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Derek

"Lei era la mia ossessione. Lei era la mia debolezza definitiva. La mia condanna, la mia resistenza. Tutto ciò da cui dovevo stare lontano.
E se non ci fossi riuscito, avrei chiesto a Dio di liberarmi da questo mio peccato."

Derek Moore




Quel piccolo Fiorellino era ovunque io andassi.
A lavoro, in palestra, perfino nelle donne che scopavo.
Sembrava che la vita volesse per forza lei nei miei piani e nei miei sbagli.
Rimasi allibito quando scoprii che quella ballerina del Gemini era sua amica.
Quanto poteva essere beffarda e astuta la vita? Parecchio, ma non quanto sarei stato astuto io.
E se vuole fotterti, tu fottila per prima.
Ed era ufficiale: torturare Victoria Brown con le mie provocazioni era il mio nuovo passatempo preferito.
O forse, lo era proprio lei.
Il mio comportamento era talmente contraddittorio che quasi ero io stesso a starmi sulle palle. Ma non potevo farci granché.
Di lei non me ne fregava proprio nulla, ma quando mi guardava negli occhi e mi rispondeva a modo... Mi faceva impazzire.
Era così adorabile.
L'idea di avere potere su di lei e il fatto che le mie provocazioni le scaturivano solo odio e fastidio, alimentava la mia voglia di averne sempre di più.
Ancora di più.
Molto di più.
«Benvenuti alla Contemporary Gallery della città di Brooklyn.» Thompson spalancò le braccia e ci guardò, mentre ci presentava quella enorme e lussuosa struttura.
Il Fiorellino rimase a bocca aperta e quasi non si commosse per la visione.
Era emozionata, felice, entusiasta, e ammetto che nella sua reazione vidi me stesso alla sua età: ero contento, ma sapevo già quello che volevo.
Il comando.
Ma lei era troppo ingenua per capire certe cose, era buona per vederne il marcio ed era ancora immatura per capire che i sogni sono solo sogni e che era la realtà quella che si doveva affrontare.
E se avesse mai pensato che tutto sarebbe stato rosa e fiori, si sbagliava di grosso.
«Seguitemi.»
Davanti a noi una scalinata abbastanza ripida e una struttura specchiata, molto simile all'architettura della nostra azienda.
All'entrata c'era una porta in vetro che si aprì automaticamente quando facemmo capolino d'innanzi ad essa e appena entrati, una serie di molteplici quadri di arte contemporanea di autori importanti.
La reception era caratterizzata da una pittura color bianco, leggermente sporco e il pavimento di marmo lucido.
Trattenni il respiro quando vidi uno dei miei quadri della mostra dello scorso anno, proprio davanti a me.
Thompson incontrò il Sig. Cooper, il proprietario dell'intera galleria e con una stretta di mano amichevole cominciarono a chiacchierare.
«Una clessidra distesa su di un tavolo di legno, impedisce al tempo di scorrere.» Victoria mi affiancò e reggendo alcuni documenti, commentò il mio quadro.
Era vero, lei non era nei miei interessi, ma, sentivo ancora il profumo della sua pelle misto allo champagne tra le mie labbra e non riuscivo a smettere di passarci la lingua, perché, lo volevo tutto. Dentro di me.
Era così buona.
Lei girò lo sguardo e mi sentii intrappolato da quelle iridi verdi che cercai di non guardare per non risollevare quell'istinto animalesco che era quiescente dentro di me.
Feci un sospiro. «Il tempo scorre inesorabile e non può tornare indietro. Io vorrei che, ogni tanto, però, si fermasse», dissi e poi, finalmente, riuscii a ricambiarle quello sguardo.
«Perché?»
Le sue domande erano come veleno, perché mi costringevano a parlare di me.
Ma non di Derek Moore.
Ma di quell'anima in pena senza una via di uscita.
Le risposi con un'altra domanda. «Come fai a sapere se una scelta compiuta è giusta o sbagliata?»
Lei alzò un sopracciglio.
«È il tempo a darci le risposte.»
Afferrò al volo ciò che io volessi dire. «Ed è proprio questo ciò di cui parlo.»
Mi avvicinai alla teca che custodiva gelosamente la mia opera e la accarezzai con l'indice.
Lei mi seguì a ruota e guardò l'esatto movimento delle mie dita. «Immagina se il tempo si fermasse per un'istante e ci desse la possibilità di ragionare sulle nostre scelte, senza avere il timore di compiere la scelta sbagliata.»
Lei mi lasciò parlare e non fiatò, ascoltando attentamente ogni mia parola.
«E se mai dovessimo sbagliare, vorrei poter fermare quella clessidra e tornare indietro.»
Posai le mani sul bordo della mensola su cui poggiava la teca in vetro.
«E se la clessidra della vita fosse distesa così come io l'ho rappresentata, il tempo non avrebbe modo di scorrere. E saremmo noi a decidere quando farlo partire.»
In quel momento il corpo di Victoria era proprio dietro di me e una sua mano poggiò sulla mia schiena.
Ma non provai alcun tipo di disturbo, anzi, il calore del suo palmo mi diede un senso di tranquillità.
E non sapevo neanche il perché.
«Se per te il tempo è nemico, io posso garantirti che può esserti anche amico. Se hai compiuto scelte sbagliate, il tempo, può risolvere tutto e...»
Nonostante avessimo avuto una conversazione non piacevole per lei prima, comunque non si esimette nel provare a comprendermi.
Ero così enigmatico per lei, incomprensibile e terribilmente strano, che molto probabilmente avrebbe perso la testa se continuava a starmi dietro.
Pensava forse di darmi la sua compassione?
Non ne avevo bisogno.
Strinsi i pugni e mi voltai violentemente verso di lei.
«Non voglio la tua morale: mi hai chiesto il significato del mio quadro e io te l'ho dato. Non ho avviato una seduta terapeutica.»
Lei mi guardò perplessa, mentre il richiamo del nostro capo catturò la nostra attenzione.
«Brown, vorrei presentarti il Sig. Cooper», ci girammo all'unisono.
Ryan Cooper era vestito in giacca e cravatta, era alto, snello, portava gli occhiali e aveva i capelli grigi, leggermente stempiato, sulla cinquantina d'anni.
Era un bell'uomo senza ombra di dubbio, molto elegante e fine, ma era anche un grande figlio di puttana.
E io lo conoscevo bene, purtroppo.
Una volta lo incontrai al Gemini mentre era intento a farselo succhiare da una ballerina accompagnata da un'altra che strusciava la sua fica nella sua bocca.
Disgustoso per un uomo sposato con due figli.
«Lei è la nostra nuova stagista», disse Thompson indicando Victoria.
«È un piacere conoscerla», affermò lei allungando una mano per presentarsi. Lui le fece il baciamano, osservandola con occhi vispi.
«Il Sig. Thompson ha davvero avuto una buonissima idea, è giusto che voi ragazzi così giovani facciate questa esperienza, non è così Victoria? È così che ti chiami?»
«Giusto», mormorò lei intimidita.
Lui lasciò libera la sua mano che lei si trascinò sul vestito.
Molto probabilmente era sudata fradicia, come il suo cervello.
«Cooper, non si salutano i vecchi amici?» Mi introdussi nella conversazione per lasciare al Bocciolo un po' di tranquillità.
«Derek Moore, il re della mostra della scorsa estate. Non sai che onore mi possa fare ospitare ancora una volta le tue bellissime opere.»
Stronzate.
Lui non amava il mio modo di rappresentare la realtà nei miei dipinti, ma quando lo incontrai con quelle due donne quella notte, lui mi disse di non dire a nessuno ciò che avevo visto.
Poteva essere la sua lenta decadenza verso l'Inferno.
Ma era così coglione da scoparsi due donne in mezzo al pubblico, invece di appartarsi.
Ma quelli come lui così marci dentro, non avevano l'abilità di comprendere quell'intelligenza, sempre se ce l'avessero.
Per cui, stringemmo una sorta di patto.
Il mio silenzio, in cambio della disponibilità della galleria per la mostra.
Il Sig. Thompson rimase scioccato quando ebbe il sì della struttura.
Sono abile a fare affari con le persone, specialmente con i figli di puttana come lui.
«Lei è molto fortunata ad avere Derek Moore come Tutor, Victoria. Ha tante cose da insegnarti», disse ponendo nuovamente lo sguardo su di lei.
Lei alzò lo sguardo sui miei e le sue iridi verdi sbrilluccicavano grazie alla luce del sole che entrava dalle finestre.
«L'ho notato.»
Notai il suo tono leggermente ironico, ma non troppo, uscire dalla sua bocca.
Oh, quante cose le avrei insegnato se solo il mio ruolo me l'avesse permesso.
Di tutto e di più.
«Specialmente come si lavora in squadra», aggiunse. «Ed è così empatico con le persone, con le donne, con le sue colleghe di lavoro.» Non distaccò gli occhi da me e io dai suoi.
Era seria, ma non troppo. Aveva gli zigomi tesi, le labbra leggermente curvate e le dita delle mani stringevano fortemente le cartelline al petto come se temesse una mia reazione.
Mi sistemai meglio la cravatta al di sotto del colletto della camicia e serrai la mascella.
Eravamo entrambi in tensione e la mia anima chiedeva pietà per tutte le scintille che si accendevano in me ogni qualvolta che eravamo ad un passo dal volerci distruggere a vicenda.
«È così che si comporta un leader, non è vero?» Scrollai le spalle con non calanche, rivolgendo il mio sguardo Cooper e Thompson che annuirono alla mia affermazione.
Il Fiorellino mi stava provocando e nonostante questo clima di forte tensione, cercai di mantenere il controllo su di me.
«Venite, vi mostro il piano che sarà adibito per la vostra mostra.»
Thompson lo affiancò e io e Victoria li seguimmo a ruota, cominciando a salire altre scale.
«Che cosa hai intenzione di fare, Mocciosetta?» Bisbigliai avvicinandomi a lei.
«Non ti piacciono i miei complimenti? I miei elogi? Non esistono solo quelli sessuali, sai?» Sussurrò anche lei, facendo una smorfia di disprezzo.
«Diciamo che li preferisco.»
Alzò gli occhi al cielo e tentò di salire più velocemente quei gradini, cercando di sorpassare la mia figura.
Ma io fui più veloce di lei e la affiancai dopo due secondi esatti.
«Ricorda che ad ogni azione corrisponde una conseguenza. E non puoi sfuggirmi, a meno che non lo voglia io.»
«Smettila di essere egocentrico.»
«E tu smettila di fingere che sai giocare.» Lei non mi rivolse lo sguardo e continuò imperterrita a salire.
«O sarò costretto ad insegnarti le regole del gioco, e potrebbe essere una bella sfortuna... A seconda dei punti di vista.»
Potetti avvertire i suoi respiri accelerati, come se stesse andando in iperventilazione.
«Io conosco solo un punto di vista. Ed è quello in cui non ti sopporto.»
«Non mi sopporti, come non sopporti la tua pelle che sa di champagne e la mia bocca su di te, Piccolo Fiore?» Continuai a bisbigliare, anche se i due più avanti non mi avrebbero mai sentito, visto che parlucchiavano in continuazione.
«Non accadrà mai più. O...» Si bloccò quando arrivammo al piano principale.
Col braccio l'attirai a me, prima di aver controllato che i due avanti non ci guardassero.
«O? Abbiamo stipulato un accordo. E potrei farti Scacco Matto in ben che meno di due minuti.»
«Lasciami.» Sibilò.
Mollai la presa e lei, dopo un'occhiataccia, si mise a guardare ogni minimo dettaglio di quella stanza.
Davanti a noi c'erano quattro colonne stile barocco che adornavano la stanza e dei divanetti di pelle tra una colonna e l'altra. Il pavimento era di marmo lucido, le pareti erano color crema e diversi quadri arricchivano le mura.
Al soffitto vi erano diverse pitturazioni e disegni, con un enorme finestrone al centro da cui entrava una luce mozzafiato.
La stanza avrebbe ospitato più di duecento opere e a seconda degli autori, le varie aeree della stanza erano separate da dei muri specchiati.
Gli occhi di Victoria non sapevano più dove guardare, data l'immensità di quello spazio.
«Wow è... Insomma, non ho mai visto niente di simile.»
«Le piace?» Domandò Cooper. «Ho fatto di tutto per riservarvi la miglior sala.»
«Ne siamo onorati», aggiunse Thompson.
«Allora Victoria, ho bisogno di parlare con te per le ultime decisioni circa l'organizzazione. Non vi dispiace se vi rubo la stagista per un attimo, giusto?» Domandò in maniera molto ironica, anche se di divertente non c'era assolutamente un cazzo di niente.
Lei sussultò ma al contempo era entusiasta, poi spostò lo sguardo sul nostro capo che le fece cenno di andare.
«Penso sia legittimo che venga anch'io.»
«No Moore, rimani con me. Voglio mostrarti come vorrei che sistemassi i tuoi dipinti.» Porse un braccio attorno alla mia schiena, ma il mio sguardo si posò sempre su quello di Victoria che nel frattempo si diresse a passo deciso verso le scale per recarsi nell'ufficio di quello stronzo.
L'ultima cosa che volevo era che lei rimanesse da sola con lui, proprio perché conoscevo benissimo i miei polli.
E lui era uno di quelli a cui avrei tolto tutte le piume se non avesse tenuto quelle luride mani a posto.
«Ho pensato di inserirli qui, che dici? È una posizione strategica, con la luce a nostro favore e un'esposizione a trecentosessanta gradi.»
Incrociò le braccia, mentre io studiai ogni angolo di quella sala, anche se la mia mente era da tutt'altra parte.
«Si può fare.»
Mi limitai a dire quelle tre parole perché la mia voglia di scendere di sotto e capire cosa diavolo le stesse dicendo, superò la mia razionalità.
Lo conoscevo bene e non era un tipo raccomandabile, anche se ormai si era fatto un nome in tutta New York.
Ma la gente non è mai quello che sembra, e come ribadii anche al Bocciolo, ognuno di noi porta una maschera.
«Cos'hai Derek? Ti voglio concentrato.»
E per quanto non sopportassi nemmeno il mio capo, lui aveva la capacità di capire quando io non ero in me, visto che mi conosceva fin dai miei vent'anni.
«Tra oggi e domani concluderò le mie tre opere.»
Lui si sistemò gli occhiali in viso e abbassò lo sguardo.
«Non è mai successo che i tuoi disegni non fossero pronti per tempo. Cosa ti sta succedendo?»
Come se la mia testa e le mie mani andassero a comando e mi permettessero di disegnare ogni qualvolta che io lo voglia.
«La stagista è fonte di distrazione, Derek Moore? Posso toglierti da questo incarico e affidarlo a qualcun altro, se questo è il problema.»
Sgranai gli occhi come se mi avesse tirato un pugno in viso.
Molto probabilmente gli avrei detto di sì una settimana fa, ma in quel momento era l'ultima cosa che volevo.
Anche se non ci sopportavamo a vicenda, il pensiero che qualcun altro avrebbe passato del tempo con lei e l'avrebbe aiutata nella gestione aziendale, mi faceva ribollire il sangue.
E no, non ero geloso di quella Mocciosa.
Ma volevo continuare ancora un po' a giocare con lei. Fino a quando non mi sarei stufato.
«Lei è una ragazza volenterosa, educata, gentile e diligente. Non c'entra niente con tutto questo. Ma non comando io i miei disegni. Ci sono dei momenti in cui prenderei un pennello fra le mani e disegnerei ore e ore; mentre ci sono alcune volte in cui non mi basta un pennello e una tela, e ho bisogno di ispirazione. Penso capiti a tutti.»
Lui rimase ad ascoltarmi, per poi fare un passo in avanti. «Derek.» Poggiò un braccio sulla mia spalla e con una voce pacata e tranquilla riprese a parlare. «Fatti venire l'ispirazione, allora. Voglio quei quadri entro domani mattina.» Mi diede due leggere pacche. «Hai un nome e io un'azienda da mantenere.» Tolse la mano da me e si accinse a scendere le scale.
«Lo so.» Lui si fermò quando sentii la mia voce.
«Fatti aiutare da Victoria, da qualcuno, da chi vuoi tu Derek. Basta che per domani siano pronti, anche perché il fine settimana è vicino e la settimana prossima devono essere sistemati.»
Lo raggiunsi e insieme scendemmo le scale che conducevano alla reception.
Per quanto non riuscivo a sopportare che mi desse ordini, il mio capo aveva ragione.
Avevo un nome da portare avanti e non potevo permettermi il lusso della mancanza di ispirazione.
Ero teso, agitato, mi prudevano le mani e mi sentivo la fronte sudata.
«Vi aspetto in auto», disse e non appena finimmo la scalinata, uscì frettolosamente dalla struttura tramite le porte automatiche che si aprivano e richiudevano non appena avvertivano il corpo della persona.
Girai il mio sguardo a destra, verso l'ufficio di Ryan Cooper. Victoria era in piedi e lui era di fronte a lei, mentre chiacchieravano animatamente.
Avrei contato fino a dieci, e se lei non fosse uscita da quella cazzo di stanza, sarei entrato io.
Uno.
Mi avvicinai lentamente cercando di non farmi scoprire, per vedere meglio.
Due.
La mano di Cooper poggiava sulla sua spalla destra.
Tre.
Anche l'altra poggiò sulla spalla sinistra.
Quattro.
La guardava intensamente negli occhi.
Cinque.
Fanculo il conteggio.
Aprii la porta del suo ufficio e senza neanche bussare invasi completamente lo spazio.
Cooper alzò lo sguardo su di me e lei si girò di scatto.
«Victoria, dovremmo andare.» Mi avvicinai e poggiai una mano sulla sua schiena, cercando di distaccarla quanto più possibile.
Lei mi guardò stranita per poi porre una mano a Ryan.
«Ci vediamo alla mostra di venerdì prossimo, signorina Brown.» Cooper le strinse la mano e lei ricambiò. «Tutti i dettagli sono lì, se hai dubbi non esitare a mandarmi un e-mail.»
«Arrivederci», disse lei mentre io mi mossi velocemente per portarla fuori da lì e richiudere la porta alle sue spalle.
«Mi spieghi cosa stai facendo?» Domandò, seccata.
«Ti salvo da quello stronzo.»
Ci dirigemmo verso l'uscita e io rimasi per tutto quel tempo attaccato a lei. In un batter d'occhio arrivammo all'auto e ad accoglierci c'era sempre Caleb, che aprì la portiera a Victoria. Io feci il giro, mi intrufolai velocemente e partimmo dopo pochissimo.
«Che problemi hai, Moore?» Disse mentre posizionò le carte in ordine sulle sue gambe.
«Lui ha qualche problema, soprattutto con le ragazzine.»
Le dissi nient'altro che la verità, mentre guardavo fuori dal finestrino.
«Oh, non ci credo...» Mi passò alcuni fogli dove c'erano i dettagli per iscritto della mostra del prossimo venerdì.
«Che ti piaccia o no, anche se ha un nome abbastanza importante, non è una persona raccomandabile quel coglione.»
Misi quei documenti protocollati in una valigetta che riposi di fronte alle mie gambe.
«Ma per favore. Stavamo solo parlando.»
«Tu stavi parlando.» Le puntai un dito al petto. «Ma lui ti stava mangiando con gli occhi. E tu sei così ingenua che neanche te ne sei accorta.»
Non mi reputavo un angelo custode, tanto meno una persona che salva i buoni dai cattivi.
Molto probabilmente lo ero anch'io, ma, quanto meno non me lo sarei mai fatto succhiare da delle bambine di diciotto anni in un locale hard, dopo che ho messo su famiglia.
«E credimi se ti dico che ti ho salvato da una situazione scomoda, ragazzina.»
Lei poggiò la testa sul sedile e rivolse lo sguardo verso la strada.
Nonostante fosse passata già metà mattinata, l'abitacolo era ancora invaso dal suo profumo dolce e fruttato. Un po' come lei.
Inspirai a fondo, assaporandolo tutto.
Come assaporai la sua pelle, in quel momento esalai un respiro trattenendo il suo odore.
«Dovrei dirti grazie?»
«Mi devi un favore», le risposi in fretta. «I quadri devono essere pronti entro domani.»
Incrociò le braccia e inclinò la testa, aggrottando la fronte.
«E tu non uscirai dal mio studio finché non saranno finiti.»
Sentii i suoi respiri nel più totale silenzio.
«Thompson ti ha messo alle strette?»
«Diciamo che sono in ritardo rispetto al mio solito.»
Lei curvò le labbra come se volesse sorridere senza darlo a vedere.
«E cosa ti fa credere che riuscirò ad aiutarti?» Lei si girò e ancora una volta i suoi occhi ipnotici mi scrutarono.
Mentirei se dicessi che quelle iridi non mi facessero effetto.
Mi facevano contrarre il cazzo in una maniera esilarante.
Eh no, non ero per niente un uomo romantico.
«Ogni artista vuole la sua musa.»
I miei occhi catturarono le sue guance che da olivastre divennero tremendamente e fottutamente rosse.
Ero in grado di farla arrossire con delle semplici parole, e se quello era l'effetto e il potere che avevo su di lei, pensai a cosa avrebbe mai provato se avessi iniziato a giocare seriamente.
«Io sarei la tua musa? Bizzarro.»
«Sì, lo è. Come bizzarro è il modo in cui mi guardi, nonostante non mi sopporti.»
«Ti sbagli. Non ti guardo in nessun modo, Derek Moore.»
«Non devi preoccuparti, piccolo Bocciolo. Non c'è bisogno che menti così, non lo dirò a nessuno.»
«Dio Santo.» Sbuffò girandosi completamente col busto dall'altro lato.
Non potevo biasimarla, non mi sopportavo neanche io.





Erano le quindici del pomeriggio ed ero in attesa che il Bocciolo bussasse alla mia porta. Dopo che siamo tornati dalla mostra, rientrammo in azienda e lei ci spiegò tutto ciò che Cooper le aveva comunicato.
Dopo di che, tornò a casa e le diedi il tempo di cambiarsi e pranzare.
Le diedi appuntamento alle quindici e trenta, giusto il tempo di farmi una doccia calda, pranzare e finire le tre sigarette della giornata.
Avrei dovuto comprare un pacchetto nuovo, perché n'era rimasta solamente una.
Nel mentre avevo iniziato a disegnare qualcosa e a rendere completa la prima bozza del mio quadro, ma mi interruppi non appena sentii il campanello.
Avevo cambiato totalmente il mio outfit: indossavo un jeans, un paio di sneakers e un maglioncino aderente di color beige.
«Victoria.»
Lei indossava una camicetta bianca, un pantalone marrone scuro aderente ai fianchi e alle cosce e largo alle gambe e un paio di stivaletti neri bassi.
«Moore.» Mi scansai per farla entrare.
I capelli erano raccolti in una coda alta e lunga, lasciando intravedere il famoso tatuaggio dietro al collo.
Richiusi la porta alle mie spalle e mi avvicinai a lei.
La coda le stava benissimo, metteva in risalto il suo viso e il suo helix scintillante all'orecchio.
Mi diressi subito verso il mio studio, sentendo il rumore dei suoi tacchetti echeggiare lungo il tragitto.
Quando varcammo la porta, quel rumore si mutò. Rimase ferma a guardare il primo quadro. Si avvicinò e mentre stava per toccarlo, la fermai.

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