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ATTENZIONE: IN QUESTO CAPITOLO SONO PRESENTI DEI COMPORTAMENTI CHE POSSONO TURBARE IL LETTORE E CHE L'AUTRICE NON VUOLE IN NESSUN MODO INCITARE E NEANCHE GIUSTIFICARE.




Derek

"Sei un fuoco che arde dentro la mia anima,
il mio schiaccia pensieri,
e per un attimo mi fai dimenticare delle mie tenebre.
Ma non posso lasciarle andare,
non posso tradirle con te.
Tu sei il mio problema,
loro la mia soluzione."
Derek Moore


Victoria Brown era proprio un Fiorellino che doveva ancora sbocciare, ma che era in grado di provocarmi un formicolio intenso che risaliva lungo la mia spina dorsale, che mi contraeva i muscoli e che mi faceva pulsare il cazzo nei pantaloni.
Ma era anche un Fiorellino così ingenuo...
Era davvero convinta che l'avrei fatta venire?
Oh no, doveva guadagnarselo.
Quel Piccolo Fiore doveva guadagnarsi uno degli orgasmi più intensi della sua vita.
E no, non era quello il momento, nonostante il mio indice sguazzasse tra i suoi umori, non le avrei concesso quel lusso.
Perché?
Perché ero un amabile figlio di puttana che amava lasciarsi pregare.
E l'avrebbe fatto anche lei.
Ai miei piedi.
«Senti come la tua fica accoglie con dolcezza il mio dito», le sussurrai all'orecchio muovendo lentamente l'indice in senso circolare, sentendo il suono dei suoi umori, e posizionando la mano in modo da schiacciarle il clitoride col pollice. «E ascolta il dolce suono dei tuoi liquidi. Sono tutti per me, non è così?», le mordicchiai il lobo percependo il suo profumo.
Lei si morse il labbro per non gemere e con una mano si aggrappò ad uno degli scaffali, facendo cadere al suolo delle scartoffie.
«Tutto questo...», miagolò guardandomi negli occhi ma si interruppe per il piacere intenso che le stavo provocando.
Per un attimo persi la concezione del tempo: mi guardò con gli occhi della lussuria, di un colore verde più intenso, come se brillassero e non potetti fare a meno che perdermi al loro interno.
Curvai le labbra in un sorriso perverso e infilai anche il medio, strusciandole sul pube la mia erezione incontrollata.
Cazzo se l'avrei piegata e scopata nel bel mezzo di quello sgabuzzino.
«È sbagliato Derek...», sussurrò stringendo saldamente lo scaffale con le braccia tremanti.
Sogghignai e affondai ancor di più le dita, mentre sentii la sua fica calda e bollente desiderarmi con ancor più ardore. Lei soffocò un gemito di piacere per le mie spinte più profonde, mordendosi ripetutamente il labbro inferiore.
Se l'avessi assaggiata con la mia bocca, sicuramente avrebbe avuto il sapore del proibito e della paura.
Un connubio perfetto per chi ha l'Inferno dentro di sé, gli ingredienti segreti per alimentare la fame dei miei mostri.
Ma decisi di darle solo una piccola anteprima di quella sensazione.
«Sai cos'altro può essere sbagliato, Piccolo Fiore?»
Strusciai le labbra sul suo orecchio mentre i muscoli del mio braccio erano totalmente contratti e tesi.
Lei tremava sotto il mio tocco ed era proprio quello a farmi sentire terribilmente superiore.
«N-no», balbettò aprendo leggermente le gambe e lasciandosi toccare da brava bambina.
Con l'altra mano ormai libera impugnai la sua coda e la tirai, facendole inarcare il collo e baciandolo lentamente.
Ansimò di soprassalto e mi fermai col movimento delle mie dita, ma non le estrassi dalla sua apertura.
«Se io mi fermassi proprio in questo istante e ti lasciassi con un orgasmo interrotto, proprio come fanno i veri bastardi», dissi con voce roca. Lei sgranò gli occhi sospirando lentamente. «E secondo te io lo sono?» Le domandai.
Avevo fame di provocarla, bramavo la sua faccia estasiata ma distrutta.
«Tu sei...», mormorò riprendendo fiato. «Tu sei un bastardo che sta sconvolgendo la mia vita, Moore.» Mi inchiodò nelle sue iridi, ancora una volta.
Lei sconvolse la mia.
Mi resi conto di quanto fosse dannatamente bella, lì, in quell'aria peccaminosa e contaminata dai nostri sbagli.
Era scomposta, scioccata, sudata fradicia e bagnata.
Odorava di voglia di sesso.
L'avrei venerata tutto il tempo.
Le sue guance rosse, le sue lentiggini che vennero coperte dal suo imbarazzo, il sudore all'attaccatura dei capelli.
E per quanto fosse in grado di farmi impazzire, non avrebbe avuto l'onore di rendermi pazzo.
Avrei sempre mantenuto il controllo di me stesso.
Estrassi le dita e lei trattenne il fiato.
«Non ti è ancora concesso di venire.»
«Cosa?» Sibilò con un'espressione del viso indecifrabile.
Mi leccai le due dita impregnate della sua voglia famelica di avermi.
Mi eccitò sentire il suo sapore, mi eccitò avvertire cosa le avessi provocato.
«Sei talmente buona Fiorellino.»
Arrossì come se stesse andando a fuoco.
Mi succhiai sino all'ultima goccia e mi inumidii le labbra, anche se non ero ancora soddisfatto.
«Non puoi lasciarmi così.»
Ignorai la sua risposta e mi piegai davanti a lei studiando il suo corpo teso e contratto. Lei abbassò lo sguardo, osservandomi attentamente.
Infilai le mani un'ultima volta al di sotto della sua gonna e potetti avvertire come il respiro divenne corto per un attimo. Soffiai sopra la sua intimità glabra, esalando un respiro eccitato, mentre lei posò le mani sulle mie spalle illudendosi di un altro mio possibile tocco.
Le accostai le mutandine, coprendola per bene, per poi abbassargli la gonna e rialzarmi.
Notai che riaprii gli occhi, delusa dal mio comportamento.
«Torna su.»
«Non...»
La interruppi rivolgendole uno sguardo fulmineo.
«Ti ho dimostrato cosa vuol dire giocare con me in maniera sporca e illegale. Ti ho dimostrato cosa succede a provocare la persona sbagliata, e aspetta», feci una pausa per rafforzare il concetto. «L'ho fatto in maniera tranquilla, blanda e docile. Avrei potuto fare molto peggio.»
Mi fronteggiò, alzando il capo per guardarmi meglio con gli occhi socchiusi come se fossero due fessure, per poi sibilare: «Vai a fare in culo
Le alzai il mento con l'indice, avvicinandomi pericolosamente. «Magari mi prenderò prima quello che la fica, chi lo sa.»
Mollai la presa e mi allontanai da lei.
«Mai. Neanche sotto tortura. Tu non ti avvicinerai mai più a me.» Mi puntò il dito sul petto, visibilmente arrabbiata.
Inguaribile bugiarda.
Mi scrocchiai il collo.
«Se ti chiedono, dì che stavi cercando il bagno e ti sei persa. La galleria è enorme e le novelline come te devono stare attente a non perdersi. Io farò il giro dall'altra parte.»
Lei non mi degnò di una risposta, si ricompose e poi mi passò davanti, risalendo lentamente le scale.
Io mi sistemai la giacca e i capelli passandomici una mano sopra.
Mi aggiustai la cinta e poi cercai di tenere a bada la mia erezione che pulsava in maniera fottuta per quella bambina; fottuta era anche la mia testa, visto che non c'era stato secondo in quella giornata in cui io non pensai a lei.
Uscii da un'altra porta che ubicava in un piccolo androne dopo aver superato tutti quegli scaffali.
Mi ritrovai di spalle alla struttura e feci il giro per rientrarci.
«Sig. Moore.»
Una voce femminile echeggiò nelle mie orecchie e il suono di un paio di tacchi invase la reception.
Era Cassandra.
«Le ho inviato diversi messaggi, ma non mi ha risposto.»
Mi raggiunse e cominciò a camminare, tentando di stare al mio passo.
«Forse perché ho altro da fare che pensare a cose frivoli.» Tagliai corto, per cercare di levarmela di mezzo.
Lei si avvicinò col suo corpo mentre insieme salimmo le scale.
«Perché sei così stronzo?» Bisbigliò. «Dammi la possibilità di farti capire che io posso diventare qualcosa di più.»
Salii al piano corrispondente col rumore impertinente dei suoi tacchi che mi ronzava attorno.
«Per favore.»
Alzai un sopracciglio e aggrottai la fronte, fermandomi. Vidi Victoria intrattenere alcuni clienti con uno dei miei quadri, in particolare, quello che finii di dipingere assieme a lei.
La sua eleganza e i suoi modi fini e gentili erano fuori dal comune, anche se la visione di lei eccitata e bagnata in quello sgabuzzino ebbe la meglio, e quasi il mio animo non si eccitò ancora una volta.
«Cassandra.»
Lei mi rivolse uno sguardo speranzoso, ma dovetti deluderla.
Fu la prima volta che la chiamai per nome.
Lei mi affiancò reggendo alcune cartelline.
«Nessuno può diventare di più per me. Siete tutte fottutamente uguali. Per me siete il nulla cosmico, e solo perché qualche giorno fa io ti abbia scopata sulla tua scrivania, non significa un cazzo. Per cui, sta' lontana da me.» Sibilai in un sussurro per poi allontanarmi e lasciarla inerme con i suoi pensieri.
Guardandomi attorno, mi resi conto che la mostra andò benissimo, la galleria era piena di persone e diversi esponenti di un certo calibro parlucchiarono con me di affari, mentre altri erano interessati all'acquisto di uno dei miei quadri. Ressi un altro bicchiere di champagne mentre la mano libera l'avevo in tasca.
Victoria Brown mi affiancò tutto il tempo ma non mi rivolse minimamente uno sguardo o una parola, anche se in fondo potetti avvertire le sue vibrazioni positive ogni volta che le stavo vicino.
«I tuoi quadri sono egregi», affermò uno di loro complimentandosi col sottoscritto. «Vorrei comprarlo.»
«Si può fare.» Lui allungò la mano verso la mia e io esitai per qualche secondo, mentre Victoria si soffermò per un attimo sulla mia esitazione.
La guardai con la coda nell'occhio e fu in quel momento che decisi di stringergliela.
«E lei invece?»
Si rivolse al Fiorellino che trasalii.
«Oh, io sono la nuova stagista.»
Si strinsero la mano.
«Lei ha partecipato alla stesura di questi quadri, in realtà. Il merito è anche il suo.»
Lei mi rivolse lo sguardo, sorpresa dalla mia risposta.
«Quindi abbiamo una novella artista», disse un altro di loro congratulandosi per il suo operato.
«...E anche una splendida donna.»
La voce del proprietario della galleria si fece sempre più nitida e chiara vicino a noi.
E fui tanto così dal tirargli un pugno in faccia.
Il Sig. Cooper si fece spazio, insinuandosi tra me e lei.
«La ringrazio, ma guardi, la vera bellezza sono tutte le opere esposte in questa splendida galleria.» Cercò di travisare il discorso, imbarazzata dal complimento fuori luogo di quel coglione.
«Non ha tutti i torti Cooper», disse un altro di loro mentre lei iniziò a sorseggiare nervosamente lo champagne.
«Moore e Brown.»
Venimmo richiamati dal Sig. Thompson che ci fece cenno di avvicinarci.
Io e Victoria ci dirigemmo verso di lui che ci guardò al di sotto dei suoi occhiali poggiati sul naso.
«Complimenti.» Poggiò entrambe le mani sulla mia e sulla spalla di lei. «Ho richieste da parte di tantissimi clienti che chiedono di tutti e tre i quadri. Penso che toccherà organizzare un'asta nel giro di un mese.»
«Wow», esclamò lei entusiasta. «Non si parla d'altro qui», disse lei e lui l'assecondò.
«Siete stati bravi. Ottima squadra. Vi voglio concentrati. Moore ti manderò tutto tramite e-mail, spiegherai a Victoria cosa dovrà fare.»
Ci diede una pacca sulla spalla e poi si allontanò col suo bel bicchiere di champagne tra le mani e pieno di soddisfazione.
Si fidava davvero tanto di me, di Victoria, senza sapere che noi avessimo totalmente superato il limite del nostro rapporto professionale.
Non avevamo rispettato i patti, ma in fondo, le regole, a cosa servono se non a ricordarci di quanto sia estremamente eccitante la trasgressione?





