1. Take me down to the Paradise City.

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Come tutte le storie che si rispettino, anche la mia cominciò con il fatidico suono della sveglia mattutina.
Sollevai le palpebre e mi strofinai gli occhi assonnati, spegnendo poi l'aggeggio infernale che aveva accompagnato la mia vita scolastica per molti anni.
All'epoca avevo solo diciotto anni e, per una ragazza del sud come me, non vi erano molte prospettive di vita gratificanti, se non quella di poter aspirare alla direzione di una delle tante stalle che popolavano le campagne limitrofe la città di Austin, capitale del Texas. Sono cresciuta in mezzo a praterie, merda di mucca e tante persone piene di orgoglio e pregiudizio, con la puzza sotto il naso e nessun pelo sulla lingua.
Ma tornando a noi, mi alzai sorridente e di buona lena quella famosa mattina della consegna dei diplomi.
Aprii l'armadio a doppia anta che affiancava il mio letto ad acqua per decidere cosa indossare e subito balzò al mio sguardo un vestitino molto corto con una fantasia floreale. Era fornito di una generosa scollatura sul seno e di vari ricami in argento.
Gettai il pigiama sul letto e indossai il mio outfit, legando al collo una collana di oro bianco e al polso il mio bracciale di ecopelle intrecciata con i colori della Jamaica.
Optai per delle scarpe con il tacco aperte, di tinta nera.
Mi sentivo decisamente fiera e sicura di me, di lì a poche ore la mia vita sarebbe cambiata per sempre, mi sarei trasferita in California, nello stato della musica, dell'alcol e dei ragazzi con gli addominali scolpiti, a Huntington Beach, una località balneare nelle vicinanze di Los Angeles.
Dopo essermi truccata, scesi di corsa al piano terra incontrando mia mamma intenta a finire la preparazione di alcuni waffle, cospargendo sopra di essi lo sciroppo d'acero.
"Buongiorno mia piccola grande donna"
"Ciao mamma" le dissi dandole un bacio sulla guancia e rubando dalle sue mani il piatto con la colazione fumante.
"Allora sei pronta per il grande giorno?"
"Mai stata più sicura in vita mia"
"Papà sarebbe così fiero di te"
Sorrisi a quell'affermazione e misi in bocca un pezzo di waffle, erano ottimi.
Mio padre servì il nostro paese finché la morte non lo stroncò a soli quarant'anni sul campo di battaglia, in Afghanistan, tre anni fa. Era un uomo d'onore e di grande valore, credeva fermamente nel suo ruolo di difensore della patria e la sua convinzione era assai ammirabile, avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di difendere le persone che amava e i suoi concittadini.
Gli volevo davvero molto bene, era il mio unico eroe.
"Lo so mamma"
"Hai chiamato Arin?"
"Sì"
"Verrà a prenderti lui in aeroporto?"
"Sí, sta tranquilla" ribattei prendendo una sua mano nella mia e stringendola con affetto.
Mia madre era una bravissima donna, piena d'amore e d'affetto, era impossibile non volerle bene.
Da quando mio padre venne a mancare, si rimboccò le maniche e cercò di dare a me e a mio fratello maggiore Arin sempre il massimo. E devo ammettere che c'è riuscita davvero perfettamente.
Mio fratello aveva cinque anni in più di me e all'epoca lavorava da tirocinante presso lo studio di un avvocato molto rinomato in California, aspirando a diventare un bravo sostenitore della giustizia e della legalità.
Un po' mi mancava non averlo più tra i piedi e non vedevo l'ora di riabbracciarlo, era sempre stato il mio compagno di stronzate.
"Andiamo?" domandai alzandomi e afferrando il necessario.
"Guidi tu?"
"Mamma, sai che non devi farmi queste domande. Ovviamente guido io!"
"Va bene ma cerca di non improvvisarti Paul Walker come al solito"
Entrambe scoppiammo a ridere e, dopo un quarto d'ora trascorso a cantare a squarciagola le canzoni di Kid Rock nella mia modesta decappottabile, giungemmo a destinazione.
Parcheggiammo proprio davanti all'entrata del campo da football dove si sarebbe tenuta la premiazione e indicai a mia madre un posto nelle prime file dove potersi sedere. Raggiunsi le mie ormai ex compagne di classe e le strinsi in un abbraccio calorosamente amichevole. Ero un po' triste all'idea di dovermi separare da quelle che ormai consideravo le mie migliori amiche, la mia vita e le mie giornate sarebbero state davvero diverse senza la quotidianità adolescenziale della High School.
Brigitte mi sorrise porgendomi la toga rossa corredata di cappellino con pennacchio in fili color oro. Indossai il tutto sopra i miei abiti e mi accomodai nella prima fila insieme agli altri maturandi.
"Katherine Ilejay" *sì questo è il mio nome, non mi andava di presentarmi come si deve* annunciò il preside facendomi venire il batticuore, era il mio turno di salire a ricevere il diploma. Raggiunsi il palco con molta energia e carica, sfoggiando un sorriso a trentadue denti molto convincente, in un certo senso non vedevo l'ora di cominciare un nuovo capitolo della mia vita, crescere e diventare finalmente la donna che avevo sempre sognato di essere.
Strinsi la mano del signore anziano davanti a me, il preside Cooper, e ringraziai la gentile valletta quando mi porse la pergamena rilegata.
Mi girai verso il piccolo pubblico e tutti stavano battendo le mani, mia madre aveva le lacrime agli occhi mentre si soffiava il naso con la mano sinistra, poiché l'altra era impegnata a sorreggere una videocamera. La salutai velocemente prima di scendere nuovamente dal palco ed andare a sedermi con le mie amiche.

*

Trascorsi tutta la giornata in loro compagnia e quando venne il momento di salutarci crollai in un pianto di malinconia.
Arrivata a casa preparai in fretta le valigie, cercando di far stare quante più cose possibili ma qualcuno bussò alla porta così mi sedetti sul letto, dopo aver richiuso l'ultima valigia.
"Pronta?"
"A quanto pare" risposi a mia madre sorridendo con un leggero affanno.
"Sono così fiera di te Kath, so che realizzerai tutti i tuoi sogni"
Mia madre si sedette accanto a me e in risposta appoggiai la testa sulla sua spalla. Mi sarebbe mancata più di chiunque altro.
"Grazie mamma, lo spero davvero"
"Tu e tuo fratello siete le cose migliori che io abbia mai fatto in vita mia"
"Vaffanculo, così mi fai piangere" le dissi tirandole un cuscino addosso.
"Ora dobbiamo andare"
Caricammo la macchina incastrando per bene tutte le valigie e in mezz'ora arrivammo all'aeroporto.
Dopo aver salutato mia madre ed essere salita in aereo, mi misi le cuffiette per rilassarmi, mentre guardavo fuori dal finestrino.
Il mio cellulare vibrò così guardai lo schermo illuminato, era un messaggio di Arin.
"Sei partita stronzetta?"
"Certo testa di cazzo"
Risposi riponendo poi il telefono in tasca.
Il rumore del motore mi indicò che stavamo per decollare così tirai giù la tendina e chiusi gli occhi, lasciando che Paradise City dei Guns n' Roses invadesse i miei timpani.
"Ci siamo" pensai tirando un lungo respiro e ascoltando attentamente le parole della canzone.
Take me down to the Paradise City where the grass is green and the girls are pretty.
In partenza per la mia Città Paradiso, dissi a me stessa.
"California, sto arrivando"

~Spazio Autrice: Buonasalve gente! Insomma..questa è solo l'inizio del mio terzo esperimento di scrittura e spero che apprezzerete ^^ Ebbene sì, questa volta ho deciso di prendere come sfondo l'immaginario della guerra perché è un tema che mi sta molto a cuore e penso che oggi giorno sia importantissimo essere abbastanza informati su questo argomento.
I protagonisti sono i membri della mia band preferita, gli Avenged Sevenfold, ma insomma la storia non tratterà solamente di loro quindi anche se non li conoscete non sarà assolutamente un problema. Mi raccomando fatemi sapere cosa ne pensate, votate e commentate per l'aggiornamento del secondo capitolo..Baci~
Jù.

Missing in Action (M.I.A.) || (DA REVISIONARE!)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora