26 - QUALCUNO MI PORTI A LOURDES

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"Un'ombra che ingigantisce nell'attesa, ma svanisce quando decidi di attraversarla."
- Rae Hart


Mia

Il rumore del mio telefono vibrò contro il comodino, spezzando il silenzio opprimente che riempiva la stanza. Non lo guardai nemmeno. Non volevo. Qualsiasi fosse il messaggio, o la chiamata, non poteva essere più pressante del tumulto che avevo dentro. Mi allungai sul letto, fissando il soffitto mentre il peso delle parole di mia nonna mi schiacciava il petto.
<<Non si farà da parte e non ti lascerà vivere in pace>>.
Le sue parole rimbombavano nella mia testa, più pesanti del silenzio che mi circondava. Mio padre era libero, e questo significava che ogni giorno, ogni istante, sarebbe stato carico di una nuova minaccia. Ma il problema più grande non era lui. Era la fiducia, o meglio, la mancanza di fiducia che sentivo crescere nei confronti di Jonathan. Jonathan. Era sempre lì, sempre presente, ma sempre distante. Da quando aveva iniziato a lavorare per me, avevo percepito che c'era qualcosa di più, qualcosa che non mi stava dicendo. Nonostante tutto, però, una parte di me si sentiva sicura quando era vicino. Ma potevo davvero permettermi di fidarmi di lui? Mi alzai dal letto con un sospiro, dirigendomi verso la finestra. Londra, come sempre, continuava a vivere la sua vita sotto di me, indifferente a tutto quello che stava accadendo nella mia. Le luci dei semafori, il flusso costante di persone che andavano e venivano, tutto sembrava così lontano, così irrilevante. Eppure, proprio lì, nascosto tra quelle strade familiari, c'era mio padre. E lui non sarebbe rimasto nell'ombra per molto. Il suono dell'ascensore che si apriva sul mio piano mi riportò alla realtà. Era un rumore così comune, così innocente, eppure qualcosa dentro di me si irrigidì. Un presentimento. La pelle della mia nuca si increspò, e il battito del mio cuore accelerò senza un motivo apparente. Feci un passo indietro, cercando di capire da dove provenisse quella sensazione. Poi lo sentii. Il passo lento e misurato di qualcuno che camminava nel corridoio. Il suono delle suole eleganti che colpivano la moquette con un ritmo innaturalmente calmo. Non era Jonathan. Lui camminava con più urgenza, quasi nervoso. Questo era diverso. Freddo. Calcolato. Il mio respiro si fermò per un istante. Dall'altra parte della porta, l'eco di quei passi si avvicinava, sempre di più. Chiunque fosse, sapevo che non si trattava di qualcuno che doveva essere lì. Mi mossi istintivamente verso il comodino, afferrando il telefono. Le mani tremavano leggermente mentre digitavo il numero di Jonathan. Ma non riuscii a premere invio. Cosa avrei dovuto dirgli? Che ero terrorizzata? Che sentivo qualcuno avvicinarsi? Avrebbe pensato che stavo esagerando, che era solo la mia paranoia che parlava. O peggio, avrebbe saputo esattamente di cosa si trattava e mi avrebbe detto di fare qualcosa che non ero pronta a fare. Il suono dei passi si fermò. Proprio davanti alla mia porta. Mi congelai, ogni muscolo teso, come se aspettassi il prossimo movimento, il prossimo segnale. Era come se il mondo si fosse improvvisamente fermato. Il battito del mio cuore rimbombava nelle orecchie, così forte che temevo potessero sentirlo dall'altra parte. Poi, senza alcun preavviso, bussarono alla porta. Tre colpi, decisi, ma non troppo forti. Non risposi. Rimasi immobile, quasi trattenendo il respiro. Il silenzio dall'altra parte mi metteva ancora più a disagio. Avevo sempre immaginato che, se fosse arrivato questo momento, avrei saputo cosa fare. Che sarei stata pronta. Ma ora, con la realtà che mi sovrastava, mi sentivo fragile. Vulnerabile. Il telefono nella mia mano vibrò di nuovo, e il suono riempì la stanza come un'esplosione. Lo guardai e, questa volta, vidi il nome di Jonathan lampeggiare sullo schermo. Con la mano tremante risposi, portando il telefono all'orecchio.
<<Angel?>> la sua voce era bassa, quasi urgente.
<<C'è qualcuno qui>> sussurrai, cercando di mantenere il controllo, ma sentivo la mia voce incrinarsi <<Davanti alla mia porta>>.
Ci fu un attimo di silenzio dall'altra parte, poi Jonathan parlò, più calmo di quanto mi aspettassi.
<<Non aprire. Sto arrivando>>.
Stavo per rispondere quando il manico della porta si mosse leggermente. Guardai la maniglia abbassarsi lentamente, ogni movimento sembrava rallentato, come in un incubo. Non aspettai che succedesse altro. Mi mossi istintivamente verso il retro della stanza, cercando di mettere quanta più distanza possibile tra me e la porta. Sentii il rumore della chiave elettronica che cercava di aprire la serratura. Il cuore mi balzò in gola.

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