capitolo dodici

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AIDEN
Chicago, 05 dicembre

BRUCIAVO LENTAMENTE.

Il calore risucchiava tutto l'ossigeno che stranamente ero ancora in grado di inalare.
Non potevo muovermi, i resti di cemento bloccavano ogni mia mossa e la pesante trave d'acciaio pesava sul mio torace.

Ogni respiro era una pugnalata al cuore, contemporaneamente però restava l'unica fonte di vita e piacere.

La cenere solleticava il mio volto, obbligandomi a chiudere gli occhi ripetutamente.
Non vedevo nient'altro che polvere e macerie, non sentivo nient'altro che urla e pianti disperati.

Provai a parlare, ma nulla uscii dalle mie labbra asciutte e secche.
Provai a muovermi, ma il fianco destro si piegò sotto una pesante fitta di dolore.
Un raggio di sole filtrava dallo squarcio nel soffitto, ricadendo sul corpo esanime di uno dei miei tanti compagni di squadra.

Aveva ancora gli occhi aperti, spalancati nella mia direzione.

La morte era estremamente vicina. Assaporava la mia paura, gustava i secondi che avrebbero preceduto la mia fine.

In quella cascina dispersa nel deserto, io sentivo freddo.
Nonostante i quaranta gradi esterni e il pesante equipaggio, io stavo lentamente crollando sotto i sussurri della morte.

«Ti voglio Aiden, ormai sei mio»
Come un'abile puttana dei quartieri bassi, mi accarezzava ogni parte del corpo.
Mi provocava, aspettava una mia mossa nonostante sapesse che non avrei potuto fare altro che attendere.

Lei si divertiva.
Non meritavo di andarmene senza soffrire, la mia anima avrebbe dovuto raggiungere l'inferno solo dopo essere stata stuprata dal dolore e dal rimpianto.

Era tutto troppo facile.
Dopo quello che avevo passato, non sarei comunque stato degno di una morte veloce e indolore.

«Viaggio accanto a te, Aiden» sussurrava al mio orecchio ridacchiando.
«Ti torturerò fino all'ultimo respiro»

E così avrebbe fatto.
Sarebbe stata ferma a guardare mentre mi dimenavo per potermi liberare.
Avrebbe ascoltato le mie urla disperate e infine si sarebbe travestita per accompagnarmi nel lento sonno preparatore.

Aveva usato mia madre per torturami. E nonostante tutto, ci era riuscita alla grande.

Riuscii a spalancare gli occhi solo quando un fastidioso bruciore si impadronì della mia guancia.
Mi sollevai in una frazione di secondo, ricominciando a respirare dopo un'apnea infinita.

Ero sudato, disorientato e stavo morendo di caldo. Il soffice materasso dove mi trovavo era umido e per svariati secondi non riuscii a ricongiungermi con la realtà circostante.

Solo quando il mio sguardo incrociò i suoi occhi, capii.
Erano grandi e scuri, dominati dal puro terrore e ansia.

Elizabeth era seduta al mio fianco, i capelli arruffati e una maglietta del pigiama larga e rovinata.
Respirava a fatica, proprio come me, senza aver il coraggio di distogliere lo sguardo dal mio.

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