4. REV

68 3 12
                                    


Passavo poco tempo in casa: pranzo, cena, dormire, per il resto sgattaiolavo via con ogni scusa. Il tragitto scuola-casa era di una ventina di minuti; c'era un autobus, ma soffrivo di mal d'auto. Camminare non mi pesava: musica alla orecchie, il mondo che scorreva intorno, inarrestabile.

Sole era una città grottesca. Distava un'oretta da Roma, comprendeva all'incirca centomila abitanti, il centro era largo e ben rifornito. Un centro ricco che, verso le strade periferiche, si scomponeva tassello per tassello. Il liceo era piuttosto centrale, dunque, percorrendo verso la periferia, potevo osservare lo sgretolamento un passo dopo l'altro. Ora di pranzo, ora di punta, camminavo fra gente e gente, pecorelle impazzite, soprattutto studenti di ogni grado e lavoratori di uffici. Una decina di minuti dopo, la folla era dimezzata e i successivi cinque ero immersa in strade solitarie.

Il bello era che, alla fine della frantumazione graduale, si ergevano limpide colline e montagne. Molti romani, infatti, d'estate, per purificarsi dal caos e respirare aria più pulita, prendevano casa proprio in quelle periferie che in inverno restavano sterili.

***

Rientrai verso le due, soltanto perché affamata, intenzionata ad andare in biblioteca dopo pranzo.

Non tutti i ragazzacci sono maldisposti alla cultura e allo studio. In verità, i migliori spacciatori che conoscevo erano piuttosto eruditi, e parecchio astuti. Ad esempio Mark. Era un lavoretto che richiedeva impegno e attenzione, in cui una svista poteva costare cara, ampliando man mano gli affari. La sua facciata era fin troppo limpida. Niente a che vedere con i ragazzini buttati per strada a vendere, reperibili ovunque.

Io non spacciavo, non ero una tossica, non rubavo, ero comunque acculturata, solo con interessi diversi. Letteratura. Materia considerata inutile a qualsiasi utilizzo prettamente pratico, di cui potevo discorrere di rado con qualcun altro.

Il mio principale interlocutore, poco tempo prima, era zio Alfonso. Già. Lo zio che mi aveva rotto il naso e perciò era stato fuori casa per mesi. Lo zio che mi aveva insegnato a suonare la chitarra, che mi aveva regalato la maggior parte dei libri che custodivo in camera. Lo stesso zio che aveva rotto la macchina, speso i nostri risparmi per birra e vino, che aveva tradito zia con altre donne, tornando poi pateticamente a piangere e strisciare.

La mia camera era tappezzata di citazioni, sotto sua idea. Citazioni che rileggevo e rileggevo, e man mano, trovandone di nuove, aggiungevo negli spazi liberi.

Citazioni, frasi e parole che, apprese, ripetevo a mente. Una fonte di distrazione. La mia preferita era di Baudelaire:

"Terribile è il gioco dell'amore, in cui è necessario che uno dei due giocatori perda la padronanza di se stesso".

Prima che mi trasferissi, era "la camera degli ospiti da risistemare": mi ero adoperata subito a travasare qualcosa di me. Ed era ancora da risistemare, ma mi ero impegnata.

All'interno c'era un enorme buco nella parete al lato della porta, coperto da un poster di Ozzy Osbourne. Le pareti erano state colorate da me in nero, così da poterci scrivere sopra con pennarelli bianchi; il letto scricchiolava ad ogni movimento; c'era un armadio in legno vecchio, che avevo pittato di bianco, e un baule, dove riponevo soprattutto calze per nascondere le scorte. Avevo trovato vicino al letto un mobile molto spazioso: l'avevo spostato vicino alla scrivania e riempito con i miei libri; e una singola foto, una cornice di un giallo acceso, l'unico colore vivo.

Quello che mi restava della mia vita, una vita passata. Me, mio fratello Lucas e i miei genitori. Ce l'avevano scattata durante una di quelle stupide gite in montagna: io e Lucas adoravamo correre fra gli alti cipressi, querce, pioppi, noci, castagni, pini, abeti. Le guide ci insegnavano a distinguerli, ci divertivamo nel riconoscerli e scovare le piantine di fragoline, le castagne cadute, raccogliere le more. Una volta, non distinguendo le spine, ci eravamo punti; la piccola cicatrice solcava ancora il mio mignolo sinistro: la cicatrice era l'unico segno visibile che mi legava ancora al mio gemello, la mia copia al maschile.

Avevo l'abitudine di prenderla e fissarla ogni giorno, alcune volte anche per ore. Non era questo il caso: il mio telefono squillò, un numero sconosciuto.

