Sogna un sogno indelebile.
Sbagliato: un incubo.
Suo padre incendiato dalla febbre, costretto a letto. Ha le palpebre livide e i tratti scarni, il biondo offuscato dal sudore che lo impregna e lo fa aderire alla fronte come un fine sudario intessuto d'oro.
Giulia si rivolta nel letto, scalcia le coperte ingombranti, le lenzuola che l'intrappolano come spire malvagie. Un vano dispendio di energie. L'incubo non si dissolve. Continua imperterrito in gemiti e lamenti e... Marcello.
Il suo giovanissimo, defunto marito.
Stanno acquattati in prossimità della porta, un andirivieni allarmato di schiavi e assistenti di Musa, il medico di suo padre. Silenziosi come due furfanti pronti a intrufolarsi nelle cucine a sgraffignare un compendio di dolciumi. Ma sulle loro espressioni non regna il ghiribizzo della gioventù birbantesca.
Un nodo soffoca la gola di Giulia nell'incubo, così doloroso e opprimente che stenta a respirare. Riesce a malapena a emettere sibili flebili, simili al guaito piagnucoloso d'un cucciolo. Marcello la stringe, la comprime in un abbraccio rassicurante. Lei seppellisce il viso nel suo petto, memorizza le sue fragranze.
È bello Marcello, un ragazzo speciale. Bravo, compito, un provetto piccolo aiutante. Il futuro di Roma splende di serenità con lui al comando. Giulia gli vuole tanto bene, un affetto da cugina che due anni di matrimonio stanno accrescendo in un informe, innominata, nebulosa sostanza nel petto. Un conglomerato di sensazioni, forse è prematuro attribuirgli il termine di amore, però è un buon traguardo.
«Stai tranquilla.» le sussurra Marcello, coccolandola dolcemente. «Si riprenderà vedrai. L'ha sempre fatto.»
Riprendersi? Il papà? Giulia osserva gli adulti, il loro scuotere incessante di capo, la cupezza oscurante i loro volti. Sono certi che morirà. La febbre lo sta scarnificando vivo, succhiandogli le forze, pugnalandolo con fitte insostenibili all'addome. Persino la zia Ottavia, di solito spumeggiante e briosa, un balsamo di serafica pace, emana una tristezza lugubre, indefinita, le labbra arcuate come uncinate dagli ami d'un pescatore.
Si disperano per il futuro, la successione, Roma. Cosa c'è da struggersi a riguardo? Il papà ha scelto un erede: Marcello, suo marito.
Marcello smilzo e avvenente nei suoi lussuregguanti, saettanti diciannove anni, tra poco li compirà. Non sarà il papà, però...
Però Augusto sta morendo. Suo padre sta morendo.
È una lancia trapassante il cuore, sorda, la realizzazione dilaga come una malattia. Papà sta morendo. Ha il respiro strozzato nella trachea, si mangia il labbro.
No, scuote i boccoli disfatti dall'angoscia, no, no, no e si ripara dentro Marcello, cadendo nella sua stretta, curandosi nella sua vicinanza, intanto che parenti e amici girovagano intorno a loro. Sono ombre anonime, sfumate. Si muovono in ambienti immanenti nell'incubo, stanze vuote come scatole. Non hanno nome o distinzione o un suono particolare. Fluttuano e li superano.
D'un tratto i battenti di legno si socchiudono e ne scivola fuori Agrippa. Agrippa, il buon vecchio amico Agrippa, tra le mani un bagliore minuscolo. Giulia si copre la bocca con le mani, non lasciando trapelare il singhiozzo sbigottito. Marcello sgrana gli occhioni blu, una variazione di zaffiro più scuro e meditabondo della loro famiglia.
L'anello imperiale, l'anello del papà. L'aquila cesariana spiegante le ali, aprente le zampe e immortalata nel volo.
Tenuto da Agrippa.
«Me l'ha consegnato.» dice Agrippa, il suo amato zio Agrippa. «Vuole... vuole che lo tenga io.»
Vuole. Non voleva. È ancora vivo.
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Meme dall'antica Roma con furore
RandomIl titolo parla da solo. Preparatevi al delirio.