcuno che la sorreggesse. Era bello però, non poteva negarlo, poter tornare a casa ogni tanto e respirare il profumo di bambino imprigionato dietro il collo dei suoi figli. Aveva preparato il pane con loro e con i nipoti, aveva giocato a scacchi e a dama con i più pazienti e corso in mezzo alla neve costruendo pupazzi e lanciando palle gelide con i più agitati, leggendo loro favole di un'altra epoca per farli addormentare. Quando entrava nella stanza delle gemelle però, percepiva un brivido, e così aveva ben presto deciso di proporre alla prole di dormire tutti e sei insieme come spesso e volentieri avevano fatto nella Giudecca. Loro avevano accettato di buon grado ma poi, la mattina dopo, quando tornava dal nosocomio, trovava Lorenzo e Arianna stretti l'uno all'altra, Giovanni che si era rassegnato a dormire sul tappeto e Francesco e le gemelle che erano sgattaiolati nelle camere dei numerosi Brunelleschi. Andrada e Cosimo tendevano a passare più tempo con i figli e i nipoti del tempo che invece li lasciavano alle cure di Elsa e Filippo (prevalentemente durante la notte) per evitare che i loro amici si trovassero nella condizione di dover rispondere a domande scomode. Sapevano infatti che l'elettrizzante gioia di trovarsi di nuovo a casa, per di più con i loro amici del cuore a disposizione e in un periodo di sospensione degli studi quindi di assoluta libertà, sarebbe durata poco più del previsto. Una notte infatti, la piccola Rosa si era svegliata piangendo disperata per un incubo e nonostante gli abbracci e le rassicurazioni di Elsa, lei non aveva smesso di chiamare e cercare la mamma. Le sue grida avevano poi svegliato Ginevra, che la mattina dopo si era confidata con Francesco, il quale aveva espresso i suoi dubbi ad Arianna, ben consapevole che la più vivace della compagnia avrebbe interrogato il fratello e il cugino preferito. Così, a mezzogiorno del 31 Dicembre, quando Cosimo ed Andrada erano tornati eccezionalmente insieme al Palazzo (volevano passare più tempo con i bambini, di modo che a nessuno di loro pesasse eccessivamente trascorrere la notte di Capodanno a casa a dormire invece che in Piazza in incognito ad accendere i legnetti) si erano ritrovati assaltati da una marea di bambini di vari caratteri ed età che avevano una lista infinita di questioni non esattamente facili a cui rispondere da porre loro. “Perchè ci siete sempre e solo voi due e non lo zio Lorenzo e la zia Selene?”; “Dove sono la mamma e il papà?”; “Se siete impegnati in un'attività lontano da Firenze come fate a tornare a casa almeno una volta al giorno?”; “Questa notte andremo in Piazza?”; “Perchè sembrate più tristi del solito?”. L'assalto era stato difficile da respingere ma se quel giorno i bambini erano stati distratti, controvoglia, dal pranzo pronto, i due coniugi erano ben consapevoli che sarebbero tornati a domandare e che questa volta loro non avrebbero avuto vie di scampo. Di una cosa erano però certi: non toccava a loro informare i nipoti. Meritavano di sapere ciò che era accaduto al loro papà dalla madre, ma ad entrambi piangeva il cuore sapendo che Selene avrebbe dovuto fare tutto da sola, senza neanche la vicinanza di Marco Bello. Avevano quindi deciso di mentire a Lorenzo, Francesco, Rosa e Ginevra promettendo loro che il giorno successivo la Salviati sarebbe tornata a casa ma avevano scelto di dire la verità ai propri, di figli. Le lacrime e la preoccupazione di Giovanni ed Arianna li commossero, ma ciò che li fece veramente rendere conto che, nonostante tutto, stavano crescendo due bravi ragazzi, furono la delicatezza e la dolcezza con cui iniziarono a rapportarsi con i cugini, quasi con fare protettivo, senza però lasciare che si rendessero conto che c'era qualcosa che non andava. Perfino Arianna, che disobbediva in continuazione per il solo gusto di farlo, restò in silenzio e non disse nulla a nessuno, neppure a Lorenzo Ugo. Quest'ultimo però era il più grande, il più maturo, il più adulto. Aspettò il momento giusto e, proprio mentre, nel tardo pomeriggio, i suoi zii stavano uscendo per tornare al nosocomio, li bloccò sull'ingresso e puntando i suoi occhi verde scuro, così simili a quelli del padre, in quelli glaciali dello zio, parlò. “Ditemi cosa sta succedendo, vi prego. Non sono stupido, sono il più grande. E' accaduto qualcosa al mio papà? Quell'uomo, a Venezia...voleva uccidere la mia mamma, non è vero? Il nostro ospite Cristian le ha salvato la vita? E' per questo che lo avete impiccato, qualche giorno fa?” Marito e moglie si guardarono sconvolti: come faceva un bambino di dodici anni a sapere tutte quelle cose? Come faceva a sapere che avevano impiccato l'arciere? Era ancora troppo piccolo per assistere a certe scene e Lorenzo e Selene, ma così come anche Cosimo ed Andrada, erano stati categorici: i loro figli non avrebbero dovuto sapere nulla della fine che facevano i nemici dei Medici fino almeno al compimento dei sedici anni. La nipote di Rinaldo degli Albizzi si voltò a cercare gli occhi di Cosimo, ma lui sembrava più stupito e senza parole di lei. Così, prendendo per l'ennesima volta in mano quella scomoda situazione, si inginocchiò e prese la mano di Lorenzo Ugo. Quegli occhietti seri ed indagatori la scrutarono. “Nipote mio adorato...io, noi...domani la mamma sarà a casa e vi spiegherà tutto. Porta solo un po' di pazienza, ti assicuro che in ogni caso nessuna responsabilità graverà mai sulle tue spalle se non quella di essere felice, anche se sei il più grande. Cerca di stare tranquillo e di distrarti...” non ce l'aveva fatta a dirgli una palese bugia: lui non le avrebbe mai creduto. Era un bambino intelligente. Aveva così optato per un'omissione, scegliendo le parole più adatte e che alle sue orecchie non la facessero sentire troppo in colpa ad andarsene e ad abbandonarlo lì da solo. Lorenzo tacque e la guardò ferito, come a dire “neanche voi mi dite nulla” ma nessuno dei due ebbe il tempo di pronunciare anche solo un'altra parola, perchè Cosimo lo salutò velocemente, aiutò Andrada a rialzarsi e scomparvero oltre la porta.

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