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Derek

"L' inferno è dentro di noi. Lo portiamo nel profondo di noi stessi e ognuno di noi lo sperimenta a modo suo."
Alice Parizeau

13 anni prima...

«Cosa ci hai portato questa volta per merenda, sfigatello
«Vaffanculo, Cole», dissi infilando le mani nella tasca e sorpassando lui e l'altro suo compagno coglione.
«Dove stai andando piccolo stronzo?» Mi sentii tirare il cappuccio e il mio corpo esile fece due passi
indietro. «Ti ho fatto una domanda. Conviene che rispondi se non vuoi che rovini i tuoi bei occhietti o quel faccino così carino.» Mi pizzicò la guancia, prendendomi in giro.
«Lasciatemi in pace, per favore», mormorai abbassando lo sguardo.
«Oh... Il piccino ci prega di smettere... Sei proprio senza palle.»
Non ho mai avuto il coraggio di reagire.
Non ne ho mai parlato con nessuno, perché mi vergognavo.
Mi facevano del male ma non riuscivo a difendermi.
Sentivo i loro pugni sul viso, le loro prese strette attorno al collo, i loro calci nell'addome, le loro spinte, le loro risate.
Il mio cuore era rotto e non bastavano l'alcol o i cerotti che compravo ogni giorno per medicarmi di nascosto.
Non bastavano i miei genitori. Loro non sapevano niente, ed era meglio così.
Avrei fallito come figlio, come persona, come anima.
«Oh, abbiamo la crostata della signora Meredith, preparata con tanto amore...» Sghignazzò afferrando la coppetta dalla tasca del mio zaino. «Secondo te mette lo stesso sentimento quando fa i pompini a suo marito?» Domandò e il suo amico scoppiò in una fragrante risata.
«Provare per credere, Cole» Rispose alzando le spalle.
I miei occhi si riempirono di lacrime e fu difficile per me trattenermi. Sentivo sulle labbra il sapore ferroso del mio sangue e l'occhio destro pulsare.
Mi sentivo distrutto.
Si allontanarono lasciandomi così, inerme, sul pavimento freddo nel bagno degli uomini.

I quadri pittoreschi nel mio studio tappezzavano le mura grigiastre. Dalla finestra entravano i raggi del sole che scaldavano il freddo ambiente in cui matite e colori mi permettevano di creare opere d'arte.
Ero seduto alla mia scrivania di color noce; era interamente di legno ed era piena di fogli di disegno di vari formati, tavolozze di colori, matite, penne, gomme, tutto l'occorrente per la prossima opera che dovevo presentare alla mostra di Brooklyn.
Mi avevano commissionato un lavoro nuovo che mi richiedeva molto tempo. Il tema era la rappresentazione di ciò che può rendere felice l'uomo, sviluppato in tre fasi: l'attesa della felicità, il momento in cui si è davvero felici e la fase di stasi, dove la felicità si equilibra con la tristezza, cosa che accade normalmente ogni volta che si raggiunge un obiettivo o si trova la propria pace interiore.
Ma io non sapevo neanche da dove iniziare.
Dovevo portare a termine queste tre opere nel giro di sei mesi, proprio per la preparazione della mostra che si sarebbe tenuta a giugno prossimo e oltre questo, avrei dovuto lavorare ad altri quadri.
Se il tema della mostra fosse stato ciò che rende l'uomo infelice, sicuramente avrei saputo da dove incominciare. Ciò che a me ha distrutto sono state le persone. Mi hanno reso vulnerabile, sensibile, fragile, cicatrizzato, con un cuore di pietra che niente e nessuno può più scalfire, ma non perché avevo qualche potere... Semplicemente, me lo imposi.
Mi imposi di non lasciarmi sopraffare dalla gente, mi imposi di essere più forte, più stronzo, più freddo. Mi imposi di non provare sentimenti o emozioni per loro.
Le persone sono marce, povere, prive di anima. Proprio come me. E io sono come loro. In realtà non sono diverso, sono solo diventato colui che vive perennemente nella sua oscurità e che non indossa più maschere per il piacere della società.
Questo nessuno poteva cambiarlo.
Ma, comunque, il disegno mi ha salvato. Le mie mani, piene di ferite mi hanno salvato. La mia passione ha conservato un briciolo di vita nella mia anima, ormai scarica.
Rimasi a guardare a lungo il foglio davanti a me, e seduto nella poltrona in pelle in tinta con la mia scrivania, ci pensai a lungo.
Il tema per questa mostra faceva schifo, come faceva schifo il mio umore per disegnare qualcosa di bello.
Cosa avrei dovuto ritrarre? Una donna nuda? Il sesso? La lussuria? O un prato fiorito con una casetta di campagna? Scartai quell'ultimo pensiero.
Avrei dovuto pensare a cosa potesse rendere felice me, ma la mia mente non riusciva a concentrarsi.
Avevo bisogno di staccare. Eppure, quel giorno, a parte fumare un pacchetto da venti sigarette in meno di 12 ore, non feci niente di particolarmente stancante. Era stata una giornata abbastanza soft.
Avevo bisogno di allenarmi, o forse, semplicemente di scopare.
Non riuscivo a fottermi la stessa persona per una settimana, semplicemente perché le donne finivano sempre per volere di più, e poi sempre di più, fino a che non si innamoravano.
Ma io non ero proprio fatto per l'amore.
Amore, amore, amore... Che parola di merda. Non sapevo neanche cosa significasse, l'amore. Sul dizionario c'era scritto che era un sentimento di affezione verso un'altra persona, col desiderio di procurare il suo bene e di godere della sua compagnia.
Stronzate.
Era tutto ciò che non mi apparteneva. Per me erano un mucchio di parole senza senso scritte su uno stupido libro.
Io non provavo sentimenti, ero apatico alla vita, e tutto ciò che forse potevo provare per una persona era quello di averla, possederla, sottometterla e farla soffrire. Ma anche il desiderio di stare sempre a un passo avanti, stroncarla non appena emette un suono diverso da quello che avrei voluto sentire, annientarli qualora mi dessero fastidio e mandarli a fanculo non appena mi rompevo il cazzo di averli attorno.
Proprio come hanno fatto con me, e non avrei permesso a nessuno di farlo ancora.
Mi alzai dalla mia postazione e decisi di raggiungere la palestra dove ero solito allenarmi. Erano le quattro del pomeriggio, e in genere a quell'ora era difficile trovare affollamento. Odiavo il contatto con le persone, e se mai capitava era sempre per un torna conto. Tranne per le donne, con loro mi piaceva instaurare un rapporto, occasionale, ma pur sempre un rapporto.
Da piccolo mi hanno sempre snobbato, dicevano che ero uno sfigato, un saputello, minuto e senza palle.
Sulla soglia dei miei ventinove anni posso dire che dieci donne su dieci cambiarono idea. Mi era bastato allenarmi e scoparle senza pietà. Far sentire loro piccole, tremendamente piccole. Farle sentire vergognosamente sporche, fottutamente nel torto, per avermi denigrato.
Mi era bastato riempire le loro gole col mio cazzo per farle soffocare e rimangiarsi tutto ciò che mi dissero in passato.
Mi era bastato riempire tutti i loro buchi, per farle pentire del male che mi procurarono con le loro parole.
Arrivai di fronte la palestra e tirai fuori il mazzetto di chiavi. Frequento questa struttura da quando avevo vent'anni: decisi di allenarmi dopo un periodo molto buio della mia vita, in cui ci fu anche una ragazza che mi spezzò il cuore.
Ormai sono otto anni che pratico sala pesi. Presi anche diversi brevetti come personal trainer, perché fu uno dei miei pochi sfoghi, assieme al disegno. Per ricavare qualche soldo per trasferirmi a Brooklyn e frequentare l'accademia dell'arte, e per ottemperare alle spese di casa, decisi di collaborare in struttura e mi assunsero come personal trainer non a tempo pieno, ma solo per sostituzioni e a me andava bene così. Proprio per questo, il proprietario decise di darmi le chiavi e potevo aprire e chiudere la palestra quando volevo. Molto spesso mi allenavo di notte, proprio per evitare il via vai di troppe persone, ma quella sera avevo altro in programma.
«Coach», feci un cenno col capo alzando il braccio per porgergli il saluto. Era l'unica persona degna del mio rispetto: mi fece allenare mattina e sera pur di farmi entrare in un buon stato fisico. Mi è stato accanto in tutti questi anni. Gli dovevo tanto.
«Derek», replicò battendomi il cinque. «Strano averti qui, di solito i tuoi allenamenti sono solitari e notturni.» Stava seguendo una signora iscritta da poco in un esercizio particolarmente difficile. Ma era un grande, infatti, sapevo che nonostante fossi un veterano, avevo ancora tanto da imparare da persone come lui.
«Già, ma stasera ho altri programmi... Sto lavorando anche ad un progetto complicato e ho bisogno di scaricarmi», dissi posizionandomi su un tapis roulant.
«Sono sicuro che andrà bene, ho visto la mostra dello scorso inverno... Sei formidabile nei tuoi disegni. Anzi, credo proprio che dovresti ritrarmi.» Affermò con una nota ironica e io curvai mezzo labbro in un debole sorriso.
Sorridevo poco e non mi piaceva neanche farlo.
«Quando vuoi, Coach.» Cominciai a correre sul tapis roulant e sentivo già la maglietta bianca grondare di sudore. Indossavo una canotta che aderiva perfettamente al mio petto scolpito e un pantaloncino nero con delle righe bianche ai bordini marcato Nike e le scarpe da ginnastica in tinta.
Incominciai i miei allenamenti e decisi di optare per un total body: un esercizio di gambe, uno di glutei, addorme e dorso, bicipiti e tricipiti.
Avevo gli occhi di tutte le ragazze della palestra puntati addosso e tre di queste erano già state abbondantemente spogliate e scopate.
Mi piaceva essere guardato da loro in quel modo: più di tredici anni fa non avrei detto lo stesso, odiavo gli occhi puntati su di me ed essere sotto i riflettori.
Iniziai il mio allenamento e cominciai a sollevare i miei pesi.
«Derek stiamo andando alla grande, ci sono già nuove iscrizioni per quest'anno.» Le mie tempie erano sudate, e sentivo le goccioline scorrermi lungo il collo. Una tipa mi guardava mentre eseguiva i dieci squat dettati prima dal coach. Io la guardai a mia volta, mordendomi il labbro inferiore.
Era davvero appetibile: aveva il seno sodo, i capelli lunghi neri e dei glutei alti. Aveva un fisico mozzafiato. E credevo di averla già vista, sicuramente in un locale qui a Brooklyn. Doveva essere una qualche ballerina o show girl.
Se in quel momento fossimo stati da soli, l'avrei piegata a novanta su uno di quegli attrezzi e le avrei concesso il mio corpo. Anche se era molto difficile che io mi lasciassi toccare da qualcuno, ero più io ad aprire le danze.
«Ottimo. Hai bisogno di una mano?» Finisco l'esercizio dei bicipiti, abilitando il cronometro e impostando un minuto di riposo.
Non volevo disturbarti, so che sei molto indaffarato col lavoro.»
«Domani mattina ho un ritratto, mi toglierà sicuramente tutta la mattinata. Però, posso fare il turno pomeridiano.» Riprendo in mano il peso per fare la mia serie, alternando un braccio e poi l'altro.
«Allora... Ci vediamo domani alle 15. Io mancherò per qualche ora, devo accompagnare mio figlio ad un torneo di basket.» Annuii a quelle parole.
Mio padre non mi aveva mai accompagnato ad un torneo di basket, tanto meno ad un allenamento. Non era mai presente per me ed è stato un egregio figlio di puttana. Forse il figlio delle più amabili puttane che avessi mai conosciuto.
«Non c'è problema, posso sostituirti io.» Il Coach mi diede una pacca sulla spalla e io trasalii.
Ero consapevole che dentro di me c'erano ancora tante cose irrisolte, vivevo coi miei mostri e coi miei fantasmi e facevo fatica a sopportare le mani delle persone addosso.
In meno di due ore finii il mio allenamento. Ebbi tutto il tempo gli occhi di quella mora palestrata addosso, il che non mi dispiaceva perché i suoi occhi sussurravano apertamente scopami.
«Vuoi un passaggio?» Si fece avanti mentre sventolava il mazzo di chiavi dell'auto davanti ai miei occhi.
Abitavo a due passi dalla struttura sportiva, quindi non usavo mezzi per raggiungerla. Era anche mia abitudine associare una corsetta post-allenamento, ma decisi comunque di farle beneficiare della mia attenzione.
«No, abito qui vicino.» Alzai il cappuccio della felpa sulla mia testa e infilai le mani in tasca al giubbotto.
«Be'... Potrei accompagnarti. Ti sei allenato duro oggi, penso ti meriti un po' di riposo», mi sussurrò e si avvicinò pericolosamente al mio corpo. Troppo.
«Non ti ho dato il permesso di avvicinarti.» Lei mi guardò dritto negli occhi. Le sue pupille mi fissavano in profondità, ma per fortuna non troppo per scavarmi dentro. «E non ti ho dato neanche il permesso di fissarmi», affermai torvo.
Lei inchiodò il suo sguardo per altri due eterni secondi e poi diede aria alla bocca. «Io penso che tu non sappia scopare.» Cercai di contare fino a cinque, ma ancora prima di iniziare, sentii il sangue ribollirmi nelle vene.
Le presi violentemente la testa, stringendole i capelli. Lei emise un piccolo ansimo di dolore e non me ne curai. In realtà, non mi curavo mai di un cazzo quando si trattava delle persone.
Avvicinai il suo viso al mio, tenendo ancora i capelli ben saldi al palmo della mia mano.
«Mi stai facendo male, coglione», sussurrò stringendo i denti. «E quella è l'unica spiegazione per il tuo fare così burbero e arrogante.»
Questa volta fui io ad avvicinarmi a lei. Perché decidevo io se e quando una donna poteva annullare le distanze e se e quando poteva toccarmi.
«Se mi ritrovassi in un locale con te, sai cosa farei?» Strinsi ancora più forte la presa.
«Mi... Mi fai male.» La ignorai.
«Mi apparterrei con te su un divanetto, ti piegherei a novanta e ti fotterei come si fa con le puttane», sussurrai e le lasciai un bacio umido sulla guancia che sapeva di fondotinta. Poi mi distaccai dalla sua pelle unta di trucco e continuai. «Ti riempirei e ti farei male. E tu mi pregheresti di smettere perché è troppo da sopportare, ma io continuerei ignorando completamente le tue richieste. E saresti anche fortunata se dopo la scopata con questo coglione, riusciresti a tornare a casa con le tue gambe.» Lasciai la presa dei suoi capelli e lei trasalì, rimanendo senza parole. Io la guardai negli occhi che erano carichi di lacrime. Forse le feci davvero male ma non quanto male avessi provato io quando mi prendevano a cazzotti nel cortile della scuola. Poteva sopportarlo.
Mi girai pronto per tornare a casa e farmi una doccia, ma sentii ancora la presenza di quella ragazza dietro di me.
«Aspetta.» Rimasi di spalle e non le degnai di uno sguardo. «Stasera mi esibisco al Gemini.» Non mi voltai ma curvai leggermente il labbro. «Se vuoi venire, mi trovi all'entrata.» La sua voce era quasi un soffio ma desiderosa di avermi. Lo sentivo.
Forse era curiosa di sapere se quello che le avessi detto fosse la verità?
Il Gemini era un locale molto conosciuto a Brooklyn, dove andavano uomini d'affari ma anche poco raccomandabili.  Si chiamava così perché i proprietari erano due gemelli ed era come vivere nel paese dei balocchi, potevi fumare, divertirti, tradire tua moglie o tuo marito, e tutto rimaneva lì, al Gemini. Era il porto sicuro per chiunque volesse avere una serata da sballo, senza farsi scoprire grazie alle sue camere al piano di sopra. Era un grande Hotel con dentro una discoteca, con la differenza che per potervi accedere dovevi obbligatoriamente sapere la parola in codice, che conoscevano solamente le persone iscritte in lista, le quali dovevano essere invitate da un dipendente della struttura.
«Posso invitarti io.» Aggiunse.
«Credo che sarebbe un grosso guaio per te, se io decidessi di accettare.» Quella ragazza non aveva proprio idea a cosa sarebbe andata incontro. «Potresti diventarne dipendente. Mentre per me tu finiresti nel dimenticatoio.»
Non le dissi né sì e neanche no, non le diedi il tempo di controbattere perché mi allontanai subito dopo.
Doveva rimanere col dubbio per essersi comportata da sprovveduta.

The Silence of a PromiseDove le storie prendono vita. Scoprilo ora