-04- La casa della Fenice

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  «Attento!» un guerriero squadrò Ashur con strafottenza, sogghignando, mentre una zaffata di fiato che puzzava d'alcool investì il giovane. «Guarda dove metti le mani!»
Ashur chinò in capo ed evitando di guardare in viso l'altro porse le sue scuse, anche se era stato lui a urtarlo, e non il contrario.
«Chiedo perdono, signore.»
«Solo quello? Mi hai quasi rovesciato addosso un'intera bottiglia di vino, maledetto idiota!»
Tra le risate dei compagni seduti a quello stesso lungo tavolo, l'uomo trovò sostegno per continuare a sbeffeggiare il ragazzo davanti a lui. «Ora versami il vino come si deve, o non sei neanche capace di fare quello?»
Ashur si morse l'interno della guancia, mormorando altre scuse, e iniziò a versare nel bicchiere dell'uomo il liquido leggermente ambrato, dall'intenso aroma alcolico.
Davanti a lui c'erano una ventina di guerrieri appartenenti alle forze della famiglia della Fenice; erano lì a festeggiare il loro ritorno in città dopo un lungo periodo a caccia di banditi e avevano voglia di sfogarsi. Il lavoro, già frenetico per via di un insolito affollamento della locanda, era reso ancora più difficile dalle continue pretese di quegli uomini. Ashur aveva davvero quasi versato addosso al cliente la bottiglia, ma solo perché non era riuscito a evitare del tutto il suo movimento goffo, dettato dal vino che aveva in corpo.
Guardò con un desiderio nascosto le loro katana, nei foderi laccati che pendevano al loro fianco. Erano guerrieri con un onore, legati a un nobile e votati al suo servizio.
Finì di versare il vino e sentì quegli uomini agitarsi e accogliere con grande entusiasmo e clamore qualcuno. Diede una rapida occhiata alle sue spalle, vedendo un giovane di circa vent'anni, chiaramente nobile, avanzare.
Alto, fiero, sicuro di sé e con il passo regale, avanzava certo di chi fosse; era il ritratto di tutto quello che lui avrebbe dovuto essere, pensò Ashur con una stretta allo stomaco. L'osservò, cercando di non farsi notare, prendendo nota di come i suoi uomini lo riverissero e acclamassero, capendo da quell'entusiasmo e dalla devozione che vedeva in quei guerrieri che doveva anche essersi distinto in modo esemplare in quella caccia ai banditi.
Continuò a servire, avido di ogni parola, ascoltando con estrema attenzione ogni brandello di racconto, di gesta, le battute e gli scherzi. Una campagna ricca di onore e gloria, a dare retta a tutte quelle vanterie. Nessuno parlava del sangue, della morte, di quello che succedeva quando si deponevano le armi e tutto quello che rimaneva erano persone che gridavano di dolore o imploravano pietà. Lui quello, aveva visto. Come potevano parlarne a quel modo? Come se fosse stata un'avventura eccitante e gloriosa?
Non si era sbagliato... quello era il secondo figlio della casa della Fenice, Shiin K'way, ed era venuto lì per festeggiare con quei guerrieri il successo avuto. Lo osservò ridere e scherzare, sentendo un nodo nello stomaco sempre più doloroso. Non riusciva a non domandarsi se mai, lui, sarebbe mai stato così amato e acclamato. Se sarebbe mai tornato coperto di gloria oltre le porte rosse della sua casa, con i guerrieri fedeli al Leone che lo acclamavano. Non l'avrebbe mai saputo, non era più la sua vita.
Il gruppo continuava a ordinare da bere e Ashur si trovava a versare una bottiglia dopo l'altra, gli occhi bassi e lo sconforto che dilagava nell'anima. Durante la notte lo stesso guerriero che precedentemente l'aveva urtato lo fece di nuovo, facendogli sfuggire di mano la bottiglia. Questa volta un impeto di rabbia scosse i nervi di Ashur: con un gesto fulmineo recuperò la il contenitore prima che si infrangesse al suolo, impedendo con l'altra mano che il guerriero ubriaco lo urtasse in malo modo.
«Cosa stai facendo, eh?!» con la voce impastata l'uomo l'apostrofò, per poi afferrargli il polso con una stretta feroce. «Non toccarmi più, schiavo!»
«Chiedo scusa per la mia goffaggine, signore.»
Dire quelle parole in tono mite, tenendo gli occhi bassi e controllando la rabbia per quell'essere goffo non era stato facile, ma l'altro aveva ragione, non avrebbe dovuto bloccarlo. Avrebbe dovuto lasciare che lo colpisse senza reagire, era pur sempre il movimento di un ubriaco.
