Capitolo Trentasei: Un migliaio di cose dette e fatte dolorose

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Nei giorni che seguirono, diventai abbastanza distaccato dal mondo. Non era normale per me soffermarmi così tanto su qualcosa e tutti sapevano quanto mi stessi focalizzando sul fatto che mio padre era uscito di prigione. Non stava rinchiuso in una cella come pensavo - no. Apparentemente si stava ricostruendo una vita. Sobrio. Pulito.

Avevo ceduto nel leggere una sola lettera, era quella che avevo preso e strappato in tanti pezzi, l'avevo trovata brutalmente rattoppata sulla mia scrivania. I miei sospetti andarono su Chris.

Il tono disinvolto che aveva assunto nella lettera mi fece domandare cosa ci fosse nelle precedenti. Sembrava che le stesse scrivendo da un po' e il fatto di dirmi che un suo collega era diventata padre non era una normale occorrenza da riportare al figlio che aveva trascurato per metà della sua vita e non visto per l'altra metà.

Cioè, ero sicuro stesse scrivendo da un po'. L'altra notte avevo rubato la scatola e guardato l'ammontare di lettere che vi erano all'interno. Ce n'erano un paio di dozzine.

Sospirai, mentre raggiunsi la scaletta che portava alla porta secondaria di Jessica. Ero stato abbastanza distante anche da lei. Mi ero perso nei miei pensieri e la curiosità mi aveva condotto a fare cose insane come stare senza di lei per un po', soprattutto dopo che ero appena tornato dalle vacanze. Tutto mi aveva portato a superare il limite. Provò a mettersi in contatto con me dopo che la guardai storto e l'accusai di avere preso parte al piano di Rebecca e Mark, ma ero ancora sull'attenti per la conversazione di quella notte. Quando le dissi che avevo bisogno di tempo per pensare, lei me lo lasciò.

Ma diamine, mi mancava davvero.

Avvicinando le mano alla porta arrugginita, bussai. Ricordandomi che potesse essere da qualche parte con le bambine, presi il cellulare e la chiamai, poi riattaccai quando sentii il rumore familiare dell'armadio spostarsi.

Il mio cuore rimbombò nel petto quando la vidi. Indossava la stessa felpa che aveva durante la nostra avventura a New York. Presi la scatola piena di lettere e gliele porsi.

"Reece," mormorò, stringendomi le esili braccia attorno alla vita mentre io la avvolgevo nelle mie alzandola da terra.

"Ehi, raggio di sole," dissi, sospirando piano. Ero stato un fottuto coglione ad essermi privato da solo di questo conforto. "Mi sei mancata."

Jessica si allontanò e lasciai che i suoi occhi mi scannerizzarono. "Stai bene? Kyle mi ha detto che te ne eri andato durante le ore buche degli ultimi giorni, mi sono preoccupata."

"Sì, non preoccuparti, sto bene. Non avevo voglia di restare nei paraggi. Le persone continuano a farmi innervosire ultimamente."

Sollevò un sopracciglio. "O forse sei tu ad essere particolarmente suscettibile al momento? Sei sempre infastidito e rispondi male. Giuro che metà delle persone in corridoio sono trasalite ieri quando hai urlato alle matricole di levarsi dal cazzo perché camminavano troppo lentamente."

"Odio il tutto in generale," brontolai, entrando in stanza e riposizionando l'armadio al suo posto.

Jessica si morse il labbro e mi guardò prima di dire, "Senti Reece. Mi dispiace se ti ho fatto arrabbiare per aver dato una mano nel piano. Pensavo che ti avrebbe fatto bene ascoltare ciò che Mark e Rebecca avessero da dirti. Non volevo farti arrabbiare."

"Va bene," dissi in maniera sprezzante. "Mi hanno dato informazioni nuove su mio padre. Non è più in prigione, apparentemente."

Spalancò gli occhi. "Cosa? Da quando?"

Ripristinai la conversazione passata e dissi a Jessica delle visite di Mark e il rammendo che mio padre stava facendo con la sua vita. La lettera riparata era dentro la scatola, la aprii e la lessi. I suoi occhi rimasero spalancati come quelli di una civetta.

A Thousand Words - TraduzioneDove le storie prendono vita. Scoprilo ora