«Mamma guardaci!»
Lucio agita il rametto raccattato chissà dove con l'orgoglio fiero di un piccolo combattente. Il suo piccolo combattente. Giulia, appostata nella cavea rotonda delle sedute, una mezzaluna marmorea spolverata d'aghi secchi di pino marittimo e costellata di cuscini, imbastisce al suo bambino il sorriso più convincente.
«Vi vedo tesori!»
Lo stesso si può dire per Antonia. Sorveglia Germanico e Livilla con occhio di falco, la banda esaltata e pimpante di pesti patentate incuriosita dalla vena giardiniera di suo padre.
Il polmone verde del Palazzo si ricava un angolo lussureggiante, uno spicchio dell'arcadia cantata dai poeti. Mantenendo sempre la vigilanza serrata su Gaio, Lucio e fratellanza, Giulia sprofonda nei bagliori ridenti della fanciullezza.
Zio Mecenate e la congrega del Circolo animanti le sere afose di Roma, i tramonti incredibili e portentosi in un'apoteosi superba di viola e rosa e soffici sfumature d'oro, come se anche il cielo si fosse ammantato della porpora imperiale. Orazio e le sue battute argute, Virgilio e il rocambolesco viaggio di Enea. Ovidio e il suo spirito affilato, pungente, assortito agli splendidi boccoli castani... oh, giusto, giusto, poi la guardia allentata, i banchetti all'aperto, l'unica volta quella affrescata di stelle.
Che giorni. Nessuno li riporterà indietro. La febbre e lo sfinimento hanno strappato Virgilio a loro, prima Marcello, la zia Ottavia a momenti da l'idea di stare avvicinandosi ai cancelli dei Campi Elisi, deperita nell'isolamento funereo dopo la perdita del suo solo figlio maschio. Zio Mecenate lascia perplessi i medici, ormai più allettato di quanto lo si possa incontrare a passeggio nei suoi horti. Orazio non diserta un minuto dal suo capezzale.
E Agrippa...
«Non starai di nuovo pensando a lui.»
La voce di Antonia è un amo che la trascina dai fondali dei pensieri alla superficie della realtà. Il sole estivo circonfonde il curato paradiso boschivo in tinte terrose. Marrone, ocra, il verde odoroso del muschio. I copricapi rotondi dei pini marittimi, simili a cappelli di funghi, alcuni ingobbiti dalla forza del vento nel corso degli anni.
Sua cugina la sta fissando inebetita, una massa corposa di riccioli scuri, la capigliatura piena e insubordinata di Marco Antonio, che le incornicia il viso.
Capisce perché Druso la idolatri, la tartassi di baci, a ogni ritorno dai confini. Antonia Minore è carica, nella mascella calcata, negli occhi malandrini, d'un'energia prorompente. Le tracce della bambina scoppiettante d'euforia non sono affatto sbiadite, occultate dalla consorte fedele e madre devota.
Giulia sbuffa, curva il torso in avanti e si puntella il gomito al ginocchio.
«Era mio marito Antonia.»
«Tiberio è ora tuo marito, o l'hai dimenticato?»
Se esistesse un modo per dimenticare di essere stata appioppata all'individuo più marcio, barboso, insipido, lunatico e insopportabile della terra non avrebbe esitato a scovarlo, parola d'onore.
Antonia la fa facile: a lei è toccato il fratello buono. Druso, il piccolo demonio del Palazzo, cresciuto in un marito della più encomiabile, leale sorta. Mai che sia giunta voce, neppure un sussurro, di una svista, una scappatella, un tradimento nei quali agli uomini piace tanto sollazzarsi.
Druso adempie al suo dovere di padre e figlio, o figliastro: rinvigorisce l'albero della gens seminando eredi forti e rinforza i confini settentrionali, di stanza in Germania. Con Tiberio. Ecco, non può protrarre il suo comando quel brontolante, mogio di suo... marito. Dei, stenta ancora a credere che lo sia davvero.
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Meme dall'antica Roma con furore
AléatoireIl titolo parla da solo. Preparatevi al delirio.