Derek
"Spero che un giorno riuscirò ad uscire da qui, anche se ci vuole tutta la notte o cent'anni.
Ho bisogno di un posto dove nascondermi, ma non ne trovo nessuno vicino.
Voglio sentirmi vivo, ma fuori non riesco a combattere la mia paura."
Lovely - Billie Elish
Lei non era Victoria.
Non era il mio Piccolo Fiore.
Una mano teneva saldamente in un pugno i capelli di Cassandra, mentre l'altra stringeva il suo bacino mentre era piegata. Aveva i palmi delle mani poggiati al muro della sua cucina e ogni suo ansimo era in grado di scuotermi il cervello e farmi dimenticare ciò che avevo fatto con Victoria.
Ma era un'amnesia breve perché, quando pensavo di esserne uscito, la mia mente rifletteva i flashback della notte passata e mi veniva duro non perché stavo scopando Cassandra, ma, era proprio il ricordo di quel Bocciolo a farmi perdere il controllo di me stesso.
I miei colpi erano profondi, controllati e rabbiosi. Come se fossi un cane che era stato rinchiuso in gabbia per troppo tempo e liberato per iniziare a correre verso la sua libertà.
Solo che Cassandra non era la mia.
Era solo un appiglio a cui dovevo sorreggermi per non pensare più a lei.
Invadeva il mio cervello e non facevo altro che pensare al suo corpo, ai suoi gemiti e a quell'orgasmo intenso che fui in grado di provocarle. Godetti anch'io senza che lei mi avesse minimamente sfiorato ed era una sensazione nuova.
Io non baciavo mai nessuna, ma avrei baciato Victoria ogni volta che ne avrei avuto voglia.
Era questo che mi faceva impazzire.
Perché sentivo il bisogno di trattarla così diversamente rispetto alle altre? Cosa aveva di speciale quella mocciosa?
Tirai fortemente le sue ciocche, mentre i miei movimenti si facevano sempre più scattanti e forzati.
«Oh, sì», gemette lasciandosi abbandonare all'orgasmo. Mi fermai per qualche secondo, poggiando una mano sulla sua schiena e guardando il nostro punto di congiunzione.
Venni a quella vista mentre i suoi umori sguazzavano attorno al mio preservativo. Esalai un respiro, poi un gemito di piacere. Lei si mise dritta dandomi modo di uscire dalla sua intimità.
Mi sfilai il preservativo, lo buttai nel cestino e poi mi rialzai lentamente i pantaloni, sistemandomi la cinta.
Cassandra aveva capito che tra di noi non poteva esserci nient'altro che quello e per quanto ci fosse rimasta male, continuava comunque a chiamarmi per rapporti occasionali.
D'altro canto, avevo bisogno di distrarmi, non sopportavo di avere la mente occupata da quell'unica persona. Dovevo togliermela dalla testa.
«Ha avuto un'idea carina la tua stagista circa l'asta di beneficenza... Com'è che si chiama? Violet?» Disse tutt'un tratto.
Alzai un sopracciglio, mentre lei si ricompose.
«Si chiama Victoria», affermai palesemente stizzito da quell'osservazione.
«Perdonami», disse mentre fece una smorfia. «Da quando c'è lei è cambiato, Sig. Moore.»
La sua voce provocante mi scosse il sistema nervoso.
«Non ti ho chiesto un parere a riguardo.»
Afferrai la giacca dall'attaccapanni e lei mi seguì a ruota. Le diedi le spalle e proseguii tentando di raggiungere la porta per uscire subito da quella casa.
«Non sono l'unica a pensarlo.» La sua voce risuonò nelle mie orecchie. «Non guardi nessuna di noi come guardi lei. Alla cena, nelle riunioni, perfino alla mostra. Ti metterai nei guai per colpa sua.»
Sospirai ma cercai di mantenere le staffe al loro posto. «Se hai deciso di farmi incazzare, hai sbagliato giorno.» Mi girai verso di lei con un'espressione piuttosto adirata.
«Voglio solo che tu apra gli occhi. Quella ti sta usando solo per arrivare dove vuole lei. E tu stai prosciugando le tue energie per niente!»
Quasi non mi uscì il fumo dalle orecchie, ma ciò che avevo sentito fu troppo per rimanere calmo.
Le agguantai il collo sollevandola da terra e lei sussultò spalancando la bocca per la paura.
«Quella», sibilai a denti stretti. «Ha un cazzo di nome.» Sbottai stringendo ancor di più la presa.
«D-Derek», stridette mentre le sue guance divennero rossastre.
«Sai come la guardo rispetto a come guardo te, eh? Come una donna intelligente, piena di doti, con voglia di lavorare e farsi un nome. Al contrario vostro che siete solo in grado di ronzarmi attorno come delle fottute galline in astinenza.» I suoi occhi si riempirono di lacrime e non potetti fare a meno che rivolgerle uno sguardo agghiacciante, prima di mollare la presa e metterla giù.
Lei si piegò toccandosi il collo e respirando con affanno.
«Se sento un'altra parola fuori posto sulla mia stagista», dissi torvo puntandole il dito contro. «Ti faccio perdere il posto, Cassandra.»
Una lacrima scese lungo la sua guancia ma la ignorai.
Aprii la porta di casa sua e la sbattei con violenza, dirigendomi verso la mia auto.
Entrai, misi la cintura, accesi il quadro e sfrecciai via.
Mi recai a casa sua alle quattro del mattino: non riuscivo a dormire.
Victoria Brown mi aveva scombussolato.
Così, mentre lei riposava beatamente corrucciata e arrabbiata per i miei modi barbari, io mi rintanai a casa di Cassandra.
Stranamente quella notte non mi punii. Il mio corpo si rifiutò di soffrire e i miei demoni erano in una condizione di stallo.
Non seppi definirne il motivo, tanto meno sapevo cosa cazzo mi stesse succedendo, ma dopo l'episodio col Bocciolo, i mostri accasati nel mio animo dannato non mi spinsero a ricordarmi che fossi ancora vivo.
Lo ripetevo a me stesso in ogni istante: lei non era come le altre.
Continuando quel rapporto così tossico, mi sarei messo solo nei casini. Mi avrebbe domandato come mai non poteva toccarmi liberamente o il motivo per il quale non toglievo mai tutti i vestiti.
Domande che sarebbero state come un coltello e che lei avrebbe tenuto dalla parte del manico, pronto a ferirmi e a uccidermi.
Ma io non volevo morire ancora una volta, non di nuovo.
Per quanto bene mi avesse fatto sentire sottometterla e per quanto lei fosse un'incantevole tentazione, l'avrei allontanata.
In meno di dieci minuti arrivai in azienda, parcheggiai l'auto e vidi quella di Victoria ad un paio di metri di distanza dalla mia.
Entrai nella struttura, raggiungendo rapidamente uno degli ascensori. Le porte si aprirono e mi ci fiondai all'interno.
Pigiai il tasto che mi avrebbe condotto al piano del mio ufficio, ma prima che l'ascensore potesse partire, le porte si aprirono nuovamente e la mia figura scorse quella di Victoria.
Trasalii, non aspettandosi la mia presenza. Aveva il paio di pantaloni gessati a righe nere e bianche, gli stessi che indossò la prima volta che la incontrai. Una camicetta bianca inserita al loro interno e un paio di tacchi bassi neri. I ciuffi più lunghi dei capelli erano uniti e fermati dietro la testa con alcune forcine e il resto lasciati sciolti che ricadevano sulle sue spalle.
«Brown.»
«Moore.»
Varcò la porta e ci ponemmo ad una distanza ragionevole. Poi pigiai nuovamente il tasto e fu così che l'ascensore partì.
Lei guardò dritto, cercando di non incrociare i miei occhi.
«Nel mio ufficio ci sono i quadri che dovrai fotografare e mandare tramite e-mail alla casa dell'asta, entro oggi.»
Lei si schiarì la voce. «L'ho segnato in agenda.» Strinse forte le cartelline che aveva con sé al petto.
Percepivo il suo animo teso tanto quanto la sua voce che era talmente assottigliata che feci fatica a sentirla.
«Non mi aspetti per pranzo, più tardi ho un incontro con il Sig. Cooper.»
I miei occhi le puntarono il viso mentre lei rimase impassibile.
Cosa?
«E quando avevi intenzione di dirmelo, Victoria?» Domandai, piuttosto irrequieto.
«Non credo che fossero affari di cui lei doveva essere a conoscenza nell'immediato.»
Continuò a parlarmi con quel tono formale, dandomi nuovamente del lei.
«Vengo con te.»
E fu dopo quell'affermazione che lei si voltò verso la mia faccia. Le sue pupille verdi cercarono di scrutarmi nel modo più composto e serio possibile, ma non riuscirono a reggere il mio sguardo.
«No. Penso che lei abbia di meglio da fare.»
Serrai la mascella e strinsi i denti.
Sembrava che tutti volessero farmi incazzare quel giorno, persino lei.
«Senti», iniziai a parlare girando completamente il busto verso la sua figura. Lei fece qualche passo indietro, finendo con la schiena al muro. «La giornata è partita di merda e sono piuttosto incazzato. Ti chiedo di non farmi perdere la pazienza.» Poggiai una mano all'altezza della sua testa.
«Che c'è? Le dà fastidio se per una volta non ha il completo controllo delle persone?»
Sapevo benissimo che fosse arrabbiata con me e non potevo biasimarla. Ma in quel momento non me ne fregava un cazzo dei convenevoli, non l'avrei mai lasciata da sola con quello stronzo.
«Ti ho già spiegato che quell'uomo non è quello che dice di essere. Non ti lascerò sola con lui.»
Mi esaminò il viso, porgendo maggiore attenzione alle mie labbra.
«Non sarà di certo tanto diverso da lei», disse amareggiata. «O sbaglio?»
Se solo sapessi, Piccolo Fiore.
«Non ho fatto niente che possa averti lesa o denigrata. Lo volevi tu, lo volevo io. Il Sig. Cooper, invece, farebbe di tutto pur di avere una fica in più da scopare.»
Alzò una mano per tirarmi uno schiaffo, ma le bloccai subito il polso, stringendolo con una mano.
«Smettila di fare la bambina.»
Respirai contro la sua bocca mentre lei assunse quasi un'espressione estasiata, per poi ricomporsi.
«E cazzo, smettila di darmi del lei.»
«Tu», mi puntò il dito contro della mano libera. «Prima mi baci, mi tocchi, mi difendi...», si interruppe respirando a bocca aperta. «E poi mi ferisci. L'altra sera, mi hai baciata fino a farmi quasi soffocare e mi hai fatto male tanto da farmi uscire il sangue. Ieri, invece, non ti sei lasciato toccare e mi hai letteralmente umiliata.»
Notai gli occhi diventare lucidi e una lacrima all'angolo dell'occhio destro che stava aspettando di scendere. «E allora dimmi, Derek Moore, cosa c'è di diverso tra te e tutti gli altri?»
Niente.
Per la prima volta non sapevo cosa dirle, cosa rispondere.
Aveva ragione.
Lasciai la presa del suo polso.
Ognuno di noi combatte una guerra interiore che lo trasforma in un guerriero con le proprie corazze e fortezze.
La mia era unicamente quella di allontanare chiunque, di ferirmi, di soffrire e di avere il pieno potere su ogni cosa mi stesse attorno.
«Io ti avevo avvisata.» Mi limitai a dire mentre l'ascensore proseguiva la sua salita.
Lei non lo sapeva ma quella notte mi salvò.
Mi risparmiò le ferite da guerra, come uno scudo in mano ad un cavaliere.
Anche se non sapevo il fottuto cazzo di motivo. E mi mandava in bestia.
Annullai subito quei pensieri, mentre i demoni e i mostri dentro di me litigavano col mio animo dannato.
Non potevo macchiarla ancora.
«Risparmiati le tue giustificazioni e smettila di starmi così vicino», tartagliò.
«Solo un rapporto professionale.» Tagliai corto, allungando una mano verso di lei.
«Solo un rapporto professionale.» Ripeté per poi stringermi la mano.
Mi allontanai da lei ma i nostri occhi non smisero un minuto di cercarsi, fino a quando le porte non si aprirono d'innanzi a noi.
«Brown, Moore.» Il Sig. Thompson ci richiamò alla sua attenzione e ci dirigemmo immediatamente verso di lui. «Non perdiamo altro tempo e iniziamo a scattare. Sarà una mattinata lunga e intensa.»
Diedi un'ultima occhiata a Victoria, prima che lei alzasse i tacchi per seguire il nostro capo.
Nonostante fossi ossessionato da lei e la desiderassi più del mio stesso potere, era meglio così.
Non potevo cedere alla tentazione di quella ragazzina rischiando di non riuscire a proteggere il mio passato, custodito nel nido del mio animo tenebroso e oscuro.
L'unica eccezione fu mia madre quando tentai il suicidio per la seconda volta, dopo che la prima non ebbe il successo che speravo.
Per cui, potevo avere quante donne volevo, ma lei diventò off-limits.
Quindi, Derek Moore, datti un cazzo di contegno.
Il mio demone interiore proseguì la conversazione con me stesso.
Sarà fatto, risposi.
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The Silence of a Promise
RomanceHo fatto un gioco con un Piccolo Bocciolo di Margherita. La bambina mi ha promesso di non parlare. E se avesse parlato, le avrei staccato i suoi petali e le avrei fatto male. Proprio come hanno fatto con me. Ho fatto una promessa. Non ricordo ben...