12. PAURE

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I cinque amici sedevano in cerchio sulla spiaggia. La luce della luna a rischiararli, quella delle torce elettriche appoggiate sulla sabbia ad illuminarli.

Avevano parlato fino ad esaurire le parole.

Riso fino a piangere.

Bevuto fino a cancellare qualsiasi tipo di inibizione, ma senza esagerare.

Avevano giocato al gioco della bottiglia, come se fossero ancora i cinque bambini che si erano conosciuti alle elementari. Come se non fossero ad un passo dalla maturità.

Erano anni che si conoscevano, praticamente quasi tutta la loro vita.

Ne erano successe di cose durante quegli anni.

Quanti litigi, discussioni, divisioni.
Quanti perdoni, riunioni, riavvicinamenti.

Si erano allontanati per volere di un destino più grande di loro, ma si erano ritrovati, forse per merito dello stesso destino, forse della loro amicizia.

E ora si trovavano tutti lì, vicini come non mai, ad un passo dal diventare adulti.

Le verità e gli obblighi erano esauriti.

C'erano stati baci, balli, bagni sotto le stelle.
Canti, segreti, penitenze rischiarate dalla luna.
Storie, amori, confessioni sussurrate al mare.

Nessuno parlava da qualche minuto, gli occhi di tutti calamitati dal mare o dal cielo. Dalla luna o dalle stelle.

Poi una delle ragazze, Diana, parlò: "Raccontiamoci le nostre più grandi paure. Quello che temiamo più di tutto, che ci tiene svegli la notte e ci fa tremare di giorno."

Nessuno rifiutò, forse bisognosi di aprirsi, forse carichi di coraggio, forse pieni di alcool e sogni.

"Inizio io."

Silvia, la ragazza dai lunghi capelli neri, scuri come la notte, dagli occhi altrettanto scuri, ma pieni di speranza e di stelle. La ragazza dalla parlantina facile, che stava con tutti ma si apriva con pochi. Quella che è bella e sa di esserlo. Che è buona solo con chi se lo merita, ma se te lo meriti ti regala l'anima. Quella che nella vita aveva perso persone che nessuno meritava di perdere, presenze che dovrebbero accompagnarci il più possibile.
Iniziò a raccontarsi.

"Ho paura di perdere le persone a cui voglio bene. Sia che se ne vadano, allontanandosi da me, sia che muoiano. Ho paura della morte, più di qualsiasi altra cosa. Non della mia, di quella di chi amo. Ho paura di parlare con qualcuno senza sapere che sarà l'ultima volta. Ho paura che qualcuno rimanga solo nel mio cuore, perché non mi basta averlo lì. Temo di svegliarmi e non vedere piu chi amo. Ho paura che un'ombra colma di paure mi strappi via dalle braccia le poche persone che ho accanto, lasciandomi sola in un mondo in cui non voglio realmente vivere, non da sola."

Nessuno disse nulla.

Non era uno scambio di consigli, era uno scambio di paure.

Qualche sguardo o sorriso di comprensione, una carezza o una stretta di mano. Nulla di più.

"Tocca a me."

Ora a parlare era Marco. Il ragazzo taciturno e intelligente, ma con un universo dentro. Il ragazzo dai capelli neri e gli occhi chiarissimi, un ossimoro vivente. Quello che aveva pochi amici, che non diceva mai "ti voglio bene" ma che lo pensava sempre. Quello che schifava gli abbracci e qualsiasi gesto d'affetto, ma che in realtà li desiderava e apprezzava più di chiunque altro. Il ragazzo che voleva diventare medico, ma non aveva nessuno che credesse in lui, o almeno nessuno nella sua famiglia.

"Io ho paura di fallire. Temo di star inseguendo un sogno più grande di me. Ho paura di correre, faticare, arrivare ad un passo dal mio obiettivo, sfiorarlo con mano e poi cadere. Oppure di non arrivarci proprio. Di inciampare a metà strada e di ricevere, anziché gesti di incoraggiamento, sguardi di disapprovazione come a volermi dire 'te lo avevo detto'. Ho paura di star per toccare il cielo con un dito, ma un attimo dopo di cadere sul pavimento duro della realtà e del fallimento. Temo di deludere le aspettative che ho di me, di avere sogni troppo grandi per restare in un cassetto, ma allo stesso tempo troppo grandi anche per essere cavalcati."

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