29. Non smise mai di cantare per me

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𝗟 𝗘 𝗢 𝗡

Berlino, Germania.
1996-2003

Mia madre mi diceva sempre che l'unica volta in cui mi aveva visto piangere era stata alla mia nascita, poi, ero sempre stato un bambino molto tranquillo.

Non avevo mai urlato.

Non mi ero mai ribellato al dolore.

Avevo sempre sopportato le botte senza emettere un suono. La maggior parte delle volte mi difendevo o, almeno, ci provavo. Ma ero piccolo. Ero solo un bambino. Le mie braccia non erano forti, i miei pugni non facevano abbastanza male e i miei calci non colpivano mai i punti giusti.

Avevo quattro anni quando mia madre mi chiuse in bagno per la millesima volta, a giocare con le macchinine nella vasca da bagno piena d'acqua fino all'orlo. Quel giorno, la vidi entrare con il volto sporco di sangue, lo perdeva dal naso e io non sapevo cosa fare se non chiederle: «Mamma, stai bene?»

La sua risposta fu un miscuglio di lacrime e lamenti.

«Sì, tesoro. Va tutto bene».

L'aveva picchiata, l'uomo che aveva portato a casa, con il quale si era prostituita e io non avevo fatto nulla per aiutarla.

A cinque anni, mi resi conto che la mia vita era molto diversa da quella degli altri bambini. Dalla finestra della cucina li vedevo giocare, ma io non uscivo mai perché loro non mi volevano. Avevano paura di me perché a uno di loro avevo spaccato il naso.

«Mio padre dice che tua madre è una puttana» l'aveva chiamata in quel modo e, per quanto io non sapessi che cosa significasse quella parola, immaginavo fosse una cosa brutta. Lo riempii di pugni e gli ordinai di dire a suo padre che la puttana era sua moglie e non mia madre.

Quel giorno imparai a ferire le persone, a fargli fisicamente del male. Mi resi conto che infliggere dolore agli altri, alleviava un po' il mio. Mi faceva sentire meno a pezzi, fare a pezzi gli altri.

A sei anni, in quella classe piena di studenti della mia età, una bambina dai capelli lunghissimi mi chiamò mostro per la prima volta.

«Leon é cattivo» piangeva, sul suo banco e sui resti dei suoi libri ridotti a tanti piccoli coriandoli. Li avevo tagliati tutti perché aveva detto agli altri bambini che sua madre aveva chiesto alla preside di cacciarmi dalla scuola perché la mia, di madre, era una prostituta.

Prostituta era un'altra parola che non conoscevo, ma anche in quella sentivo ci fosse qualcosa di davvero brutto.

Fui espulso da scuola. Quando rientrai a casa, mamma non era arrabbiata con me, non urlò, non sbraitò, mi guardò con i suoi occhi stanchi e mi disse: «Vai in bagno, porta le macchinine con te e accendi la radio».

Perché la musica copriva le loro voci, ma io non lo sapevo. Così mi chiudevo in bagno, tutte le volte e giocavo, giocavo, giocavo.

Non tornai più a scuola, ma a farmi visita vennero tante persone che mamma detestava far entrare in casa. Li chiamava "assistenti sociali".

«Come stai Leon?» mi chiedevano, tutte le volte. E io rispondevo sempre allo stesso modo.

«Bene».

«Ti manca la scuola?»

«No».

«E giocare con gli altri bambini?»

«No».

«Perché? Non ti divertivi con loro?»

«Mi chiamavano cattivo e chiamavano la mia mamma in un modo che non mi piace».

JANE'S MEMORIES 1Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora