21. Ospite sgradito

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(trigger warning)

"Dunque, Louise" l'ufficio del dottore era asettico, bianco, un po' di muffa agli angoli. Puzzava di disinfettante. "Ti trovi bene con la zia?"

"Mhmm...", mugolai, spenta e atona, piatta, senza nessuna emozione, "sì, la zia è buona... anche zio... mi insegna a suonare la chitarra... quella di Lucas..."

"Sono contento di sentirlo. A scuola? Ci vai tutti i giorni?"

Annuì debolmente con il capo. "Sì, signore. Capisco quando i professori parlano, anche maman mi parlava in italiano... scrivere però è difficile..."

"Hai un sostegno? Qualcuno che ti aiuta?"

Il signor Mario – non voleva che lo chiamassi dottore – portava un paio di occhiali da talpa, che gli facevano gli occhi giganti; una calvizie rara per un uomo vecchio-ma-non-troppo come lui; sulla cinquantina. Un naso rosso, soffriva di diversi tipi di allergie, spesso si soffiava il naso. Era buffo, mi stava simpatico. Nelle prime sedute me ne volevo andare, di corsa, ma ultimamente le mie gambe non funzionavano a dovere, i miei muscoli andavano contro la mia volontà; tuttavia, pur costretta, con il tempo aveva iniziato a piacermi stare con il dottore. Neuropsichiatria mi offriva il servizio gratuito, dovevo vederlo tre volte a settimana, per almeno un'ora.

Mi faceva domande, mi chiedeva di tutto, parlavamo del più e del meno, di argomenti di ogni tipo; a volte portava giochi da tavolo, mi faceva disegnare, portava cartoni educativi.

"Un amico più grande, mi fa le ripetizioni"

Il dottore parve brillare. "Ti sei fatta un amico? Come si chiama?"

"Yuri" risposi trasognante, "è fortissimo, è bello e mi fa ridere tanto, insegna bene, meglio della prof di italiano"

Congiunse le mani e mi sorrise bonario. "Ti piace?"

Le mie guance divennero di un colorito acceso, l'uomo rise. "Penso proprio di sì. Glielo hai detto?"

"Mhmm...", voltai la testa, troppo imbarazzata, "no, non so come si fa"

"Devi dire: Yuri, mi piaci tanto", disse, con tenerezza.

"Se mi dice che io sono brutta e non mi vuole?"

"Se ti dice che sei brutta, digli che non è vero, perché lo sanno tutti che sei bellissima, Louise", mosse il busto in avanti, toccando la scrivania, "se non ti vuole... digli che non sa cosa si perde!"

A tredici anni era raro farmi ridere, ma Mario ci riusciva, infatti risi lievemente, timida e lusingata. "Sì, allora glielo dico la prossima volta, se mi dice cose brutte gli rispondo e lo faccio nero!"

"Bravissima, così ti voglio". Mi batté il cinque. "Intanto, giochiamo a scacchi? Ho una nuova tecnica da insegnarti. Continui a studiarle a casa? Se non le impari bene, non saprai mai battermi". Mi fece l'occhietto ed estrasse la scacchiera dalla libreria. Giocammo a scacchi per un'ora, un'ora in cui smisi di pensare a tutti i disastri e traumi della mia breve vita.

***

Soltanto dopo anni avevo capito la ragione per cui ci teneva tanto che apprendessi le "potenti mosse di scacchi!". Gli scacchi richiedono uno sforzo mentale, un ragionamento, concentrazione: specie se si conoscono tecniche precise, perché c'è la necessità di combinarle insieme per giungere alla caduta del re. Quando calciavo quella pedina mi sentivo orgogliosa.

Perdevo la cognizione del tempo. Il dottore voleva darmi uno strumento per distrarmi, per eludere la mente da pensieri disfunzionali, ma meccanici, che la mia testa faceva balzare senza che io lo richiedessi.

Un battito d'ali su un mare di cicatrici🍃Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora