1. Sono cattiva e merito il dolore

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<Il "dolore" non è colpa del mondo, né del destino o di una divinità; né avviene per caso. Ha origine dentro di noi, dalla ricerca della felicità in ciò che è transitorio, spinti dalla sete, o brama, per ciò che non è soddisfacente>

All'inizio di questa storia, ero convinta di meritare di soffrire. Il dolore che mi portavo dietro era come un macigno sulle spalle, come una puzza asfissiante rimasta attaccata addosso, cui ero stata a contatto per troppo tempo, che lasciava una lunga scia dovunque mi trovassi.

Era venuto a farmi visita per la prima volta all'alba dei miei undici anni, e da lì non se n'era più andato: era cresciuto insieme a me, di giorno in giorno, di anno in anno. Mi aveva marchiata. La mia bianca e pura innocenza sporcata da piccole macchie nere, come gocce di vernice nera che inquinano, inevitabilmente, vernice bianca... una dopo l'altra, facendola diventare nera.

Ero corrotta, perfida, perversa, e non avevo ragioni per non esserlo. Meritavo la sofferenza, niente mi spingeva verso la bontà, verso il prossimo.

Tempo prima dei miei diciannove anni, ovvero l'inizio di questa storia, avevo tentato la strada per cessare il dolore, o almeno mitigarlo. Mi ero imbattuta nel buddismo, subito scartato, ma da cui avevo tratto qualche insegnamento.

Mi aveva aiutato a capire le radici della mia cattiveria gratuita.

Perché mi fai questo? Ti prego, basta! Non ti ho fatto niente: erano frasi che sentivo spesso, dai compagni di scuola, coetanei, o chiunque avesse la sfortuna di imbattersi nella mia scia di emozioni represse, rabbia, tristezza, solitudine, insoddisfazione.

***


"Secondo te, perché sono cattiva?"

Il ragazzo non sembrava per nulla interessato alla domanda. Non aveva interesse in ciò che era dentro di me, voleva il mio corpo. Lo vedevo da come mi guardava bramoso, sul letto, con la camicia sbottonata e un chiaro problema al piano di sotto. Ubriaco e fatto.

Sbiasciò un "eh?", ma mi protrassi. Un respiro. Due. Tre. Quattro. Tutti quelli che voglio... "Lo sai, abbiamo un tale potere dentro di noi, che parte dalle piccole cose: respirare, sognare, vivere. Lo possiamo fare senza impedimenti. Ed è per questo che vogliamo di più. Cose troppo piccole sono quelle che possiamo fare partendo da noi stessi: da cose piccole, finiamo a desiderare le cose grandi. Magari anche più grandi di noi. Abbiamo un tale desiderio di cose più grandi e impossibili da raggiungere, che quando non riusciamo ad ottenerle ci fanno annegare in un oceano di tristezza e insoddisfazione"

Era confuso: forse non riconosceva la puttana con cui aveva condiviso alcol e fumo poco prima nel discorso filosofico. "Quanto sei eccitante... sexy e intelligente... me lo fai venire così duro... hai finito?"

Stava aspettando che lo raggiungessi. Mi spogliavo con lentezza, un indumento alla volta.

"E magari questa insoddisfazione così grande di noi stessi, finisce per essere riempita da noi da cose allo stesso modo grandi, ma facili e sbagliate da prendere: il male". Abbassai la gonna nera svolazzante...

"Chi mai preferirebbe la strada più complicata a quella più semplice?", adesso, con lentezza, le calze nere. Sbavava. "E così, si finisce sulla cattiva strada. Nessuno nasce cattivo; si diventa cattivi dopo aver fatto prendere il posto di cose buone da cose cattive. Il male è facile da trovare e raggiungere. Il bene si nasconde meglio, ma resta sempre latente dentro di noi".

Toccava al top bianco e stretto, ma prima passai la mano, con unghie laccate di nero, lungo il suo collo, e sotto al mento. Strinsi le dita, come a soffocarlo, mentre passavo l'altra mano sotto la sua camicia. Non sapeva se spaventarsi o eccitarsi. Fece entrambe le cose.

Avvicinai le labbra al suo orecchio: "Per non frasi corrompere, è necessario farsi bastare lo stato di natura: nascere, vivere, respirare, mangiare, riprodursi, morire. Eliminare il desiderio. Arrivare alla felicità in modo semplice", allontanai il viso e la mano dal suo collo, leccandomi le labbra. Boccheggiò, un po' rosso in viso, e ora nei suoi occhi c'era una nota di sano terrore.

"Chiariamoci: è anche vero che se continuassi a fingermi molto saggia, sarei solo un'ipocrita. Sono la prima a cedere al desiderio. Ma questo desiderio, questo ricoprire il vuoto interno attraverso cose sbagliate, mi fa stare così bene, anche se per pochi minuti".

"Non capisco che stai dicendo, sei fuori di testa", alzò il busto per andare, ma lo spinsi di nuovo contro il materasso.

"Ti sto spiegando perché sto per darti il diritto di scoparmi, fottuto imbecille"

"Me ne vado, sei pazza, cazzo, volevi strozzarmi!"

Mi sfilai la maglia in un gesto secco. "Sei proprio sicuro?"

Mi piaceva avere il controllo, mi aiutava a non impazzire; e gli uomini sono facili da soggiogare. "Puoi farmi ciò che vuoi, tranne baciarmi. Ci siamo capiti?"

In poco mi prese su di sé, le mani ovunque, mi strappò l'intimo, si strusciò forte, gemette in suoni orribili, graffiò, mi tirò i capelli... piacere e dolore fisico, un qualcosa di concreto che mi distraeva, per un po'.

C'era un problema. Il solito problema: "D'accordo, furia. Tolgo i bracciali, se continui a tirarli li rompi".

Ai polsi portavo dei banalissimi elastici. Elastici che, schioccando forte, provocano un bruciore rapido, segni rossastri che scompaiono in pochi minuti.

A braccia e gambe strati e strati di fondotinta, difficile quantificare quanto ne consumassi al mese. Portavo soltanto maglie lunghe: il correttore serviva proprio nei momenti in cui mi era impossibile nascondermi. Non era comunque scontato: molti cicatrici sporgenti spesso mi tradivano, ma rarissime volte avevo ricevuto domande.

La verità è che spesso preferiamo voltarci dall'altra parte piuttosto che fare domande. Approfittavo dello scarso interesse altrui.

Mi allontanai dal ragazzo giusto il tempo di toglierli, ma al mio ritorno già sonnecchiava beato. Comprensibile dopo mix di shot e canne.

"Porca puttana, proprio quando mi stavo divertendo".

Mi ritrovai a risistemare i miei adorati bracciali colorati, nell'ordine in cui li avevo stabiliti, prima di rivestirmi. Viola, blu, azzurro, verde, giallo, arancione e rosso. Esatto: la bandiera della pace. Un'ironia velata. Ero molte cose, ma certo non una persona pacifica; e provavo diverse emozioni, ma mai pace.

Dal canto suo, il tizio emise un grugnito, mentre io mi aggiravo nella stanza respirando lentamente. Uno, due, tre. Uno, due e tre.

Mi chiamavano puttana. Facevo tutto ciò per mia piena volontà. Qualcosa di sbagliato che saziava il mio vuoto.

Spegnere il cervello. Le feste mi aiutavano: musica spaccatimpani, una giusta dose di alcol, farmaci, stupefacenti, sesso per svago e il cervello andava per un po' in vacanza.

Feci un giro per la stanza, non c'era niente, a parte il tizio sul letto e il suo portafogli sul comodino. Senza pensarci lo aprì, buttando uno sguardo al tizio che russava sommessamente.

A volte ero fortunata: buttando un'occhiata, compresi di avere in mano un centinaio di euro, e una bustina di polvere bianca.

Chi lascia incustoditi cento euro e droga ad una festa di tossici? Soltanto un idiota: la mia fortuna erano proprio gli idioti.

Presi sia i soldi che la bustina, recuperai la borsa; feci stringere le labbra nel gloss e uscì. Passai tra i corpi ubriachi, scolai un altro mezzo bicchiere di vodka e, fiera di me stessa, mi condussi all'esterno.

Uno, due, tre.

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NOTA: hello there:)

Spero che il primo capitolo vi abbia incuriositi. A presto💗

Un battito d'ali su un mare di cicatrici🍃Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora