2 - TRANQUILLI, È SOLO UN'ALTRA GIORNATA NEI PANNI DI UNA PERSONA DI MERDA

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"Come poteva  proprio una  se la  lo afferrava a tal punto?"
- Franz Kafka

Mia

Mi capitava di chiedermi, se ci fosse qualcuno che mi conosceva per quella che ero. Nessuno si era mai soffermato a me e quei pochi che ci avevano provato erano stati costretti ad andarsene per via delle cose orribili che facevo. Non ho mai cercato una giustificazione valida, ero una persona di merda e ne ero perfettamente a conoscienza. Non mi sforzavo di essere diversa, perché nessuno avrebbe compreso, nessuno mi sarebbe stato accanto. Ero stata plasmata a sua immagine e somiglianza.
<<Stai con la schiena dritta Mia>>.
<<Non mangiare schifezze Mia>>.
<<Dovresti perdere qualche chilo>>.
<<Non fidarti, mai, di nessuno. Neanche della tua famiglia>>.
<<Il mondo, è una discarica di sogni infranti Mia>>.
Erano queste le parole che le mie orecchie udivano, ogni santo giorno, all'interno di quelle mura. Se solo avessi saputo, se solo mi fossi sforzata di più, ma non lo avevo fatto, lui era stato più forte, più astuto e anche se, alla fine, lui era andato via, le cicatrici erano rimaste. Non importava quanti km ci separassero, lui era ancora vivo. Vivo nei miei ricordi e sulla pelle.
Non uscivo da svariati giorni, ormai la mia routin consisteva in: svegliarsi nel tardo pomeriggio; doccia; provare a scrivere qualche nuovo testo, rinunciandoci subito dopo; cena e di nuovo a letto. Ero entrata in un vortice infernale, da cui speravo che, qualcuno, prima o poi, venisse a tirarmi fuori.
Era giovedì, le nuvole coprivano il cielo di New York, le strade erano colme di auto, in coda. Quella mattina avrei dovuto raggiungere Dan in studio, doveva parlarmi, a detta sua, di qualcosa di grosso, un'opportunità che non potevo perdere. Non era sicuramente per il tempo di merda se avevo cercato di convincere Dan, di venire nel mio appartamento per poter discutere. La vera ragione era che non volevo uscire di casa. La mia testa non faceva che dirmi che sarei dovuta rimanere a casa, al sicuro dal mondo esterno. Secondo Dan, era ora di assumere delle guardie del corpo che stessero con me, tutto il giorno. Diceva che non tenevo abbastanza alla mia sicurezza personale; quello che Dan non sapeva, era che io non avevo paura che qualcuno dei miei fan venisse a bussare alla porta, probabilmente gli avrei anche offerto la cena. Anzi no. L'unica persona che riusciva a intimorirmi, era lui, lo stronzo che mi aveva aggredita. I notiziari non facevano che parlare dell'accaduto da quella notte, la mia faccia era spiattellata su ogni schermo, in ogni città degli Stati Uniti e non solo. Anche in Europa, adesso, parlavano di me e di come un attacco di panico mi abbia immobilizzata sul palco. Quella notte ero stata molto fortunata. Lo sconosciuto era scappato, quando alcuni uomini della sicurezza, erano venuti in mio soccorso, ma non prima di ferirmi sul fianco. Faceva ancora male, ma niente di grave. Avevo affrontato di peggio. A risvegliarmi dai miei pensieri, fu il mio telefono, che iniziò a squillare. Dan. Tornai con lo sguardo sulla grande vetrata che mi mostrava New York in tutta la sua bellezza. Amavo i temporali. Erano una di quelle cose che mettevano silenzio ai miei pensieri. Sospirai di sollievo quando, finalmente, il telefono, smise di squillare, forse Dan aveva capito che non avevo intenzione di starlo a sentire, per lo meno, non oggi. Il silenzio durò giusto il tempo di dare a Dan di mandare messaggi ininterrottamente.
Sopprimetelo, vi prego.

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