"Sono occupata, lascia un messaggio in segreteria, coglione". Stavo per riattaccare, quando: "Mon coeur, lo so che non sei mai troppo occupata per me".

"Yuri! Quando sei tornato? Hai già finito in Colombia o dove cazzo era?"

Non era andato in Colombia: prendeva posti a caso per celare dove andasse davvero. Preferiva non dirmelo, e io non volevo saperlo. Mi bastava sapere che era socio di Mark e ipotizzavo che i viaggi riguardassero il lavoro, forse la persona che gli procurava la roba da vendere, il corriere della droga. Il tempo di soggiorno variava. Non lo vedevo da due settimane e già mi mancava.

Yuri. Il ragazzo di cui ero stata follemente innamorata a tredici anni e per cui avrei commesso ancora qualche follia. Era stato lui a presentarmi gli altri.

"Finito presto con Escobar. Ti ho portato un regalino. Vieni da me, ho invitato tutti".

Ci portavamo due anni di differenza: l'avevo conosciuto alle medie, poco dopo essermi trasferita da Avignone, dai miei zii; parlavo già l'italiano, perché mia madre era italiana, ma avevo comunque qualche difficoltà, non avevo mai vissuto in Italia prima. La scuola mi aveva presentato Yuri, talento ineffabile per le lingue, per ambientarmi, ed eravamo finiti per diventare amici, molto amici, aggiungerei amici molto intimi.

Arrivai da lui più tardi del previsto, trovai Lorenzo fuori a fumare. Prima che facessi in tempo ad aprir bocca, sputò: "Il coglione ti ha portato un tanga".

"Un tanga? Caro Yuri, mi conosce così bene. Non preoccuparti, non mi farà del male". Gli diedi una pacca, sapendo di non calmarlo. Lorenzo era troppo bravo ragazzo per avere a genio una mina vagante come Yuri. Molte volte si presentava da lui per controllare che non sgarrasse.

La puzza di chiuso e di marijuana mi colpirono subito il naso; c'erano più persone del previsto: "Ha organizzato un festino? Appena tornato?"

Conoscevo di vista la maggior parte dei ragazzini presenti. Molti di loro provenivano da quartieri o paesini nei dintorni in cui tutti almeno una volta hanno tirato una striscia, come Yuri.

Altri, la minoranza, provenivano da famiglie perbene, gli "invidiati" e spesso sbeffeggiati. Perché uscivano con gente depravata, gli amici e conoscenti di spacciatori?

Avevo formulato un'interpretazione semplice. Molti adolescenti, ad oggi, provano una così pura eccitazione nel sentir nominare "droga", "morte", "sesso", "alcol", e via di seguito. Non si tratta sempre di famiglia e educazione, i rapporti che si instaurano con i compagni, a scuola e via discorrendo sono fondamentali. Così, venendo da buone famiglie, finiscono per farsi trascinare in cose più grandi di loro, senza calcolare i pericoli.

Un mero sfuggire alla vita quotidiana o sete di pericolo; un'attrattiva allettante, nulla di più, che, non ponendo limiti, può far bruciare.

"Questo lo chiami festino? E' un maledetto REV".

Yuri sguazzava in un mare distruttivo; richiamava a sé, come un tornado, la peggio gente. Polvere, pasticche colorate, spinelli, l'alcol era la cosa più vicina al legale. Rare volte avevo visto anche cucchiai e siringhe.

Avevo una certezza: io non ero così. Non avevo lasciato Yuri perché non lo amavo più, né perché mi ero stancata di lui. L'avevo lasciato per la strage che generava; strage in cui, standogli troppo vicino, temevo di essere coinvolta.

Ebbi un brivido lungo la schiena. Mi balzò l'occhio su un ragazzo che stava aspettando con pazienza che il suo amico gli bucasse il braccio.

Tutte le droghe hanno la capacità di distruggere l'esistenza, frantumarla in mille pezzi, ma l'eroina è regina indiscussa. E' considerata unanimemente come la più letale; riduce a pezzi sia a livello fisico che psicologico. Uno su cento riesce a vincerla indenne. Ed è disgustoso vedere quando se la iniettano, peggio ancora, quando se la iniettano in gruppo passandosi la siringa.

Ogni volta che mi capitava di beccarne uno, voltavo la testa. Mi ripetevo che non sarei mai scesa così in basso, non avrei mai toccato il fondo perdendo la dignità.

Non avrei avuto possibilità di risalire.

Un battito d'ali su un mare di cicatrici🍃Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora