Roma, Colle Palatino - 731 AVC (23 a.C)
Imperator
Comandante delle truppe, capo militare. Suo fratello, almeno titolarmente, le controlla tutte, la spietata e dinamica falce romana. Nel fatto è Agrippa a manovrarle, a calarsi nella mischia convulsa e fragorosa d'armi.
Agrippa. Braccia destro. E Mecenate, il sinistro micidiale nell'allestire l'impalcatura della propaganda. Ottaviano oscilla nel mezzo, giocatore incallito e lucido al banco della politica.
Ora... ora oscilla tra la vita e la morte.
Ottavia si china, gli spazza leggera un groviglio di ciocche dalla fronte, impiastrate di sudore. Imperator, imperatore, princeps. Quanto vale questa catena dorata se si rivela inutile a trarlo in salvo dalla morsa cocente della febbre?
Il fioco, depresso sole di fine gennaio trapela dal baldacchino, la neve sottile imbacucca i monti lontani, dissolti nell'orizzonte sfumato e la famiglia, Roma, lei, si raccolgono in preghiera, esasperando le divinità, Spes, Salus, la Dea Febbre e le sue perfide ancelle Tertiana e Quartiana, di risparmiare il signore dell'Urbe.
È troppo presto perché le Parche emanino la sentenza fatidica. Ottavia lo avverte inciso nelle ossa, in profondità, a quelle conserve di forza a cui attinge nei momenti bui. Suo fratello è ancora giovane, sorride alla vita e agli amici, si prodiga per Roma e per consegnare a Marcello e Giulia un'eredità salda e duratura, che il tempo non eroderà.
È impensabile che li abbandoni proprio ora.
Vaga nella cubicula imperiale - forse il luogo più privato del mondo - con un subbuglio burrascoso che le torce lo stomaco. Ottavia si stropiccia la tunica, le mani tormentanti, estensioni della sua ansia, e ogni tanto sgancia lo sguardo sull'involucro di carne e sangue e tenacia che rantola e si rifiuta di scindersi dalla sua fragile scorza nel letto.
Il suo fratellino. Il singhiozzo le ferisce la trachea, bruciante come un tizzone.
Ottaviano - o Augusto? Chi sono in procinto di perdere? Il fratello, il marito, il padre o l'istituzione? - sbuffa respiri intermittenti, unici segnali della vita che lo pervade. Fradicio di sudore, ciocche appiccicate, l'oro solare offuscato dalla malattia, la pelle tesa a snaturarne il decantato fascino apollineo in un ritratto di miserabile, esangue commiserazione.
Musa svolazza intorno al letto dell'importante paziente senza sosta. Trita un po' di quella, macina quell'altro, gli somministra quella mistura, applica quell'impacco, facendosi aiutare a sollevarlo gli alterna un ciclo di bagni caldi e freddi. Riequilibrerà gli umori, afferma.
Ottavia si fida di lui, è un medico competente. Un greco. In genere non la soffocherebbe l'angoscia, suo fratello ha ritratto un piede dal baratro della morte tante di quelle volte che ormai ha smesso di contarle. Ma adesso, ora...
Ora se Ottaviano - se Augusto - muore, Roma, e tutti loro, precipiteranno nel putiferio guerresco un'altra volta.
E nessuno lo vuole. Sono tutti stufi, la terra ha bevuto fin troppo sangue romano, Antonio e Cleopatra dovevano essere l'ultima, epica, trionfale battaglia prima di sbandierare la pace. Roma mendica la pace, la implora in ginocchio, e suo fratello la sta dispensando. Una pioggia torrenziale di pace. Mari sgombri dai pirati, strade sicure, granai traboccanti, casse rimpinguate.
È il perno della bilancia, stabilente la pace. Chiunque sa di vivere sotto una nuova monarchia, più discreta, meno pomposa, ma nessuno fiata per protestarlo. Lo sanno e non lo dicono. Il segreto meno segreto del mondo.
E la pace rimane.
Ma adesso la certezza s'inceppa e Ottavia corre alla porta, il fetore stagnante della malattia e delle medicine le punge gli occhi.
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Meme dall'antica Roma con furore
RandomIl titolo parla da solo. Preparatevi al delirio.