capitolo sette

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ELIZABETH
Chicago, 25 novembre

AVREI VOLUTO MORIRE. Sotterrarmi in una pila infinita di coperte e uscirne solo quando la mia vita avrebbe preso una direzione sensata.

La superficie scura della porta distava pochi centimetri dal mio volto.
Nei dieci minuti nella quale ero rimasta ferma al suo cospetto avrei potuto perfino contare le venature del bellissimo legno trattato con cui era stata creata.
L'unica cosa che però feci fu ripetere a mente il patetico discorso che avrei potuto recitare davanti ad Aiden.

Amanda era scoppiata a piangere, Alexander era piombato nel suo mondo e l'agitazione percepita nella tavolata dopo il suo intervento era alle stelle.
Il signor Scott, seguito a ruota dalla moglie, aveva abbandonato all'istante la stanza e con voce pesante Steven mi aveva ordinato di andare da Aiden a vedere cosa gli fosse preso.

Come se io avessi potuto migliorare la situazione.
Come se io centrassi davvero qualcosa in quell'enorme disastro.

Allontanarmi dal salone risultava l'unica cosa positiva, ma ero terrorizzata da cosa sarebbe successo appena varcata quella dannata porta.

Me ne sarei pentita? Si
Bussai comunque? Purtroppo sì.

Nessuno mi aprì e i segni di vita al suo interno sembravano inesistenti.

Potevo benissimo andarmene e ammettere di averci provato, ma una strana sensazione si era fatta spazio dentro di me.
Dovevo sapere. La mia sfacciata curiosità un giorno mi sarebbe costata cara, ma finché quel momento non sarebbe arrivato, avrei dovuto approfittarne.

Varcai la soglia cercando di fare meno rumore possibile.
La stanza era buia ma comunque in perfetto ordine. Probabilmente non ci aveva dormito dentro nemmeno una volta dal sul ritorno.

La porta del bagno era chiusa, ma davanti ad essa, abbandonata sul pavimento, c'era la maglietta bianca indossata fino a pochi minuti fa.

La raccolsi e stringendola tra le mani trovai il coraggio di bussare.
Questa volta fui meno fortunata perché in un secondo la porta venne spalancata con un'aggressività inaudita.

«Cosa volete?!»

Si accorse solo dopo che fossi io e la maschera di rabbia sul suo volto si tramutò in curiosità.

Risultavo patetica, lo sapevo benissimo anche da sola.

«Che cazzo ci fai tu qui?»

Bella domanda Aiden.
Bella e legittima come la risposta che non sapevo minimamente dare.

«Rispondi. Hanno cucinato la tua lingua per cena?»
Non dissi ancora nulla e lui sbuffò spazientito

«Vattene. Quando esci chiudi la porta»

Era sempre stato uno stronzo, ma quel  tono di voce con me non l'aveva mai utilizzato.
In quel momento non ero più nessuno se non una sagoma sulla quale sfogarsi.

«Sono qui per controllare se stai...»

«Se sto bene? A chi interessa esattamente?»

I suoi occhi color ghiaccio mi fissavano senza pietà.
Non riuscivo minimamente a reggere quel contrasto e per questo spostai lo sguardo in un'altra direzione.

Aiden era appoggiato alla porta del bagno ed oltre la sua possente figura riuscivo a intravedere solo il disastro sopra il lavandino.
Scatole di medicinali, rotoli di bende e una bottiglia di liquore semivuota.

Solo allora capii. I miei occhi scattarono alla sua spalla destra.
Era senza fasciatura e la ferita aveva un pessimo aspetto.

«Ripeto. Quando esci chiudi la porta»

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