22. Sola

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𝗝 𝗔 𝗡 𝗘

La mia permanenza a casa di Danielle si è trasformata quasi in una convivenza.

È più di una settimana che sono sua ospite. Il divano è diventato il mio letto, la panca sotto la finestra quello di Romeo.

Sono trascorsi dieci giorni dall'ultima volta che ho visto Leon. Connor, il fratello di David, non si è fatto vivo. Ho detto a Danielle che questa domenica tornerò a casa. Lei non è d'accordo, ma io non voglio che le paure di Leon ricadano su di me.

Sono verità le sue?

Ho sempre saputo che mia madre non mi amava. Ha sempre messo David davanti a tutto e tutti, ma come posso credere a questo? Come posso credere che mi abbia mentito su di lui?

Per quale scopo?

Ci rifletto mentre la sigaretta si consuma da sola tra le mie dita. La pioggia cade e batte forte sulla superficie delle scale antincendio dell'ospedale. Il libro di farmacologia fermo sulla stessa pagina da venti minuti perché il mio cervello non ne vuole sapere di assimilare niente.

Se mi avesse mentito, spiegherebbe molte cose.

Spiegherebbe anche perché mesi dopo la morte di David casa nostra fu assalita dai vandali. Perché io fui drogata nella mia stanza e spinta a perdere conoscenza per non vedere e non sentire. Solo al mio risveglio avrei scoperto che non era stato rubato nulla, non mi era stato torto un capello, ma la stanza di David era stata messa a soqquadro.

Qualcuno cercava qualcosa.

Cosa?

Sbuffo, massaggiandomi le tempie.

Un lampo squarcia il cielo. Mi preparo al rimbombo del tuono. Arriva nell'attimo esatto in cui la porta alle mie spalle si apre.

Mi volto appena.

I miei occhi stanchi incontrano quelli di Jude.

«Ciao» è lui a rivolgermi la parola.

Non rispondo. Torno a guardare la pioggia anche se percepisco i suoi passi muoversi verso di me. Mi si accomoda accanto e io non mi muovo. Ascolto tutti i rumori che produce. Il fruscio dei suoi vestiti quando sfila la sigaretta dal taschino del camice, lo scatto dell'accendino che da vita alla fiamma. Poi, una nube di nicotina mi investe e mi accorgo che la mia sigaretta invece è ormai finita.

C'è un lungo silenzio tra noi, prima che lui cominci a parlare.

«Non ti ho mentito. Ho evitato di parlarti del mio passato perché non volevo ti facesse male».

Continuo a non guardarlo, a non dire niente.

«Sono stato portato in istituto lo stesso giorno di Leon» non batto ciglio al suono di quel nome. «Mio padre era un ubriacone e mia madre morì perché non avevamo soldi per pagarle le cure».

Sento il rumore che fa il suo sorriso, sono sicura sia amaro come il caffè senza zucchero.

«Sono canadese. Vengo da un paesino povero, lontano da qualsiasi mezzo di comunicazione. Alla morte di mia madre, scappai di casa, mio padre mi trovò e mi massacrò di botte mandandomi quasi in coma».

Il mio corpo non trattiene un brivido, perché sono sempre così debole quando si parla di violenza.

«Gli assistenti sociali vennero a recuperarmi in ospedale e promisero che mi avrebbero portato via da lui e da quel posto dimenticato dal mondo».

Un leggero venticello si solleva. Fischia tra di noi. Mi sento come quella foglia che vola e trema solitaria in balia del temporale.

«Mi sono ritrovato in Inghilterra, non avevo mai studiato geografia e non avevo idea di dove fossi. Quando la psicologa mi mostrò il mappamondo, le chiesi dove fossimo noi e dove fosse il Canada, vidi che era fottutamente lontano e mi sentii al sicuro».

JANE'S MEMORIES 1Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora