capitolo trentotto

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AIDEN
Chicago, 18 gennaio

Entrai in silenzio in quella camera che mi aveva visto partire e tornare così tante volte.
Il letto era sistemato, la scrivania immacolata e il borsone verde militare adagiato sul pavimento.

Il mio nome, scritto con il pennarello indelebile, occupava la targhetta bianca cucitaci sopra e dalla tasca laterale estrassi la mia medaglietta.

La mia nuova medaglietta, dato la tragica fine dell'ultima.

Raccattai dalla stanza tutte le poche cose che avevo lasciato al mio ritorno.
Inserii nella valigia magliette, pantaloni e tutto ciò che Gloria aveva stirato senza che io glielo domandassi nemmeno.

«Devo ancora bussare per entrare qui dentro?» I miei nervi si irrigidirono, trattenendo l'impulso di girarmi nella sua direzione.

«La porta è aperta. La casa è tua» non dissi altro, riprendendo a sistemare le mie cose con maggiore velocità.

Sentii i passi di mio padre dietro di me, finché la struttura del letto non cigolò sotto il suo peso.
Da quanto tempo non lo vedevo esattamente? Dal Ringraziamento? Dal compleanno di mamma?

«Mi ha chiamato Amanda, mi ha raccontato della tua partenza. Non lo sapevo»

«Non è nulla di importante»

«Tu che sparisci per altri sei mesi non è una cosa importante?»

«Non ci saremmo sentiti comunque, non vedo dove sia il problema»

Odiava quando non lo guardavo. Odiava essere ignorato.
Eppure non disse nulla, forse dopo anni il manico del coltello iniziava ad essere nelle mie mani.

«Come sta la spalla?»

«Bene»

«Abbastanza bene da ripartire in missione?»

Annuii, chiudendo con uno strattone la borsa in nylon.
Avevo finito. Sia con i bagagli che con mio padre.

«Alexander mi ha detto del testamento. Non sapevo che la nostra stagista fosse così importante per te»

«Elizabeth» sbottai d'istinto, incrociando finalmente i suoi dannati occhi azzurri.
Il vecchio annuì ancora, sistemando i polsini della solita camicia bianca italiana.
E nelle movenze, nei lineamenti, nei colori lui era proprio uguale a me.
Guardare i suoi occhi corrispondeva ad osservare il mio riflesso e tutto ciò faceva dannatamente schifo.

Perché io non sarei mai diventato lui, avrei lottato con le lacrime e il sangue piuttosto che osservare allo specchio il suo riflesso.

«Ti auguro il meglio Aiden, davvero» rimase seduto, rassegnato «ma penso che tu stia facendo un grande errore»

«I tuoi consigli non sono più richiesti papà, sono i miei soldi e gli impiego come desidero io»

«Aiden...»

«È la prima volta in tutta la mia vita che mi sento appartenente a qualcosa, finalmente esiste un posto in cui tornare e non sarò tanto stupido da rinunciarci» ero un fiume in piena, davanti a lui ormai non riuscivo più a controllarmi «Lo so che il tuo primo pensiero sarà sempre il lavoro e il guadagno ma io non sarò mai te e ora che ho trovato lei non farò lo stesso stupido errore egoistico. Voglio lei, non un conto in banca pieno da far schifo»

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