Fu una giornata particolarmente piena: dovetti cercare di intrattenere tutti i clienti, parlare con loro, allontanare Cassandra e non perdere di vista neanche una volta quel Piccolo Fiore.
Tutti la guardavano, la squadravano da capo a piedi come se volessero metterla in ginocchio e farle tutto ciò che avrei voluto farle io.
La differenza tra me e loro era che, se l'avessero fatto, si sarebbero beccati un calcio in culo e una tomba in cui dormire per il resto della loro misera esistenza.
Può sembrare un discorso egoistico, ma, Victoria Brown non poteva e non doveva essere toccata più da nessun'altro.
Eccetto da me.
Rincasammo tardi quel giorno, pranzammo con un aperitivo organizzato direttamente dalla galleria della mostra, per poi concludere il tutto con un piccolo ringraziamento per il pubblico.
«Hai fame?»
Lei alzò lo sguardo sul mio, inarcando un sopracciglio.
«No.»
Sfilai dalla tasca il mio pacchetto di sigarette e ne afferrai una direttamente con la bocca.
«Se cambi idea ti ho lasciato la cena», affermai continuando a reggere tra le labbra la sigaretta.
«Stai scherzando?» Aprii le braccia in segno di resa.
«Mh?», mugugnai accendendola e cominciando a fare qualche tiro.
«Tu hai idea di quello che abbiamo fatto? Che hai fatto?» Si avvicinò a me camminando ancora su quei tacchi vertiginosi che la slanciavano da morire.
Buttai fuori il fumo e mi sedetti sulla poltroncina che dava, ancora una volta, la solita magnifica vista di Brooklyn al tramonto.
«Dovresti ringraziarmi.»
Ressi la sigaretta con l'indice e il medio, aprendo le gambe e poggiando il braccio libero sul bracciolo della poltrona.
«Di cosa, esattamente?» Domandò seccata.
Si mise di fronte a me, incrociando le braccia. Alzai lo sguardo, squadrandola da capo a piedi e soffermandomi sul suo collo.
«Ti ho donato cinque minuti in cui ti ho fatto dimenticare della tua vita di merda, dovresti ringraziarmi proprio per questo.»
Sgranò gli occhi.
«Ma come ti permetti?»
Allungai il braccio libero e l'afferrai, facendola atterrare esattamente sul mio corpo. La costrinsi a mettersi a cavalcioni sulle mie gambe mentre le sue mani poggiavano sullo schienale, esattamente ai due lati della mia testa.
Le avvolsi il braccio attorno al fianco, in modo tale da tenerla ferma.
«Menti a te stessa solo per fare un torto a me. Mi dai troppa importanza così, te ne rendi conto?»
Mi guardò con occhi tremanti.
Ogni nostro, seppur quasi invisibile contatto, era in grado di scatenare una guerra furiosa dentro di me.
«Sono abbastanza sicura di quello che dico», disse per poi mordersi l'interno guancia. «Pensi che tutto il mondo giri intorno a te, come sempre. E adesso lasciami, devo farmi una doccia.» Fece forza col busto per andar via, ma non li e lo permisi.
«Tu non vai da nessuna parte Bocciolo», la strinsi ancora più forte e la attaccai totalmente a me.
Eravamo fronte contro fronte e naso contro naso.
«Eserciti un controllo che non ti appartiene, Derek Moore.» Controbatté.
Spensi la mia sigaretta nel posacenere e decisi di farla girare d'improvviso, non dandole il tempo di rendersi conto di quello che stesse per succedere.
La feci sedere sulle mie gambe e la sua schiena poggiava sul mio petto. Le presi il mento con una mano e mi avvicinai al lato della sua faccia.
La patta dei miei pantaloni premeva sul suo sedere e il suo fiato si accorciò.
«Devo fare la doccia», ribadì e i suoi occhi non osarono posarsi su di me.
I nostri corpi erano perfettamente riflessi nell'immensa vetrata del salone, proprio di fronte a noi. L'immagine non era nitida, ma era comunque chiara.
«Prima nello sgabuzzino», iniziai a parlare strusciando le labbra sul suo lobo. «Avevo una gran voglia di scoparti con qualsiasi parte del mio corpo. Con le dita, con la bocca, col mio cazzo.»
Lei rimase in silenzio, stringendo il tessuto della poltroncina tra le mani. Le sue nocche sbiancarono per la pressione che esercitò.
«Questo perché io so controllare i miei istinti. Sono così abituato ad esercitare il controllo, che so tenere a badare anche i miei desideri sessuali.»
Il sole tramontò per lasciar spazio pian piano alla luce della luna, che si presentò davanti ai nostri occhi, facendoci godere della sua bellezza.
«O semplicemente non vuoi rischiare il tuo amato posto del cazzo.» Sbraitò lei, mentre io le strinsi ancor di più le guance.
Che signorina maleducata.
«Dovrei punirti per la tua maleducazione», passai la lingua sul suo lobo e i miei occhi mi donarono l'immagine dei suoi brividi lungo le sue braccia.
Succhiai lentamente il lobo, stringendolo con i denti. «Quello che voglio fare è dimostrarti che tu, tanto sfacciata e fottuta perbenista, non sai esercitare il controllo del tuo corpo.»
Passai la lingua dietro il suo orecchio e le sciolsi la coda, facendo sì che l'odore dei suoi capelli mi pervadesse le narici.
Ansimò leggermente, tentando di distaccarsi da me, ma la tenni a bada.
Lasciai la presa dal suo mento e posizionai entrambe le mani sulle sue spalle. «Da quel bacio sei diventata così vulnerabile, che potrei farti venire anche sussurrandoti cose sporche all'orecchio senza sfiorarti.»
Scesi corrispettivamente ai due lati delle sue braccia. Le accarezzai lentamente, scendendo lungo le sue mani che erano sudaticce.
«Non toccarmi.» Sibilò a denti stretti.
Le spostai i capelli da un lato e le lasciai baci umidi dietro il collo.
Ancora una volta l'aria si caricò di tensione crescente, sensazioni che non avevo mai provato prima si mescolarono fra di loro, inebriandomi di una carica sessuale assoluta.
Guardammo i nostri riflessi nella vetrata, ancora vivi grazie alla lieve luce solare restante.
Trattenne il fiato, mentre le mie mani sfiorarono i suoi seni e risalirono lungo il suo collo. Lo agguantai con entrambe le mani, risalendo con la lingua e fermandomi alla guancia.
Ansimò ancora mentre il suo respiro si assottigliò.
«Io ti avevo avvertita», ringhiai. «Ti ho aperto le porte dell'Inferno e adesso devi patirne le conseguenze.»
Poggiò la testa sulla mia spalla e girò il suo viso verso il mio. Mi fissò la bocca, bramandola contro il suo volere.
Sembrava essersi arresa.
«Non credevo che la tua bastardaggine arrivasse a tanto. Mi hai lasciata come una stupida in quello sgabuzzino e non credo che te lo perdonerò mai.»
Poggiai la schiena sulla poltroncina per sistemarmi meglio. Chinai il viso e lasciai una mano dal suo collo, tenendolo solo con una.
Le accarezzai la guancia col polpastrello dell'indice, studiando ogni sua linea facciale.
«Come non perdonerò mai ogni tuo tentativo di persuasione.»
Sghignazzai, leccandomi l'angolo della bocca. «E io non perdonerò affatto il tuo modo di fissarmi.»
«Come ti sto fissando?» Pronunciò lentamente quelle quattro parole, anche se aveva capito esattamente cosa volessi dire.
«Vuoi che ti scopi la bocca un'altra volta. Al chiaro di luna. Su questa poltroncina.»
Arrossì mordendosi le labbra e poi si schiarì la voce, mentre la presa attorno al suo collo divenne meno stretta.
«Vorrei che mi lasciassi andare a fare una doccia.» Mollai la sua presa, ma lei rimase esattamente dov'era, a guardarmi come la più innocente e al contempo diavolesca delle bambine.
«Va'.»
Passarono dei secondi interminabili e il gioco dei nostri sguardi non smise per un attimo di far scorrere un tempo inesorabilmente lungo.
«Sto andando», sussurrò, ma non si mosse di una virgola.
I suoi respiri invasero la mia bocca, mentre la voglia famelica di lei mi assaliva secondo dopo secondo.
Ci avvicinammo all'unisono e le nostre bocche si cercavano, si sfioravano, pregavano di aversi l'una con l'altra.
«Chiudi bene la porta però.»
Le distanze si fecero sempre più nulle.
«Perché?» Strascicò le parole terribilmente presa.
Questa ragazza è pericolosa, pensai.
«Perché rischierei di far questo.» Mi fiondai sulla sua faccia prendendole il viso con entrambe le mani e baciandola con una passione estrema.
La mia lingua premette duramente sulla sua bocca, così lei la schiuse e mi accolse con vemenza, con voracità, con fame.
Aveva voglia di qualcosa di nuovo, qualcosa che nessuno, neanche quel figlio di puttana, le fece mai provare.
Le nostre lingue si intrecciarono, ne volevano sempre di più.
Non mollai la presa dalla sua faccia.
Mi avventai come un predatore fa con la sua preda.
La sua fatica nello starmi dietro era tangibile, ma non riuscivo a smettere di lambire le sue labbra e la sua lingua.
Il dolce sapore della sua bocca che sapeva di champagne avvampò qualsiasi muscolo del mio corpo.
Presi la sua lingua tra le mie labbra e ne succhiai la punta, mentre lei strozzò un gemito per quel bacio così violento.
Un vortice di passione si impossessò delle nostre anime e i miei mostri lottavano contro me stesso per andare oltre.
Fare di più.
Fotterla senza pietà.
Di metterla in ginocchio e farle pregare di non farle del male.
«Non... Respiro», disse lievemente distaccandosi quel poco che le bastava per prendere fiato.
È proprio questo ciò che devi fare.
Falla soffocare come fecero con te durante quella fottuta festa.
Mi sollevai allineando il mio viso al suo e restai a guardarla.
Dalle tempie le colava un po' di sudore e le sue gambe erano rigide, contratte mentre le sue labbra erano gonfie e rosse.



13 anni prima...

Il rumore delle casse riecheggiava in tutto l'appartamento e le luci colorate vagavano senza fermarsi mai in ogni angolo della casa.
Io mi appartai in una delle stanze per trovare un po' di pace da quella musica troppo alta.
Mi invitarono per la prima volta ad una festa, anche se non le amavo particolarmente.
Le porte della stanza si spalancarono e Cole Anderson mi guardò come un bambino prima di scartare la propria caramella.
«Amico mio, perché non ti diverti con noi? Non ti annoi tutto soletto qui dentro?»
Rimasi inerme e seduto su un letto posto d'innanzi alla porta e guardai la luna.
Ignorai la sua domanda.
«Avanti», mi disse avvicinandosi sempre di più. «Posso trovare un modo per farti divertire lo sai?»
Sogghignai scuotendo la testa.
«Vaffanculo», risposi schietto.
«Così si trattano gli amici?», domandò rattristito.
«Tu non sei mio amico.» Sibilai.
Fu così che Cole afferrò un cuscino posto all'estremità del letto e me lo mise sul viso.
Si impose sul mio corpo troppo esile rispetto al suo, premendolo sulla mia faccia.
Cercai di dimenarmi, sentivo l'aria farsi sempre più sottile, sentivo meno ossigeno.
Avvertii il cuore battere all'impazzata e aprii la bocca contro il tessuto per incamerare quanta più aria possibile.
Delle lacrime rigarono le mie guance rosse, mentre Cole se ne fotteva del fatto che potevo morire da un momento all'altro.
«Ti soffocherò fino a quando non imparerai a rivolgerti a me come dovresti.»
Forse era arrivata la mia fine?
Sentii solo una fragrante risata, fino a quando non persi coscienza.




