31. Non sceglie mai te

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𝗟 𝗘 𝗢 𝗡

York, Inghilterra. 2012

Avevo fumato l'intero pacchetto di sigarette, quel pomeriggio, e Jane aveva quasi contato tutti i fiori che ricoprivano il prato dell'istituto.

Mi chiedevo come potessero crescere fiori in un posto come quello. Con quale coraggio nascesse vita in tutta quella merda.

Mi chiedevo anche perché quella piccoletta dai capelli ricci continuasse a venire lì. Con le sue gonne corte da scolaretta e i sorrisi che quel posto non meritava.

Poi mi fermavo e ricordavo chi era sua madre. Chiamarla "malata di mente" sarebbe stato anche troppo gentile, come appellativo per la dottoressa Clark. No, quella donna meritava di essere chiamata a dovere: pedofila.

Lo avevo cercato nel dizionario a scuola, quel termine. Nessuno me lo aveva mai insegnato, avevo dovuto provarlo sulla mia pelle per scoprirlo, come tutte le altre cose brutte della mia vita.

Mi resi conto che, come David trascorreva tutto il suo tempo con la dottoressa Clark, io passavo il mio a guardare sua figlia.

Jane non si accorgeva mai di me. Non mi vedeva mai. Quei sorrisi che riservava solo al cielo o ai fiori, non li spendeva mai per me ed era un bene, perché non volevo che la sua pace toccasse anche me. Io non me la meritavo. Anche se, di notte, la sua voce mi cantava quella filastrocca e mi aiutava ad addormentarmi.

Andammo avanti così per settimane. Io che la guardavo, lei che ignorava totalmente la mia esistenza. Mi andava bene.

Mi era sempre andato bene, fino a quando, quei sorrisi, non iniziarono ad accendersi per David.

Accadde che lui, tra tutti i ragazzini dell'istituto, fu l'unico a rivolgerle la parola. Accadde che lei se ne innamorò con gli occhi.

«Sei geloso?» mi chiese David, un giorno di inizio estate, quando in camera non c'era ossigeno, a causa del caldo torrido, e fuori si bruciava sotto i raggi del sole.

«Di cosa?» ce ne stavamo seduti per terra, sotto l'uscio della porta che dava sul giardino interno. Consumavamo sigarette mentre bevevamo limonata.

«Che Jane parli con me» al suono di quel nome, trasalii, ma provai a nasconderlo. «L'hai vista comunque prima tu».

«E questo cosa vorrebbe dire?»

«Che è tua» disse, con una serietà che non mi aspettavo.

«Non è mica una bambola» presi un lungo tiro dalla mia sigaretta. Non avevo ancora sedici anni, ma già fumavo come se ne avessi ottanta.

«Però le somiglia» David si perse a fissare il vuoto e l'idea che nella sua testa stesse pensando a Jane in qualche modo strano mi provocò uno strano dolore allo stomaco. «No?» si voltò di scatto verso di me per chiedermelo.

Scrollai semplicemente le spalle mentre una nuvola di nicotina usciva dalle mie labbra.

David ghignò una piccola risata e disse: «Ha la pelle che sembra fatta di porcellana, un sorriso bellissimo e degli occhi meravigliosi».

«E tu ti fai scopare da sua madre» lanciai la cicca della sigaretta per terra con troppa energia, poi sollevai lo sguardo su David.

Ci fissammo senza dire niente e io capii che qualcosa non andava quando lui sospirò torturandosi le mani.

«Mi vogliono adottare» mi sparò lì, come se mi avesse detto che per cena la cuoca aveva preparato il polpettone.

Mi si fermò il cuore, ma non lo diedi a vedere e prima che potessi esplodere, la rabbia venne fuori nelle mie parole.

JANE'S MEMORIES 1Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora