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"Ci sono dei momenti in cui la follia diventa così vera che non è più follia

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"Ci sono dei momenti in cui la follia diventa così vera che non è più follia."
Charles Bukowski


Mi godetti le sfumature dei colori del tramonto italiano e la vista di alcuni uccelli che volavano liberi e alti nel cielo.
Victoria nella presentazione del suo ultimo quadro parlò di libertà; la stessa libertà a cui io rivolsi il mio brindisi durante la cena di lavoro, cercando invano di farle aprire gli occhi.
In quella stessa sera, quel figlio di puttana, drogò la mia piccola Margherita e la violentò.
Avrebbe pagato per questo.
Victoria non lo denunciò e da un lato mi permise di pensare a quello che avrei dovuto fare nel frattempo.
Non essendoci di mezzo la polizia, la mia mente si proiettò verso altri possibili scenari, come quello in cui l'avrei ucciso.
Non mi sarei lasciato scappare l'opportunità di farlo a pezzi.
Disintegrarlo.
Ridurlo in polvere.
Avrei fatto ricerche su ricerche e avrei ingaggiato anche un investigatore privato se sarebbe stato necessario.
Dovevo trovarlo. Costava quel che costava, sarebbe passato sotto i palmi delle mie mani e non gli avrei risparmiato neanche un capello.
Mi accarezzai il mento, pizzicandomi con due dita la barba e mi morsi l'interno guancia.
Durante le ore del viaggio, lei si addormentò poco dopo la nostra piccola follia.
Aveva la testa poggiata sulla mia spalla e il profumo dei suoi capelli mi tenne compagnia.
Mi toccai più volte la patta dei pantaloni, in quanto il mio organo era ancora contratto e risentii della mancanza del suo tocco.
In realtà, non mi sarebbero bastate le sue mani o la sua bocca. Ero ad un punto in cui non riuscivo più a saziarmi con dei semplici preliminari.
Avrei voluto prendermi il suo corpo, farla arrendere al mio e incatenare la sua anima con la mia, macchiandola di oscurità.
Forse ero diventato egoista: mentre un mese prima le avrei risparmiato quella inutile sofferenza, in quel momento, il mio ego instabile e la mia eccitazione impellente e scottante, non mi fecero ragionare.
L'avrei scopata.
In qualsiasi angolo libero che avessimo avuto a disposizione.
Avevo voglia di farci sesso, anche di nascosto, soffocandole i versi osceni che le sarebbero usciti dalla bocca.
Mi stava di nuovo venendo duro e non potevo concentrarmi ancora sul pensiero del suo corpo nudo.
Guardai poi fuori dal finestrino e potetti notare sotto di noi la pista di atterraggio, segno che da lì a breve saremmo atterrati.
«Si prega di attaccare le cinture di sicurezza.»
Una voce metallica risuonò nell'abitacolo e io eseguii l'ordine.
«Credo che sia ora che tu ti sveglia», le sussurrai all'orecchio.
«Sì, cinque minuti...» La sua voce era mugolante e assonnata, così mi chinai per allacciare la cintura. L'avrei volentieri legata un'altra volta.
«Non credo che tu abbia cinque minuti, Bocciolo...», sussurrai alzando leggermente la spalla per invogliarla a sollevarsi. «O se vuoi posso sculacciarti, magari ti riprendi.» Ammiccai mentre i suoi occhi si schiusero e si ricompose. Passò la mano sulla bocca per asciugarsi le labbra, mentre alzò gli occhi al cielo.
«Non è divertente», affermò stizzita.
«Non voglio che lo sia.»
I miei occhi puntati su di lei la fecero cuocere e lo potetti notare dalle sue gote arrossate.
Adoravo metterla in imbarazzo e ancora di più riuscirci in un tempo massimo pari a tre secondi. Ogni mia parola, frase e sibilo erano in grado di farla rabbrividire.
Avvertivo il suo senso di disagio e la sua disapprovazione.
Ma era ciò che pensavo davvero.
Non volevo che fosse divertente, tutto il contrario. Volevo che fosse il gesto a cui avrebbe pensato nelle prossime ore e che avrebbero portato a termine quella giornata.
Si schiarì la voce, mettendosi comoda.
«L'atterraggio è meglio o peggio del decollo?»
La sua domanda destava la sua enorme preoccupazione. Il suono vibratorio che emisero le corde vocali era un chiaro segnale di paura.
«Dipende dai punti di vista, Fiorellino.» Lei mi guardò, alzando un sopracciglio. «Se ti piace il rischio, la velocità, l'adrenalina... Potresti trovare eccitanti i 240-260 chilometri orari che un aereo intraprende per atterrare.»
Lei sgranò gli occhi e deglutii mentre io mi godetti i suoi denti afferrarsi le labbra per mangiucchiarsele.
«Non sei di aiuto, Derek Moore.»
Strofinò i palmi delle mani sulle sue cosce, visibilmente agitata.
«Non ti piace l'adrenalina e il pericolo, piccolo Fiore?»
Iniziammo la fase di atterraggio, così, lei si aggrappò ad entrambi i braccioli del sedile.
«Non è momento di fare i tuoi soliti giochetti...» Squittii e chiuse gli occhi, mentre il mio labbro inevitabilmente si curvò dando inizio ad un piccolo sorriso.
Quasi mi intenerì.
La velocità aumentò dopo qualche secondo, fin quando l'aereo non toccò il terreno e pian piano cominciò a frenare.
Riaprii prima un occhio, poi l'altro, rendendosi conto che eravamo letteralmente fermi.
«È stato così terribile?» Domandai, ironicamente. Slacciammo le cinture di sicurezza e lei tirò un sospiro di sollievo.
«Non quanto le ore di viaggio in tua compagnia.»
Ci alzammo entrambi e lei si sistemò il vestitino, lanciandomi un'occhiataccia.
«Non mi risulta che siano state così terribili, sai, Fiorellino?», controbattei con una domanda al quanto scomoda per lei. «Ricordo qualche tuo mugolio non indifferente...», la provocai mentre arrossii ancora di più.
«Scendi da questo aereo», sussurrò infastidita. Io sghignazzai, mentre lei mi sorpassò.
Una volta giù, sbloccai il mio i-Phone togliendo la modalità aereo. La prima cosa che feci fu contattare Thompson mentre un taxi era già pronto per scortarci verso il nostro hotel.
«Appena atterrati», pronunciai quella frase non appena sentii dall'altra parte della cornetta la voce del nostro capo.
«Luxuria Hotel. Appena arrivate troverete la prenotazione a mio nome. Ho scelto un hotel in una zona non troppo affollata», disse Thompson mentre Victoria consegnò la sua valigia al taxista.
«I colleghi vi raggiungeranno domani pomeriggio, così potranno partecipare alla riunione. Confido in te Moore, il contratto di cui ti ho parlato prima vale un sacco di soldi. I tuoi quadri devono essere esposti anche in Italia e non c'è affare migliore che collaborare con questi artisti italiani.» La sua voce era autoritaria, ferma e sicura. Si fidava di me e sapeva benissimo che sarei riuscito a portare a termine questo contratto.
«Sarà facile, Sig. Thompson», risposi e mentre il taxista mise nel cofano anche il mio bagaglio, Victoria si accomodò nell'auto.
«Ah e Derek», disse e poi si fermò per prendersi una pausa. «Confido anche nella tua assoluta onestà. Non voglio voci di corridoio che alludono a te e a quella ragazza.» Riuscii ad avvertire la sua nota di rimprovero nel tono della voce. «Siete colleghi di lavoro. Lei la tua stagista, tu il suo tutor. Non voglio scandali, tanto meno pettegolezzi. Condividerete il medesimo spazio solo per il lavoro, altri incontri al di fuori sono vietati. Sono stato chiaro?»
«Io e Victoria Brown fuori dal lavoro non abbiamo niente da spartire.»
L'avevo desiderata, voluta, baciata e toccata. In ogni dove. In qualsiasi momento.
In realtà... Avevamo ancora tanto da condividere.
«E deve continuare ad essere così.» La sua replica mi sfiorò quasi lo stomaco, perché ricordai a me stesso che stavo tradendo la sua fiducia. Non avrei dovuto farlo, dopo tutto quello che Thompson aveva fatto per me.
«Puoi darmi la tua parola?» Si accertò che non gli stessi mentendo.
Guardai Victoria attraverso il vetro e lei ricambiò.
Per un attimo le nostre pupille si rincorsero e si incastrarono come pezzi di puzzle.
Lei era inevitabile per me.
E, inevitabilmente, non avrei mantenuto la parola.
Serrai la mascella per poi deviare lo sguardo. «Ha la mia parola.»
«Godetevi il soggiorno a Roma», disse soddisfatto. «E riposati. Domani sarà una giornata intensa.»
«Buona giornata, Sig. Thompson.»
«A te, Moore.» Riattaccò.
I miei nervi erano così contratti tanto da farmi venire un'emicrania.
Infilai il cellulare nella tasca della giacca e mi ricomposi. Raggiunsi Victoria in auto e diedi l'ordine al taxista di partire.
«Luxuria Hotel.»







Dopo circa venti minuti di strada, arrivammo finalmente nell'hotel in cui io e Victoria avremmo alloggiato.
Il Bocciolo rimase stupita dall'incredibile bellezza della città. Passammo dalla caratteristica Fontana di Trevi e il Colosseo. Rimase a bocca aperta mentre gli occhi le sbrilluccicavano ad ogni angolo di strada percorso.
Entrammo nella hall in cui il receptionist ci accolse con gentilezza e intrepida attesa. Era un hotel di lusso con un'architettura prettamente in chiave moderna.
«Benvenuti nel nostro hotel. Signor Moore e Signorina Brown.» Le fece il bacia mano.
Studiò con le sue pupille verdi ogni centimetro di quel posto e io non potetti far a meno di guardarla.
Sarei tanto voluto entrare nella sua testa per capire cosa pensasse e cosa provasse.
«Le chiavi delle vostre stanze sono queste», disse andando dietro l'enorme scrivania in vetro specchiato. Si girò aprendo un piccolo mobiletto e ne afferrò due. «Stanza 425 per la signorina e la 426 per lei.»
Afferrammo rispettivamente le chiavi e ci guardammo per un attimo. «La colazione sarà servita nel ristorante dell'hotel, proprio a due passi da questa hall. Avete domande?»
«Dove si terrà la riunione di domani pomeriggio?», chiesi. Thompson mi aveva accennato che si sarebbe tenuta proprio in quell'hotel.
«Al secondo piano, nella sala meeting. Verrete scortati dal personale in servizio.»
«E le nostre camere si trovano?»
«Al terzo piano.»
Victoria rimase in silenzio. La sua timidezza prese il sopravvento e non spiaccicò parola per tutto il tempo.
«Vi scorto con le valige...», disse ma io lo interruppi mantenendo saldamente i nostri bagagli.
«Non ce n'è bisogno. Facciamo da soli. Vi ringrazio per la disponibilità.» Mi girai verso Victoria che tenne le braccia incrociate dietro la schiena. «Andiamo?»
«Sì, certo.»
«Sono le ultime due stanze infondo a destra.»
Ci recammo verso gli ascensori che costeggiavano le mura laterali della struttura ed entrammo dentro, pigiando il tasto corrispondente del piano.
«Sei agitata, Fiorellino?»
«Agitata? Cosa te lo fa pensare?»
«Il tuo silenzio.»
«N-No. Non sono agitata.» Tartagliò tradendo le sue stesse emozioni.
L'ascensore si bloccò e le porte si aprirono di scatto, donandoci la vista di un corridoio con un pavimento coperto da un tappeto rosso che si estendeva per tutta la sua lunghezza.
Dei sontuosi lampadari posti ogni dieci camere davano una luce immensa, amplificata da quella naturale che subentrava dalle finestre.
Cercammo rispettivamente le nostre camere, fino a quando non arrivammo alla fine del corridoio.
«Sono queste», disse sporgendosi per leggere il numero dorato incastonato sulla parte superiore della porta.
Erano una di fronte all'altra.
«Okay...» Deglutii e aprii la porta. Rimase senza parole quando notò l'arredamento della sua stanza. Una maxi-tv al plasma, un letto a baldacchino di forma rotonda, una grande finestra che affacciava su Roma, un pavimento di marmo chiaro lucido che rifletteva la luce del sole.
Tutto era curato nei minimi dettagli.
Entrò lentamente guardandosi attorno e io la seguii a ruota, richiudendo la porta alle mie spalle.
Dopo di che alzammo entrambi lo sguardo, notando che sul soffitto c'era un enorme specchio che rifletteva il letto.
«E questo?», domandò rimanendo stupita. «Guardare il proprio riflesso mentre si cerca di dormire non era nei miei programmi.» Affermò ironicamente.
Mi posizionai dietro di lei e chinai le labbra al suo orecchio. «Magari potresti renderlo interessante.»
Lei girò il volto mentre le nostre bocche erano pericolosamente vicine. «Va' nella tua stanza», sussurrò. «Dovresti disfare le tue valige visto che staremo qui una settimana.»
Tutto mi attirava di lei, perfino i modi estremamente gentili che aveva nel liquidarmi.
«Mi stai cacciando, Brown?» Lei osservò la mia bocca cercando un modo per non lasciarsi abbindolare da me ancora una volta.
Esercitavo un controllo su di lei che mi eccitava al punto di non riuscire più a distaccarmici.
«Evito di condividere ancora altro tempo con te, Derek Moore...», disse incrociando le braccia e facendo un passo indietro.
Amavo giocare con lei.
Ma soprattutto, amavo vincere.
«Sicuramente non è tempo sprecato, Fiorellino.»
Le spostai qualche ciocca di capelli dietro l'orecchio, mentre lei si morse ripetutamente il labbro.
E io avevo proprio voglia di prenderlo fra i denti.
«Non riesci proprio a star lontano da me», affermò in maniera decisa contrastando l'imbarazzo che albergava nel suo animo.
No, non ci riuscivo.
«Mi attrai in una maniera che neanche mi spiego.» Rivelai guardandola negli occhi. «Ogni tuo fottuto centimetro di pelle e ogni tuo respiro richiama il mio desiderio di averti.» Mi avvicinai a lei e a sua volta fece un passo indietro, arrossendo visibilmente.
«Derek... Non dovresti parlarmi così», balbettò, dimostrandosi tutt'altro che apatica alle mie parole.
«E come, Fiorellino?»
Un ulteriore passo indietro precedette la sua schiena contro il muro e le sue guance tremendamente arrossate. Era simile ad una bimba durante il suo primo giorno di scuola, ignara di ciò che le sarebbe successo.
«Come una collega di lavoro...», mormorò buttando giù la saliva e scavandomi con le sue pupille verdi come la speranza all'interno della mia anima graffiata e corrosa.
«E tu non osservarmi in maniera così oscena, Bocciolo.» Poggiai una mano al muro all'altezza del suo capo. «A chi vuoi prendere in giro?»
Sospirò.
Faticò qualche secondo nel rispondermi, poi socchiuse gli occhi. «Per te è solo un gioco, vero?»
Non capii il senso della sua domanda.
Cosa voleva insinuare?
«Perché, cos'è per te, Fiorellino?» Le accarezzai una guancia col dorso della mano e avvertii il suo corpo irrigidirsi sotto il mio tocco.
Girò lo sguardo verso un punto cieco. «Niente. Non è niente.»
Bugiarda.
Per me era un gioco in cui io e lei ci stavamo divertendo. Giovavamo entrambi.
«Il gioco prima o poi dovrà finire.» Continuò con un tono di voce serio.
«E tu vuoi davvero che finisca?»
Dondolò avanti e dietro con le gambe come se stesse fremendo nel darmi una risposta.
Sembrava sfinita da quella conversazione e col respiro corto, mi diede la risposta che desideravo.
«Ho voglia di baciarti, Derek Moore. Questa risposta ti basta?»
«Non mi basta niente di te.»
Le presi con una mano il collo e trascinai la sua testa verso di me. Stringendola con forza, la baciai intensamente. Entrambi schiudemmo la bocca, facendo sì che le nostre lingue giocherellassero insieme. Lei poggiò le mani sui miei fianchi, mentre io, con l'altra, le sollevai il vestito palpandole il gluteo sinistro.
Si lasciò scappare un gemito strozzato, mettendosi in punta di piedi per arrivare meglio al mio viso.
Mi distaccai lentamente, lambendo le sue labbra.
«Vorrei...», iniziai a parlare e dal gluteo, le mie dita passarono sul tessuto dei suoi slip. Lei gemette e alzando il collo, poggiò nuovamente la testa al muro.
«C-cosa?», balbettò in preda all'eccitazione.
«...Farti venire qui. Adesso.» Strofinai le dita sul tessuto, concedendole un altro gemito strozzato.
Ma avevo in mente altro.
Un'idea mi balenò nel cervello.
L'avrei fatta patire ancora un altro po'.
«Sei un maledetto...», squittii non lasciando spazio ad altra interpretazione.
Era bagnata quanto eccitata e presa da me.
Ed io ero preso da lei.
E anche il mio cazzo duro come una pietra.
Resisti Derek.
Le mie dita vagarono sul suo tessuto e si inumidirono dei suoi umori.
«Mm... E tu sei maledettamente bagnata per me», le baciai lentamente il collo mentre lei si aggrappò ai miei capelli, attorcigliandogli attorno alle dita. «Ma non sarò io il tuo pasto e tu il mio.» Allontanai la mia mano e abbassai il vestito.
Lei riaprii gli occhi rimanendo pietrificata. «Che programmi hai per stasera a cena, Victoria?»
«Tu e i tuoi soliti giochetti di merda.» Mi allontanò spintonandomi leggermente con le mani. «La tua stronzaggine non ha limite!»
Sogghignai e curvai leggermente il labbro per la sua sfuriata.
«Potrei farmi perdonare con una cena?» Domandai ruffiano mentre lei sembrò pensarci su.
«Potrebbero vederci.» Aggrottò la fronte. «E come lo giustificheresti?»
«Gli altri arriveranno domani mattina. Chi vuoi che ci veda qui in Italia, Fiorellino? Te lo dico io: nessuno.»
Incrociò le braccia e inarcò un sopracciglio. «Allora? Quanto devo attendere?»
«Dovrei prenderlo come un appuntamento?», chiese seriamente.
«Che?» Quasi non mi si seccò la bocca per la sua domanda così sfrontata.
Lei scoppiò a ridere con gusto e poi tornò seria, schiarendosi la voce. «Sto scherzando, Moore. Non agitarti, potrebbe salirti la pressione.»
Adoravo quando era in grado di tenermi testa.
Alimentava la mia voglia di farle male.
Contrassi la mascella e camminai verso lo stipite della porta.
«Verrò a bussare alla tua porta tra mezz'ora. Non indossare le mutandine o potrai pentirtene.»
«Cosa?», sibilò scioccata.
«La tua sfacciataggine me lo fa diventare duro, ma ciò non toglie che debba punirti per le tue risposte spocchiose.»
Aprii la porta e le diedi un ultimo sguardo.
«Non lo farai.» Replicò con sicurezza. Mi guardò con aria di sfida e io contraccambiai volentieri quello sguardo. Poi mi dileguai, lasciandola incompresa e terribilmente infastidita.
Entrai nel mio alloggio, dando subito un'occhiata in giro.
La mia camera era pressoché simile a quella di Victoria se non per la mancanza di quello pseudo specchio al soffitto.
Disfai il piccolo trolley, lasciando sul letto i vestiti che avrei indossato per la cena di quella sera. Prenotai in un ristorante non troppo distante dal nostro alloggio.
Subito dopo feci immediatamente una doccia e notai come il mio addome era ricoperto da croste che mi davano un leggero prurito.
Dovevo star lontano dal mio amico per una settimana e imposi a me stesso di resistere alla tentazione di farmi del male.
L'unica speranza che risiedeva nel mio animo era la compagnia di Victoria che era in grado di allontanare quei pensieri malsani dal mio cervello.
Perché l'unico pensiero malsano in quel momento era lei.
Mi vestii in fretta, indossando una camicia nera con le maniche arrotolate sino ai gomiti e una giacca di pelle altrettanto nera.
Rispetto a New York, le temperature italiane erano nettamente più calde anche essendo in pieno inverno.
Optai per un jeans scuro e degli stivaletti anch'essi in pelle, abbinati con la camicia. Misi il gel nei capelli buttandoli all'indietro e lasciando un piccolo ciuffo ribelle sulla fronte.
Misi un po' di profumo e poi mi accesi una sigaretta, affacciandomi al grande balcone che costeggiava la camera.
Decisi di lasciare a quel piccolo Fiore cinque minuti in più, per decidere se rispettare o meno la mia richiesta.
In realtà, sperai tanto che facesse tutto il contrario rispetto a quanto le avessi chiesto. Avevo voglia di sculacciarla e punirla come solo io sapevo fare con lei.
Tanto gli slip l'avrei tolti comunque.
Con o senza il suo permesso.
Feci un ultimo tiro e poi schiacciai la sigaretta in un posacenere posto su un tavolino piccolo in legno che riprendeva lo stile moderno della camera. Chiusi la porta finestra e subito dopo mi diressi verso la sua stanza.
Molto probabilmente avvertii i miei passi, perché aprii subito.
Ciò che i miei occhi videro era qualcosa che non mi aiutò a mettere le mani in tasca e fare il gentiluomo.
Mi morsi l'interno guancia e dovetti tenere a freno i miei istinti.
Mi provocò.
Indossava un vestitino a tubino nero che le copriva leggermente le cosce. La scollatura era ben evidente e la decorò con una collana che le arrivava sino alla spaccatura del seno. Dei tacchi neri con un cinturino e non troppo alti le calzavano i piedi e i capelli raccolti in una coda erano il tocco finale per alimentare le mie fantasie sconce.
Infilò poi un cappotto abbastanza lungo da coprirle il fondoschiena.
Era palesemente furba, ma non più di me.
Rimasi ad osservarla, scrutarla, mangiarla e consumarla con le mie iridi scure.
Il mio sguardo la fece avvampare ma tentò di dimostrarsi più forte.
«Che c'è?»
Aveva anche il coraggio di chiedermelo.
«Sei bellissima.»
Tentò invano di non arrossire e per nascondersi, si girò per chiudere la porta a chiave. I miei occhi, inevitabilmente, si posarono sul suo fondoschiena che fortunatamente era coperto dal tessuto del vestito.
«Grazie.» Rimase girata per non incrociare il mio sguardo, quasi fugace. «Vogliamo andare?»
«Dopo di te.»
Avrei constatato se avesse rispettato o meno il mio volere nel momento in cui lei se l'aspettasse meno.
Lei mi sorpassò e cominciò a camminare dirigendosi verso la hall.
«Cena di lavoro.» Mi affiancai a Victoria, giustificando con il receptionist la nostra uscita. Lui si limitò ad annuire e non porse altre domande.
In realtà sapevo benissimo che non spettava a lui ricevere delle risposte, ma, iniziai a sentire il peso delle bugie e un bisogno di giustificarmi anche con chi non ne avesse il diritto.
Il taxi era già pronto fuori dall'hotel. Aprii la porta del passeggero e la invitai ad entrare. Poi feci il giro e mi posizionai al suo fianco.
«Questo indirizzo.»
Passai un bigliettino al taxista che annuii velocemente e si mise subito in moto.
Victoria era incredibilmente tesa. Teneva ben saldo fra le dita il tessuto del vestito, come se volesse proteggersi da qualsiasi mio attacco.
Prima si veste in modo tale da farmi impazzire e poi si pente.
Era proprio una bambolina.
«Non serve essere tesa. Potrebbe essere una serata piacevole.»
«Potrebbe.» Enfatizzò, guardando fuori dal finestrino. «Non ho ancora capito perché tu mi abbia invitata a cena.»
«Per farmi perdonare, no?»
«Non ti perdono con una stupida cena», mormorò stizzita.
«Infatti...», conclusi alludendo al mio doppio fine che, molto probabilmente, lei non aveva ancora capito. Non rispose, ma si limitò a respirare lentamente mentre continuava a stringere imperterrita il suo vestito striminzito.
Il viaggio durò all'incirca quindici minuti.
Scelsi un ristorante molto lussuoso con una grande sala interna che era adornata da arredamenti eleganti e molto fini, con uno stile antico. I tavoli di vetro caratterizzavano la sala principale con dei grandissimi lampadari di cristallo che non facevano altro che illuminare di luce calda tutta la sala.
«Scegliere qualcosa di più semplice, no?»
Il tono della sua voce era una continua sorpresa e forse non aveva mai goduto di così tanto lusso tutto in una volta.
«Riservo il meglio per la mia Margherita.» Commentai in maniera sarcastica, rubandole un sorrisino.
«Buonasera, come possiamo servirla?»
Un cameriere con un accento tipico italiano, ma, che tentò di parlare americano, ci interruppe. Si posizionò meglio gli occhiali e teneva in mano un'agendina.
«Ho prenotato a nome di Moore.»
Dopo aver lanciato uno sguardo rapido sul foglio d'innanzi a lui, ci fece segno di seguirlo. Ci scortò ad un tavolo abbastanza isolato ad un angolo della sala principale.
«Prego signori.»
Ci sedemmo entrambi e dopo di che ci consegnò due menù.
«Chiamate appena siete pronti.»
Annuimmo e si allontanò, lasciandoci nuovamente soli.
«Questo è fin troppo per me...», disse parecchio a disagio iniziando a sfogliare le pagine delle varie portate.
«Niente può essere troppo per te, Victoria.»
La incalzai subito. «Semmai, tu sei troppo per tutto il resto.»
Alzò gli occhi leggermente truccati sui miei, guardandomi da sotto le sue folte ciglia.
«Adesso sei anche sdolcinato? Cosa vuoi ottenere in cambio?»
In realtà lo pensavo per davvero.
Lei era al di sopra di tutto.
Tutto era futile se era messo a confronto con Victoria Brown.
Ma questo non potevo dirglielo.
«Cosa vuoi mangiare, Fiorellino?» Cambiai discorso e notai che riprese a leggere il menù.
«Mmm», aggrottò la fronte. «Assaggerei una carbonara. Dicono che è buona da queste parti... Uno dei piatti culinari del paese.»
«Sono d'accordo.»
Feci cenno al cameriere che prese subito le nostre ordinazioni e poi decisi di ordinare anche del vino rosato.
Lei si toccò il lobo dell'orecchio con le dita ed era vergognosamente bella anche in quelle puttanate.
Non riuscivo a smettere di guardarla.
Derek, frena la tua schifosa voglia di farle dei complimenti.
«A cosa pensi?», le chiesi.
«A come in quasi due mesi il nostro rapporto sia vertiginosamente cambiato.»
«Interessante. Quindi sono nella tua testolina, Fiorellino.»
Arrossii.
Colpita e affondata.
«Non farci l'abitudine. Lo sei per via delle circostanze.»
Mi accarezzai la barba e nel mentre arrivò il vino.
«E quali sono le circostanze?», domandai mentre il cameriere versò il rosé nei calici. Si allontanò lasciandoci di nuovo da soli.
«Le sai benissimo.»
«Come quella in cui ti chiedo se indossi gli slip?»
Presi il calice portandolo alla bocca e ne assaggiai un po'.
Era buonissimo.
Ma pensai a quanto fosse buono in mezzo alle sue cosce e dovetti dare un contegno alla patta dei miei pantaloni.
Lei sgranò gli occhi. Subito dopo il cameriere arrivò con due piatti fumanti tra le mani e ce li porse. Ci augurò una buona cena e poi andò via.
«Non credo sia il momento di chiederlo.» Riprese il Bocciolo, dopo che ci avevano lasciati nuovamente soli.
Le sue guance erano quasi in fiamme. Arrotolammo entrambi gli spaghetti attorno alla forchetta e cominciammo a mangiare.
Risposi alla sua affermazione solo dopo aver mandato giù due bocconi.
«Io invece penso che sia proprio l'ora di scoprirlo.»
Sentii una scarica di adrenalina lungo la mia spina dorsale: ecco come lei era in grado di farmi sentire vivo.
Semplicemente Derek.
Senza mostri e scheletri nell'armadio.
«Non fare lo stronzo... Siamo in pubblico.»
Un ghigno spontaneo uscii fuori dalla mia bocca.
«Non c'è niente di così esilarante della paura di essere scoperti...», mormorai con voce arrocchita. Lei si irrigidì. «Stai stringendo le cosce, non è così Fiorellino?», domandai provocandola. Lei masticò lentamente, poi deglutì e poggiò le mani al di sotto del tavolo.
«Ti stai sbagliando.»
Il suo respiro divenne affannato come se una morsa le stesse stringendo il petto.
«No... Non mi sto sbagliando bambolina. Percepisco il tuo stato d'animo. Il tuo profondo desiderio di essere toccata... Da me.»
Si accarezzò le labbra con la punta della lingua e il mio cuore cominciò a battere più forte.
«Per favore Derek...», sussurrò abbassando lo sguardo.
«Desideri che ti abbassi la cerniera del vestito... Desideri che io te lo sfili e che io lambisca ogni tuo centimetro di pelle.»
Lei rimase in silenzio, tremendamente a disagio.
«E tu... Tu cosa vuoi da me Derek?», tartagliò e finalmente tornò a guardarmi.
«Voglio che tu mi risponda.» Feci una pausa. «Sei senza mutandine Fiorellino?»
Il vociare delle persone fu in grado di coprire la nostra conversazione.
Ma in quel momento annullai tutto il resto: eravamo soltanto io e lei... Con una domanda in sospeso.
Lei fece un sospiro e trattenne il fiato per un attimo.
Fai un bel respiro Piccolo Fiore.
Sono pronto ad accarezzare ogni tuo petalo.
«Se sei così curioso perché non lo scopri da solo, Derek Moore?»





SPAZIO AUTRICE

Ciao a tutt* Piccoli Fiori.🖤
Eccoci arrivati al ventinovesimo capitolo della storia... Preparatevi perché sta per succedere qualcosa di... NO SPOILER.

Grazie per tutto il supporto che mi date ogni giorno. 🖤
Spero che la storia vi stia piacendo! :)

Se vi va, lasciatemi un commentino e una stellina 🖤


Vi ricordo che mi trovate su IG e su TikTok col nick: higracehall


Un abbraccio,

Grace Hall

The Silence of a PromiseDove le storie prendono vita. Scoprilo ora