Soffocala.
Falle capire chi comanda.
Mi avventai ancora una volta sul suo viso, donandole un bacio ancora più rude rispetto al primo.
Stavolta ero incazzato.
Mossi la mia lingua esperta dentro la sua bocca e poi affondai i denti nel suo labbro, tirandoglielo fortemente fino a farle uscire un po' di sangue.
«Ah», gemette. Posò una mano sotto la mia clavicola per avere più spazio e l'altra la utilizzò per toccarsi il labbro.
Ecco... Così.
Vaffanculo, cazzo.
Mi alzai dal suo esile corpo e feci un passo indietro.
Lei si sollevò e mi guardò con disagio. Poi posò gli occhi sul polpastrello tinto di una macchiolina di sangue.
Tentò di dire qualcosa, nonostante avesse un aspetto ancora sconvolto.
«Sta' lontana da me», le ordinai.
Mi passai una mano fra i capelli e andai via. Non le diedi il tempo di controbattere che mi diressi verso il bagno principale. Chiusi la porta a chiave e cominciai a spogliarmi con velocità estrema.
Strappai i bottoni della camicia che scaraventai al suolo, mi tolsi la cinta, i pantaloni e i boxer, rimanendo completamente nudo. Tolsi anche l'orologio e mi scrocchiai il collo.
Ero teso.
Aprii il getto dell'acqua e aspettai che diventasse rovente. I fumi cominciarono a uscire e appannarono completamente tutto il vetro dello specchio.
Mi ci fiondai.
Strinsi i denti e abbassai lo sguardo chiudendo gli occhi.
Era da un po' che non mi punivo.
Mi era mancato sentirmi così tremendamente vivo.
L'acqua bollente strusciò lungo la mia schiena, provocandomi fastidio e dolore che si mescolarono al peso della mia vita.
Strinsi i pugni e poi esposi a quel getto il mio addome e il mio petto.
«Cazzo», dissi a denti stretti.
Il bollore dell'acqua sui miei capezzoli mi fece saltare mentre le goccioline di sudore si fecero spazio sull'attaccatura dei miei capelli.
Sei quasi vivo.
Spensi il getto.
Volli di più.
Aprii le porte della doccia e poi il mio cassetto, quello in cui custodivo l'oggetto di ogni mia tortura.
Il pezzo di vetro.
Lo agguantai dalla parte non tagliente, poi presi la bottiglietta dell'alcol e svitai il tappo, afferrai anche la cinta ripiegandola su sé stessa.
Posai tutto su una piccola rientranza al lato del doccino e richiusi immediatamente le porte.
Riaprii il getto d'improvviso e la mia pelle rabbrividì.
Passai la punta del vetro vicino il mio ombelico, tracciando una linea orizzontale che arrivava sino al mio fianco.
Gemetti per il dolore ma cercai al contempo di non farmi sentire.
Nel frattempo, l'acqua scottante batté esattamente su quel punto e la mia frequenza cardiaca alimentò il mio attacco di rabbia.
Il colpo di grazia lo diedi versando una quantità indefinita di alcol sopra la ferita aperta.
Il contatto con l'acqua fumante, l'alcol e il taglio mi provocarono una reazione malsana, bruciante, dolorante che mi fece girare la testa.
Mi inginocchiai sul piatto doccia e strinsi i pugni, mentre trattenni l'atroce dolore che stavo provando.
Soffocai un gemito, mentre al suolo macchie di sangue decoravano le piastrelle.
Manca poco per sentirti vivo.
Un altro piccolo sforzo.
Sapevo benissimo ciò che dovevo fare.
Allungai il braccio tremante e agguantai anche la cinta. La piegai in due e rivolsi la parte del cinturino metallico verso il mio corpo.
Mi sollevai con tutte le mie forze.
L'acqua scottante continuava a sgorgare.
La mia vista si appannò.
Il sangue continuava a colare imperterrito macchiando le mie gambe e i miei piedi.
L'alcol bruciò anche la mia anima.



«Conta fino a tre e ti lascerò vivere», affermò divertito Cole.
Ma io non riuscivo a parlare, mi girava la testa.
«Uno», strillò lasciandomi il dovuto spazio tra me e il cuscino per respirare. «Forza sfigato, conta!»
«U..uno», ansimai.



Conta fino a tre con me, disse il mio demone interiore.
Uno.
«Uno», mormorai apatico.



Ripose il cuscino sulla mia faccia schiacciandolo ancora una volta.
«Conta cazzo!», disse Cole.
«D...due», balbettai contro il cuscino.


Due.
«Due», strinsi saldamente la cinta tra le mie mani.



«Ci sei quasi sfigatello di Boston», mormorò ridendo. Distaccò leggermente la presa.
Perché mi lasciavo trattare così?
Perché continuavo a non reagire?
«Dì l'ultimo numero, coglione.»
«T...tre», sibilai stanco e lui, finalmente, tolse il cuscino dalla mia faccia.



Tre.
«Tre.»
Con voracità e con tutta la forza che il mio corpo avesse in quel momento, mi diedi un colpo di cinta sulla ferita.
Poi un altro.
Poi un altro ancora.
Fin quando anche la pelle limitrofa alla ferita non si fece rossa.
Un altro.
Trasalii soffocando un gemito di dolore.
Un altro colpo.
Mi morsi l'interno guancia trattenendomi.
Sussultavo ad ogni colpo, mentre la mia voce interiore urlava di smetterla.
«Porca puttana», dissi respirando con affanno e fottutamente incazzato.
Ora sei vivo, Derek.
Spensi il getto d'acqua, aprii le porte e immediatamente mi curai la ferita, apponendo un cerotto con garza grazie alla cassettina delle medicine che avevo sempre con me.
Ripresi a respirare.
Il mio corpo era un insieme di brividi, ustioni e ferite. Molte ormai erano coagulate, altre invece erano fresche.
I miei muscoli erano rigidi ed ebbi dei piccoli spasmi per il dolore.
Mi vestii in fretta, indossando una canotta nera aderente al mio addome ma che non lasciasse intravedere il cerotto e un pantalone di tuta.
Rimasi a piedi nudi e tamponai leggermente i capelli con l'asciugamano.
Cercai di ripulire tutto in fretta, disinfettai il pezzo di vetro per poi avvolgerlo nella carta e richiuderlo nel cassetto sottostante.
Dovevo prendere aria.
Uscii dal bagno, chiudendo la porta a chiave e infilandola nella tasca del pantalone.
Non sapevo che fine avesse fatto Victoria, fino a quando non intravidi la sua ombra in lontananza.
Era nella camera degli ospiti.
Mi avvicinai a passo felpato, lentamente, come se fossi un ladro.
Feci capolino alla porta della camera senza farmi sentire e la vidi seduta di spalle, mentre dipingeva.
Non indossava più quei vestiti, ma un leggings nero e una felpa di due taglie più grande di color grigio, lunga sino al sedere.
Aveva i capelli semi raccolti in una sottospecie di tuppo disordinato con qualche ciuffetto che le ricadeva ai lati del viso.
Rimasi a guardarla per qualche secondo, fissando anche il tatuaggio dietro al collo.
Per qualche assurdo motivo riusciva a trasmettermi tranquillità e pace, dopo la tempesta interiore che avevo dentro e che avevo affrontato solo qualche minuto prima.
Le sue docili mani muovevano il pennello sulla tela in maniera sublime mentre l'altra mano reggeva la tavolozza dei colori.
Era come un'aura positiva che illuminava la stanza più della luna.
Scossi la testa scacciando via quei pensieri che non appartenevano per niente alla mia indole, ma, prima che potessi andare via, lei si girò verso di me e trasalii.
«Da quanto sei qui?»
Posò il pennello in uno spazio apposito, un incavo al di sotto della tela.
«Dovresti cercare di migliorare i tratti del disegno, alcuni sono tremolanti.»
Lei si alzò, posando le mani sui suoi fianchi.
«Dispensi consigli adesso?»
Guardai il suo labbro, il sangue non c'era più ma solo una minuscola macchiolina rossastra all'angolo.
«Sono pur sempre il tuo tutor.»
Alzò gli occhi al cielo e mi puntò il dito contro.
«Ah, il mio tutor? Ora lo sei? E prima? Vaffanculo Derek.» Mi assalì con quella sua vocina stridula. «Maledizione», si voltò e cominciò a camminare. «Che cosa volevi dimostrare? Che sei in grado di farmi sanguinare? Di farmi male? E poi andartene via? È la seconda volta che ti comporti così.»
Aggrottai la fronte e invasi la camera.
«Non capisco di cosa tu ti stia lamentando», affermai in modo secco. «Per il labbro? Mi dispiace, ma, non pensavo fossi così fragile oltre che vulnerabile.»
«Sei incredibile.» Tartagliò.
«Non puoi lamentarti, ragazzina. Lo sai perché? Perché non hai fatto un cazzo per impedire che io non ti baciassi ancora una volta. Sei così attratta da me che non sai neanche controllare le tue fottute voglie.» Mi avvicinai a lei mentre continuava a camminare indietro.
«E tu sei un vigliacco.»
Poggiò il sedere sul davanzale della finestra, non avendo più a disposizione nessun altro spazio per allontanarmi.
«E tu non sei stata in grado di difenderti da una razza di psicopatico. Se non fosse stato per me, saresti morta.»
Non me ne fregava un cazzo se l'avessi ferita.
La mia rabbia stava avendo la meglio e non potetti più trattenere la frustrazione.
I suoi occhi si fecero lucidi e smisero di inchiodarsi ai miei così tenebrosi e privi di emozioni.
«Guardati.» Incalzai la dose. «Guardati, cazzo. Giochi a fare la forte quando l'unica arma a tua disposizione sono io
Tirò su col naso, per poi abbassare lo sguardo e irrigidirsi.
«Cos'hai lì?»
Notai il suo sgomento e guardai esattamente nel punto in cui stava guardando lei e serrai la mascella.
Sentii il cuore scoppiarmi nel petto.
Afferrò il punto in cui la canotta le parve sporca e la tirò a sé per guardare meglio.
La strattonai, ponendo la giusta di distanza fino a che non arrivai nuovamente alla soglia della porta.
Cazzo.
Cazzo.
Cazzo.
Volevo tirarmi un pugno in faccia.
Stavo sanguinando ancora.
Non era bastato quel misero cerotto e quella garza per coprire la ferita.
Lei mi guardò preoccupata per poi deglutire.
«Non toccarmi mai più in quel modo e, maledizione, fatti i cazzi tuoi
Me ne andai, sbattendo violentemente la porta della sua camera.

Quella ragazza ti darà solo problemi, insistette la voce nella mia testa.
Quella ragazza è già un mio problema, risposi.


E fu così che il mio demone ricominciò a parlare.

...Ma noi siamo la tua soluzione.




SPAZIO AUTRICE

Ciao a tutt* Piccoli Fiori, sono tornata col capitolo ventuno e vi posso dire che le mie povere dita tremavano scrivendo ogni singola parola di questo capitolo.
Per me è stato intenso, un mix di emozioni inaudito, un vortice che mi ha trasportato letteralmente in un'altra dimensione dall'inizio alla fine.

Spero che anche voi abbiate avuto le medesime sensazioni, e in caso contrario, mi impegnerò di più per farvele sentire.

Mi auguro che il capitolo vi sia piaciuto, ma dovranno accadere così tante cose ancora che non so neanche da dove cominciare!

Ci terrei a ringraziare diverse lettrici che mi stanno dimostrando giorno dopo giorno il loro affetto e la loro grande curiosità.

Vi voglio davvero un gran bene (voi che state leggendo, sì, mi riferisco a voi. So che capirete che mi sto riferendo proprio a voi!) 😊

Ma ci tengo anche a ringraziare tutte coloro che hanno aggiunto la storia al loro elenco lettura, che hanno iniziato a leggere questa avventura, che mi lasciano una stellina e qualche commento.

Seguitemi su tik tok e Instagram per rimanere sempre in contatto: @higracehall

Vi voglio bene, Piccoli Fiori

A presto con un altro capitolo!

Grace

The Silence of a PromiseDove le storie prendono vita. Scoprilo ora