capitolo diciotto

4.6K 155 9
                                    

ELIZABETH
20 dicembre, Chicago

QUANDO AVEVO sette anni, fui invitata al mio primo pigiama party.
Era stata Nicole McKennie a chiedermi di venire; in classe si era avvicinata al mio banco e porgendomi un pezzetto di carta rosa mi aveva chiesto se avessi impegni per quel fine settimana.

Mi si erano illuminati gli occhi e al suono della campanella ero corsa da mamma ad avvisarla di ciò.
Non ero mai stata una bambina chiacchierona e tanto meno espansiva, oltre la mia prima amica Olivia non avevo mai parlato con nessun altro.
Per questo mi emozionai.
Qualcuno mi aveva notata anche nel mio silenzio e ciò era paragonabile a un piccolo e nuovo paradiso.

Quel sabato sera arrivò velocemente e in quella cameretta dalle pareti viola io ed altre mie cinque compagne passammo la serata.
Nicole ci fece vedere con grande orgoglio tutti i suoi giocattoli e cenammo con i maccheroni al formaggio preparati dalla sua governante.

Ero stata tutto il tempo nel mio, senza sporgermi troppo o parlare più del dovuto.
Non mi avevano calcolato particolarmente, ma tra tutte quelle bambine della mia età io stavo comunque bene.

Mi sentivo come loro.
Per una volta non ero io la diversa.

Quando andammo a dormire, rimasi l'unica nel piccolo materasso posizionato nel pavimento.
Le altre quattro si erano rifugiate sotto le coperte con Nicole, evidenziando il fatto che per me non ci fosse più posto.

Non mi lamentai.
Alla fine era stata gentile anche solo nell'invitarmi.
Le luci si spensero e tra piccolo risatine infantili tutte si addormentarono.

Il problema arrivò allora; nel silenzio e nel buio più totale io smisi di respirare.
Non si vedeva nulla. Non percepivo nulla intorno al mio piccolo corpo.
La luce accesa con la quale dormivo a casa non esisteva e il buio era l'unico padrone della situazione.

Io avevo paura del buio.
Io ero terrorizzata dall'oscurità.

Non so da dove derivasse quel timore logorante, nemmeno con gli anni riuscii a scoprirlo; fatto sta che mi paralizzò anche quella volta, cancellando tutto il resto.

Ingenuamente svegliai Nicole, domandandole di accendere solo una piccola lucina per me.
I suoi occhi verdi non si mossero dai miei - colmi di lacrime - e senza aggiungere altro scoppiò a ridere dandomi della poppante.

Non poteva credere a quanto infantile fossi per avere paura di una banalità come quella.
Alla fine la luce non l'accese e io, nel mio fiato corto e lacrimoni incessanti chiamai la mamma nel bel mezzo della notte pregandola di venirmi a prendere.

La paura del buio mi passò con il tempo, ma l'umiliazione di quel giorno non sparì mai dalla mia mente.

Camminare in quella vita stata diventando come la paura del buio.
Non sapevo dove andare e la candela accesa con me si stava consumando sempre più velocemente.

La valigia toccò terra con un violento urto.
Stracolma di vestiti e accessori pesava il doppio di me e cercando di posarla sul pavimento mi scivolò dalle mani.
L'appartamento era vuoto, nessuno si lamentò di quel rumore e nessuno venne a controllare che stessi bene.
Achille, addormentato nel mio copriletto, non alzò nemmeno il muso, consapevole del mio solito disordine.

I biglietti aerei erano pronti, i bagagli pure e i vestiti per la mattina già sistemati sopra la sedia girevole.

Avevo anticipato la partenza, rimanendo parecchio vaga con i miei genitori per quel cambio di programma.
Un motivo apparente non c'era. Stavo solo iniziando ad odiare Chicago e la necessità di aria nuova era sempre più forte.

ADRENALINE Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora