Si voltava ancora a cercarla

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Giunsero a Firenze la sera successiva. Cosimo aveva tentato di parlare con suo fratello ma Lorenzo si era chiuso in un silenzio totale. Non appena furono nel piazzale antistante l'ingresso di Palazzo de' Medici il minore dei due scese velocemente dalla carrozza e, a grandi falcate, entrò in casa. Il Signore lo seguì: non aveva intenzione di lasciarlo annegare nel dolore e nei sensi di colpa ma non voleva neppure essere invadente. Lui non gli aveva raccontato nulla ma Cosimo aveva capito che il confronto con Selene non era stato una buona idea. Entrò nell'atrio e fece appena in tempo a sentire i passi dell'altro sparire su per le scale. Lorenzo si sbattè la porta della stanza che per anni aveva condiviso con sua moglie alle spalle. Il rumore risuonò per tutto il Palazzo e la consapevolezza della sofferenza di suo fratello fece piangere il cuore a Cosimo. Lorenzo gridò, gettò fuori da sè tutta la rabbia che provava nei propri confronti. "Nooooo! Noooo!" Urlò. Poi si avvicinò al muro accanto alla finestra e ignorò il dolore alle nocche che si spezzavano ogni volta che un pugno colpiva la parete. Non trattenne più le lacrime, di tristezza e rabbia. Aveva distrutto il suo amore, aveva ucciso nell'anima la donna che era tutta la sua vita. La pressione sanguigna gli si abbassò notevolmente perchè il male alle mani lo piegava in due, ma non smise di dare colpi. Continuava a gridare e la saliva si mischiò alle lacrime. Barcollò. Prese a pugni il muro per un tempo dilatato e avrebbe continuato per giorni interi se la parete non avesse ceduto e non si fosse creato un buco. Non era più Lorenzo de' Medici. Era la personificazione del dolore. Credeva che non avrebbe mai potuto soffrire così tanto. Era disposto a perdere tutto: il suo nome, il suo potere, suo fratello, sua sorella, i suoi nipoti, i suoi amici, ma non Selene e i suoi figli. Il sangue gli scorreva lungo le braccia e formava una piccola pozza ai suoi piedi. Aveva sempre pensato che un uomo non poteva dimostrarsi fragile, pensava che non dovesse piangere e perciò in quel momento non si sentiva più un uomo ma solo uno schifoso verme, un animale privo di anima. Si portò un braccio sulla fronte e lo appoggiò alla finestra, continuando a lacrimare sorreggendosi a stento. Cosimo aveva aspettato quel momento fuori dalla porta per entrare. La socchiuse lentamente e la scena che si trovò di fronte lo fece avvampare. "Lorenzo..." mormorò. Ma quello non rispose nè reagì. Allora il Signore di Firenze si svestì dei suoi panni pubblici e si avvicinò a suo fratello. Lo strinse forte, come quando da bambini lo difendeva dalle cattiverie del mondo. "Troveremo un modo. Troverai un modo." Gli sussurrò. Lorenzo piangeva. "Io non lo voglio trovare un modo per vivere senza Selene".

Il freddo iniziava a farsi sentire. La guardia gettò un altro ciocco di legno nel caminetto e si sfregò le mani. Non viveva in una casa sua da tanto, ammesso che la stanza piccola e inospitale nella quale aveva trascorso sette anni della propria vita potesse essere considerata una casa. Si sentiva libero. Ma quanto l'aveva pagata cara quella libertà? Si sedette su una sedia in legno di fronte al fuoco e guardò le fiamme divampare. L'ultima volta che era stato così vicino a quella terribile fonte di calore aveva rischiato di perdere la sua famiglia. Ora poteva ammettere di averla persa davvero. Sospirò, poi afferrò il bicchiere colmo di vino che poco prima aveva appoggiato sul marmo sporgente di una fenditura nel muro e lo portò alle labbra. Bevve, ma quando l'alcool entrò in circolo nel proprio corpo ebbe un senso di nausea. Era chiaro, si disse. Per colpa di una, anzi di tre, bottiglie di vino la sua vita era crollata in mille pezzi. Aveva acquistato la bevanda al mercato centrale della città che lo ospitava ormai da qualche mese, Perugia, senza rifletterci. Prese il recipiente ancora pieno e lo svuotò fuori dalla finestra, poi tornò a sedersi davanti al fuoco. Alla luce delle fiamme l'anello che portava al dito scintillò, catturando il suo sguardo. Marco Bello Salviati se lo sfilò e lo portò all'altezza degli occhi, chiedendosi se ne valesse la pena. Quando era fuggito, letteralmente senza più nulla, da Palazzo de' Medici, aveva vagato in sella al suo cavallo per tre giorni, fermandosi a dormire in locande vicino Firenze. Non voleva, inconsciamente, allontanarsi dalla sua città perchè la sola idea di abbandonare sua sorella Selene e i suoi quattro nipoti, che erano la luce dei suoi occhi, gli era insostenibile. Alla fine però, braccato dalle truppe di Cosimo e Lorenzo e a un passo dal farsi scoprire (lui non sapeva cosa fosse successo nel frattempo a Palazzo e credeva che lo cercassero per ucciderlo o arrestarlo) aveva fatto perdere le sue tracce ed era fuggito lontano, con la morte nel cuore. Era giunto a Perugia verso la fine del mese di Settembre e, con i soldi che Selene gli aveva dato prima di partire e quelli che aveva portato con sè dei suoi guadagni, era riuscito a stabilirsi in quell'abitazione. Non poteva dire di trovarsi male. Il mercato era vicino e ogni due giorni vi si recava per acquistare cibo e abiti, la città era accogliente e lui aveva un ottimo spirito di adattamento. Confidava che, in poco tempo e se avesse voluto, sarebbe riuscito facilmente a trovare un lavoro. La realtà era però che non aveva intenzione di continuare a fare la guardia, quel capitolo era chiuso con la fine dei suoi rapporti con Cosimo de' Medici. Perugia era allora una Signoria posta sotto il controllo della Chiesa e quindi non c'era un unico uomo che deteneva il potere, come a Firenze. Questo a Marco piaceva: meno aspetti simili c'erano con la sua città natale, meno percepiva quel senso di vuoto e immensa tristezza che gli albergava in fondo al cuore. Sospirò e abbassò la mano, smettendo di osservare l'anello. Decise istintivamente che non l'avrebbe mai più portato al dito: gli procurava troppa sofferenza. Quando aveva lasciato, senza guardarsi indietro, il suolo di Firenze aveva giurato a sè stesso che non sarebbe più tornato. Non era orgoglio, per il bene di sua sorella avrebbe calpestato perfino l'orgoglio. Era per amore che aveva fatto quella scelta: sapeva che Selene era innamorata di Lorenzo come il primo giorno e sapeva anche che non c'era posto al mondo dove sarebbe stata più sicura rispetto a Palazzo de' Medici. Se si fosse fatto vivo di nuovo i Medici l'avrebbero ucciso o imprigionato e sua sorella non avrebbe mai trovato la pace che si meritava. Era consapevole che lei prima o poi sarebbe riuscita a perdonare Lorenzo per quello che gli aveva fatto, ma non poteva accettare che lei si dovesse trovare a fare i conti con quello scenario tragico. Perdonarlo per aver tentato di ucciderlo era un conto, perdonarlo per averlo ucciso davvero era un altro. Conosceva sua sorella. La sua morte l'avrebbe uccisa lentamente, più della sua assenza alla quale sperava che un giorno si sarebbe abituata. Marco Bello non era abituato a ragionare per sè stesso, non sapeva come prendersi cura della propria persona, nel privato si era sempre fatto in quattro per Selene e nel lavoro, che poi con il tempo era divenuto privato, aveva rischiato la sua vita in prima linea un'infinità di volte per salvare quella di Cosimo. Spesso aveva pensato a scriverle una lettera per farle sapere che era vivo e che stava bene, ma aveva sempre desistito perchè immaginava che riceverla le avrebbe di nuovo fatto sanguinare l'anima. Abituarsi a quell'idea però non era stato semplice. Si voltava ancora a cercarla, a controllare che fosse al sicuro. Ma non la trovava. Mai.

"Sogni d'oro!" Andrada socchiuse la porta sorridendo a Giovanni, che la salutò con la mano. Arianna si era addormentata quasi subito ma lui aveva preteso che sua madre gli leggesse e spiegasse un passo del Vangelo di Luca sulla passione di Cristo prima di chiudere gli occhi e la moglie di Cosimo, pur essendo consapevole di non avere grandi conoscenze bibliche, lo aveva accontentato. Quando si voltò per recarsi nella sua stanza e si trovò di fronte una figura scura per poco non cadde dallo spavento. "Andrada, tranquilla, tranquilla...sono io!" Esclamò Cristian Thibault allungando le braccia per sorreggerla. "Zio Cristian! Era proprio necessario comparire in questo modo? Ho perso un battito..." disse con la voce resa acuta dalla paura. "Sì, ehm...hai ragione, scusami. E' che...devo parlarti di una cosa." Fece lui, sinceramente dispiaciuto per quell'apparizione non proprio convenzionale. Lei arricciò il naso e alzò le sopracciglia ma vedendolo preoccupato decise di non insistere e, a malincuore, rimandò il tanto atteso momento nel quale avrebbe potuto raggomitolarsi sotto le coperte. Dieci minuti dopo sedevano sul divano, davanti al quale troneggiava un tavolino in vetro con due calici di sidro il cui solo odore nauseò la ragazza. Cristian trangugiò invece il proprio senza esitazioni. "Credo di essermi innamorato di tua sorella, Andrada." Esclamò d'un tratto. Lei aprì la bocca per dire qualcosa ma poi la richiuse. "Speravo che fosse solo un'infatuazione, una mancanza di contatto con il corpo femminile...ma non è così. Io...la amo. Come non ho mai amato nessuna, neanche Eleonora..." Continuò lui. Non la guardava e teneva gli occhi bassi. Andrada raggomitolò le mani in grembo e lo osservò di sottecchi. Sapeva che Cristian Thibault era una brava persona ma oltre a conoscere lui conosceva Selene e il suo amore per Lorenzo e sapeva che nonostante tutta la rabbia che provava in quel momento si sarebbe tagliata un braccio piuttosto che tradirlo. Però non era cieca, aveva notato come sua sorella guardava suo zio, aveva notato che sempre più spesso passeggiavano sottobraccio in giardino e che trascorrevano ore a discorrere dei più svariati argomenti. "Mia sorella è sposata." Fu l'unica cosa che riuscì a dire. L'inglese non alzò lo sguardo. "Lo so." Ammise. D'un tratto Andrada si rese conto che quella confessione la poneva in una posizione spiacevole: avrebbe dovuto parlarne con Cosimo? E con Lorenzo? Con la stessa Selene? Si alzò. "Che cosa vuoi da me?" Chiese con una freddezza nella voce che non provava in realtà. "Niente, Andrada, niente...io...avevo bisogno di dirlo a qualcuno." Mormorò Cristian alzando lo sguardo. Lei si pentì di essere stata tanto brusca. Per un attimo guardò il tavolino con il calice di sidro destinato a lei ancora pieno. Lo prese e, sorridendo, glielo porse. Parlò senza compromettersi. "Selene è una brava ragazza. Non approfittartene. Lei è buona e gentile e non accetterà di essere la causa della tua sofferenza, ma ama suo marito nonostante quello che sta accadendo fra di loro. Tutto ciò che posso dirti è di non farti false speranze...ci tiene a te, l'ho notato. L'hanno notato tutti, ma non ci terrà mai nel modo in cui speri tu. Io ti voglio bene ed è per questo che te lo sto dicendo." Lui annuì, poi si alzò in piedi e le prese una mano. "Andrada io sono un uomo adulto, ho una figlia che presto sarà in età da marito e alle spalle un passato difficile. Non ho intenzione di essere la causa dell'infelicità di tua sorella, ma se posso strapparle anche un solo sorriso in più sappi che lo farò. Se davvero suo marito la rende felice allora io farò di tutto per farla tornare da lui, perchè ciò che voglio è che lei stia bene. Ma non chiedermi di impedirmi di provare ciò che provo, perchè non è possibile." Andrada lo guardò, sinceramente colpita dalla forza di quei sentimenti. "Lei è la mia unica sorella. E suo marito il mio unico fratello. Io sarò sempre dalla loro parte, devi capire questo. E sappi che il cuore di quella ragazza batte per Lorenzo de' Medici, da sempre. Ma non voglio che tu soffra...è per questo che ti chiedo di dimenticarla, se sei ancora in tempo per poterlo fare." Disse. Lui sorrise amaramente, le lasciò la mano e scosse la testa. "Purtroppo non lo sono mai stato." Mormorò. Poi bevve il sidro che lei gli aveva passato e scomparve nel buio. Andrada si sedette e restò lì per ore, a riflettere su quelle parole.


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