Veloce come il vento

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Amavo le auto, la Formula 1, la velocità. Amavo tutto di quel mondo che fin da bambina mi aveva affascinata.

Io ero sempre stata diversa da tutte: da piccola, invece che giocare con le Barbie, preferivo girare per casa con le mie amate macchinine.

Spendevo pomeriggi interi a fingere di andare ovunque, in compagnia di chiunque.

Ma, soprattutto, sognavo di farlo ad alta velocità.

Le auto non erano la mia unica passione: giocavo a Tennis, e amavo profondamente il calcio. I motori, però, erano sempre stata l'unica cosa che mi aveva sempre distinto al 100% dalle mie amiche, e non solo.

Ci avevo messo tanto a convincere mio padre ad accompagnarmi ad una gara di formula 1: costava tanto, e i miei erano sempre stati parecchio tirchi.

In realtà i biglietti glieli avevo regalati io, ma finsi che fosse stato lui a farlo.

Io vivevo a Milano, a 300km dalla mia famiglia. Lì studiavo architettura e, nel tempo libero, vagavo per la città o andavo alla stadio.

Spesso accadeva che, quando non avevo molto da studiare, salissi su un treno e andassi a visitare una nuova città italiana.

Mi piaceva vivere sola, gestire il mio tempo nel migliore dei modi e non dover rendere conto a nessuno.

Per procurarmi il denaro per l'università, ogni sera lavoravo in un prestigioso hotel nel centro di Milano, dove avevo il compito di accompagnare i nuovi clienti nelle loro stanze. Non era granché, ma almeno avevo uno stipendio.

I miei, invece, vivevano a Conegliano, un paese del veneto, noto più che altro per la sua abbondante produzione di Prosecco.

Le occasioni  per stare insieme alla mia famiglia erano poche, e ne ero sempre stata consapevole, fin da quando avevo deciso di andarmene da casa mia, per raggiungere i miei sogni. Per questo mi ero sempre ripromessa di vivere al massimo ogni istante con loro.

Per questo avevo acquistato quei due biglietti per Imola.

Io e mio padre partimmo molto presto alla mattina, emozionatissimi: sapevamo che Leclerc con la sua Ferrari era in pole, ed ovviamente speravamo che mantenesse quella meravigliosa posizione fino al termine della gara.

Guardare la gara fu veramente meraviglioso: osservare le auto in tv non rende neanche un po' la loro effettiva velocità. Dal vivo, invece, sembra stiano per prendere il volo.

Mentre osservavo le due Ferrari rosso fuoco sfrecciare in pista, l'unica cosa che pensavo era che avrei dato qualsiasi cosa pur di poterci salire, di poter assaporare l'adrenalina di superare i 300 Km/h.

Ero felice, ma felice sul serio. Sentivo di essere in un angolo del mio mondo personale, che solo io riuscivo a comprendere sul serio.

Alla fine Leclerc vinse. Lo sapevo, ci avevo sempre creduto. Ammiravo quel pilota, e sapevo che il suo futuro sarebbe stato ricco di soddisfazioni indescrivibili.

Guardandolo da lontano mi resi presto conto di quanto desiderassi avvicinarmi a lui, fargli i complimenti, parlargli della mia ammirazione nei suoi confronti.

Ma era impossibile, e lo sapevo. Lui era un pilota, destinato a brillare per sempre nel firmamento delle celebrità, mentre io ero solo una studentessa.

Osservammo i festeggiamenti del box Ferrari da lontano. Dio cos'avrei dato per essere là.


Proprio nel momento in cui io e mio padre stavamo per dirigerci nuovamente verso la nostra amata Jeep Renegade per tornare a casa, notammo un gruppo di persone che si dirigeva concitato verso lo store dell'autodromo. 

Osservai mio padre. Non servì altro che uno sguardo per capirci al volo: dovevamo seguirli.

Fu così che entrammo incuriositi nel negozio. Era bellissimo, tutto rosso Ferrari, rosso fuoco.

Ma la cosa che mi attrasse di colpo non fu quella miriade di gadget: in fondo, seduto dietro ad una scrivania stracolma di pile di fogli di carta, c'era nientemeno che Charles Leclerc, che firmava autografi, sorridente.

Lo guardai. Non mi ero mai trovata tanto vicina a lui.

Mi avvicinai, lentamente, spinta da mio padre.

Non so perchè, ma temevo che la velocità dei miei passi potesse farlo scomparire, far sì che mi rendessi conto che era tutto un sogno.

Eppure lui era sempre là, sorridente, come sempre.

Mi avvicinai alla scrivania, e afferrai una sua foto, grande quanto un foglio A4, perchè l'autografasse.

"ciao!", mi disse, posando i suoi meravigliosi occhi verdi sui miei.

Gli sorrisi, diventando probabilmente dello stesso colore dell'auto che guidava.

"come ti chiami?", mi chiese poi, per la dedica.

"sofia", risposi, osservando le sue mani mentre scrivevano velocemente il mio nome, seguito dal suo.

"che bel nome, mi è sempre piaciuto", mi confessò.

Lo guardai sbigottita. Non ricordo se gli dissi grazie, se gli sorrisi, o se semplicemente diventai paonazza per l'imbarazzo, fatto sta che qualche minuto dopo mi trovai d fronte a mio padre, che rideva.

Per tutto il viaggio fino a casa non feci altro che fissare la strada con sguardo vacuo, tenendo la testa appoggiata al finestrino anteriore della Jeep.

"a cosa pensi?", mi chiese mio padre, ma io non lo sentii. Ero in un altro mondo.

"sofi", insistette, ma anche stavolta non ricevette risposta.

Solo nel momento in cui posò una mano sulla mia spalla mi riscossi, e tornai alla realtà.

"era così tanto bello?", mi chiese, prendendomi in giro.

Gli feci una smorfia, e cambiai discorso, cercando di fingere che l'incontro con Charles Leclerc non mi avesse toccato neanche un po'.

Ma io non ero brava a mentire, non lo ero mai stata.


Quella sera i miei genitori mi accompagnarono alla stazione dei treni: da lì avrei preso una Frecciarossa, e sarei tornata a Milano, nel mio mondo.

Mentre ero ferma al binario, il mio sguardo cadde su un megaschermo, sul quale si potevano leggere le notizie principali della giornata.

"LECLERC TRIONFA AD IMOLA E FA UN REGALO AI TIFOSI", scriveva un giornale. Parlava del fatto che il pilota avesse concesso autografi a destra e a manca.

Pensai al mio, al sicuro in un'apposita tasca della valigia.

Faceva freddo, nonostante fosse maggio, così mi raggomitolai nella felpa NASA che avevo indossavo. L'aria era così pungente che riusciva persino ad intrufolarsi negli strappi dei miei jeans Levi's, che perfettamente si accompagnavano alle Nike Air Force 1 bianche che portavo ai piedi.

Amavo la moda. Anche lei faceva parte del mio mondo.

Finalmente il treno arrivò, ed io mi accomodai sul mio sedile, posando la testa al finestrino.

No, non avrei dimenticato così facilmente quegli occhi verde smeraldo.

Velocità II Charles LeclercDove le storie prendono vita. Scoprilo ora