«Lascialo stare, Meng!» da poco più avanti un altro del gruppo che aveva assistito alla scena si allungò, dando una pacca sulla spalla al commilitone. «Sei tu che hai urtato lui mentre versava il vino e dovresti ringraziarlo, i suoi riflessi hanno salvato una bottiglia appena stappata!»
«Sei dalla sua parte?» l'uomo era chiaramente sbronzo e Ashur strinse i denti. Se fosse scoppiata una rissa la colpa sarebbe stata data a lui e, decisamente, non voleva saperne.
«Chiedo ancora scusa, per favore, perdonatemi, sono stato maldestro...» versò altro vino nel bicchiere del guerriero, che trangugiò d'un fiato l'alcolico e poi glielo riempì di nuovo, augurandosi che ciò lo quietasse. Quello che aveva sperato avvenne e con qualche borbottio sulla stupidità di certi schiavi l'animo dell'altro si quietò.
Dal fondo del tavolo, un paio di occhi grigi osservavano la scena con attenzione. Shiin aveva notato il modo di camminare di quello schiavo e quei movimenti così fluidi ed eleganti, controllati e precisi, senza parlare di quei riflessi. Aveva visto quella grazia felina che sapeva letale solo tra i migliori dei guerrieri della fenice.
«Tu!» chiamò ad alta voce e Ashur alzò lo sguardo, incontrando quello del nobile per un attimo, prima di abbassarlo nuovamente. «Vieni! Qua manca vino!»
Allontanandosi dal guerriero, che non fiatò sentendo da dove arrivava la richiesta, il giovane raggiunse l'altro capo della lunga tavolata. Ora sentiva tutto il peso di quello sguardo intento su di sé e, a disagio, versò altro vino.
Quegli occhi erano attenti, penetranti e Ashur per un momento temette potessero leggergli dentro la sua vergogna, il suo passato e la sua storia.
Cercando di attirare il meno possibile l'attenzione, mantenendo un atteggiamento dimesso e cercando di non farsi notare continuò a versare il vino, quella volta e altre, fino a quando mancava ormai poco all'alba. Solo allora se ne andarono e il nobile Shiin lasciò un'abbondante mancia, parlando per lunghi minuti con il po'shin.

Pochi giorni dopo quella sera, Majion, stranamente già sveglio, accolse Ashur con aria irritata quando entrò nella sua stanza con la colazione.
Senza dire una parola il ragazzo depositò il vassoio sul basso tavolino, iniziando a riordinare, come ormai d'abitudine in quei due mesi che aveva passato come servo dell'uomo. Si era abituato agli sbalzi d'umore dell'altro, a quel suo modo scostante di trattarlo. A volte sembrava un amico fraterno, altre lo trattava con una certa divertita crudeltà, prendendosi gioco di lui. Quando capiva che era di quel genere di umore l'unica difesa che aveva trovato era il silenzio, cercare di non farsi notare, di scomparire. Solitamente era di quell'umore quando qualcosa, con i clienti, lo aveva particolarmente infastidito.
«Il padrone da stasera ti mette all'asta.»
Ashur si bloccò, spiazzato. Fissò Majion che sogghignò, facendo un gesto osceno con le dita con l'intenzione di sfottere il più giovane.
«A quanto pare» riprese l'uomo, «hanno cominciato ad arrivare domande per te e ha deciso di aprire l'asta da stasera. Tempo una settimana e smetterai di fissarmi con quello sguardo di disapprovazione ogni volta che mi vedi con un cliente.»
«Una settimana...?» Ashur si sedette sul bordo del letto, fissando intontito l'altro, per aggiungere a mezza voce «Non è solo disapprovazione, sei tu che sei indecente quando sei con quegli uomini, Majion.»
«Cosa?»
Il tono glaciale dell'uomo riportò il ragazzo alla realtà. Ashur deglutì, rendendosi conto di aver parlato sovrappensiero, senza badarci, scosso da quello che gli aveva detto. Guardò Majion: era inutile accampare scuse, aveva sentito benissimo quello che aveva detto.
«Credo tu abbia sentito...» disse con calma, il tono quieto, «non era per offenderti, ma solo una constatazione. A volte hai un atteggiamento...»
«Indecente. Che disapprovi.» l'interruppe l'uomo, alterato. Majion si alzò, avvicinandosi e fissando il più giovane. «Vuoi sapere cosa è davvero indecente, cosa dovresti disapprovare davvero, Ashur?
«L'unica cosa indecente è questo posto, un regno che permette la schiavitù, che fa razzie per rubare da altre terre bambini da destinare a tutto questo. È indecente che chi non conosca il rispetto per la vita abbia così tanto potere. È indecente poter comprare un uomo, una donna, un bambino, senza rispetto per la loro anima e poterli marchiare, frustare, spezzare. Poterli uccidere. E nessuno dirà mai nulla, perché non sono persone, sono schiavi. È indecente doversi alzare ogni giorno sentendo la vita come un peso invece che come un dono, perché non ti appartiene più, non è più tua. Questo, è indecente. Non cercare di adattarsi, di vivere e cogliere attimi di bellezza e divertimento nonostante il fardello che opprime l'anima.»
Il tono dell'uomo era così freddo e spietato che Ashur si trovò impossibilitato a ribattere. Non poteva, poi, dargli torto. Finché era stato lui a possedere degli schiavi non aveva mai visto l'altro lato della medaglia, ma da quando era stato esiliato tutto il suo mondo si era rovesciato. Si era trovato nei panni di chi aveva dato per scontato per tutta la vita, guardando attraverso gli occhi di uno schiavo lo scorrere dei giorni.
«La vuoi sapere un'altra cosa indecente?» Majion disse, mentre il sorriso comparso sul suo volto da gelido diventava affilato. Posò le mani sui bordi della veste di Ashur e iniziò ad aprirla, facendola scivolare lungo le sue spalle, fissandolo con quel distacco misto a una malizia venata di spietatezza.
«Majion, cosa...?»
«Cosa voglio fare?» l'interruppe l'uomo e il sorriso si accentuò, il giovane deglutì. «Ricordi chi ha il compito di insegnarti come soddisfare un cliente? Ho sempre cercato di essere gentile, con te. Ma visto che sono indecente, non vedo perché dovrei usarti delle cortesie che a me di certo non sono state fatte.»
Ashur afferrò con forza i polsi di Majion, allontanandoli da sé.
«No. Non mi serve che me la fai pagare con questo pretesto... ho sbagliato e ti chiedo scusa, ma vendicarti così sarebbe davvero un'azione infame.»
«Vendicarmi? No, obbedisco semplicemente agli ordini. Anzi, ho aspettato fin troppo, Ashur, sperando tu ti ammorbidissi un po', capissi e accettassi per quanto ti era possibile tutto questo. Ma sei cocciuto. Credi che sia vergognoso, disonorevole, umiliante, disdicevole... e dall'alto della tua morale mi giudichi. Bene, smetterai di condannare quando anche tu sarai guardato come tu guardi me.»
«Non ti ho mai giudicato!» ma il dubbio si fece largo assieme alla colpa, nel ragazzo.
No, mentiva, ora se ne rendeva conto. Aveva giudicato duramente Majion, senza davvero tenere presente che era costretto come lui a ubbidire e che non era detto che quel ruolo gli piacesse. Faceva buon viso a cattivo gioco, aveva imparato a convivere con quello che ci si aspettava da lui. E lui lo aveva valutato aspramente in cuor suo per quegli atteggiamenti che gli erano imposti. «Io... scusa.» disse, lasciando i polsi dell'altro.
«Non mi interessano le tue scuse, ragazzino.» le mani di Majion tornarono ai bordi della veste, aprendola e facendola scivolare oltre le spalle del giovane che prese un profondo respiro, fissando l'altro con serietà.
«Majion...»
«Zitto.» l'interruppe con severità. «Prima regola: ai clienti non piace chi parla troppo in questi momenti. Poi vedi di sorridere, fingi sia un cliente e impara a ingannare l'occhio che ti osserva come si deve!»
Ashur chinò il capo, in fondo se l'era cercata.
Majion ubbidiva agli ordini di Zunya, lui non avrebbe potuto protestare in nessun modo... il come obbedire era a sua discrezione e lui aveva detto qualcosa che, decisamente, era meglio tacere.
L'uomo poteva asserire quanto voleva che non era una vendetta, ma quello sguardo era palese: sapeva di farlo sentire sporco e umiliato a quel modo, e lo considerava un modo per essere ripagato dell'offesa che lui gli aveva rivolto. Facendo come gli era stato detto, si sforzò di seguire gli insegnamenti che gli aveva impartito l'altro da quando gli era stato affidato.
Attraverso le ciglia alzò lo sguardo sull'altro, accennando un sorriso che cercò di far apparire per lo meno spontaneo, lottando contro una vita di educazione che riteneva disdicevole per un uomo ciò che gli si ordinava di fare. Lasciò che le dita dell'uomo sciogliessero i nodi della cintura di stoffa e la svolgessero, lasciandolo nudo. Poi alzò le mani e dando fondo a ogni grammo di volontà, lottando contro se stesso, accarezzò il corpo dell'altro, la stoffa della sua veste, continuando quella recita fatta di gesti sensuali e sguardi che si ritraevano.
«Su come si soddisfa un cliente te ne ho già parlato, oggi vedremo se hai capito davvero.»
Ashur si bloccò, sentendo lo stomaco arrotolasi su se stesso. «Cosa intendi?»
«Questo...» Majion lo distese sul letto, salendo sopra di lui e aprendogli le gambe per poi accarezzarlo in quel luogo che era stato toccato solo da Ashur stesso.
Sentendo di arrossire per la vergogna, il viso che scottava, Ashur si portò le dita della mano alle labbra, inumidendole. Sapeva cosa fare, Majion aveva spiegato abbondantemente, ridendo alla sua espressione al tempo. E ora si trovava a dover mettere in pratica quelle parole, davanti all'ineluttabile destino che in una settimana si sarebbe compiuto.
Chiuse gli occhi, abbassando la mano e cercando di dimenticare tutto.
Scordare l'uomo che lo guardava.
L'indecenza di quei gesti che compiva.
Davanti agli occhi della mente comparvero gli sguardi pieno di ribrezzo e condanna di suo padre, di sua madre, di ogni soldato della casa del Leone. Vide la sentenza spietata sancita da coloro che amava, l'esilio... l'avevano fatto solo per colpa sua e della sua vigliaccheria, ma non di meno lo avevano fatto.
Sentì le lacrime pungere le palpebre chiuse, stille che non trovarono, però, via d'uscita. Doveva dimenticare chi dal suo passato lo giudicava con sguardi di condanna, doveva scordare ogni cosa, rimanendo solo un involucro senza pensieri. Vivere solo nel presente, accantonando, negando quei valori con i quali lo avevano cresciuto e che erano parte di lui.
Con pazienza, sentendosi in colpa notando un sospetto umidore tra le ciglia di Ashur, Majion gli insegnò. Lo aiutò a conoscere e imparare i modi in cui si aspettavano e pretendevano lui appagasse uomini e donne, per diversi giorni Ashur quasi non mise piede fuori da quella stanza, sentendosi sempre più vuoto. Gli occhi si spensero, animandosi solo quando fingeva, su ordine dell'altro, durante quelle lezioni che erano la sua tortura e la sua condanna. Era la punizione della sua vigliaccheria, non era stato degno di essere un guerriero, disonorando l'intera casata e i suoi antenati, era giusto fosse una puttana.
Nel mentre nella locanda c'era un grande via vai di messaggeri con le offerte, a quanto pareva il primo cliente di quel ragazzo dagli occhi scarlatti aveva sborsato una fortuna per accaparrarselo, ma la notizia non diede certo nessuna gioia ad Ashur, neppure quando seppe che era tradizione ricevere una piccola parte di quel compenso.
Usanza che Zunya seguiva, gli venne assicurato da Majion.
I giorni passavano e, l'indomani, si sarebbe tenuta la cena e la notte per cui il misteriose acquirente aveva così profumatamente pagato. Aveva preteso discrezione e silenzio e il po'shin aveva chiaramente detto ad Ashur che avrebbe dovuto mantenere il segreto su chi era stato il suo cliente.
Portando il vassoio con il pranzo nella stanza di Majion, con aria abbattuta e arresa, lo posò sul tavolino, inginocchiandosi allo stesso e posando i gomiti sulla superficie lignea.
L'altro si avvicinò, iniziando a mangiare il pesce e sospirando diede un colpetto al più giovane.
«Non mangi?»
«Non ho fame.» disse a bassa voce, lo sguardo oltre la finestra spalancata, sui tetti delle case che da quel lato si stendevano a perdita d'occhio. «Non sono a digiuno, risparmiami la predica sul mantenersi in forze.»
«Saltando i pasti non diventerà più facile, Ashur.»
«Lo so,» il ragazzo sbuffò appena, osservando la lunga treccia di capelli, simili a una lingua di fiamma sulla veste chiara dell'altro «ma non ho voglia di mangiare, ho lo stomaco chiuso. Posso aver imparato tutto quello che mi hai insegnato, ma non rimane lo stesso una cosa che mi piace.»
«Non piace neanche a me. Da dove arrivo io, il sesso tra uomini non è sbagliato o riprovevole. Ma vendersi sì, è un atto infamante. La schiavitù non esiste e se qualcuno vuole donare il proprio corpo entra nel tempio della nostra della della fertilità, Yarash. Lì sono come sacerdoti e sacerdotesse, chi sente il bisogno va al tempio, fa un'offerta, e ci si prende cura di lui. Se nascono figli sono considerati benedetti dalla dea e suoi doni... qua no. Qua tutto è ammantato di vergogna.» concluse con una nota amara nella voce.
«Ti manca la tua terra?»
«Certo. Vorrei poterci tornare, ma non ho nulla là, ormai, e manco da troppi anni... anche ritrovassi mia madre e mia sorella, cosa direi loro?» sospirò, un'espressione stanca sul viso avvenente. «Mi manca tutto, della mia terra. Le sue albe e i suoi tramonti, l'aria zeppa di odori che qua non ho mai sentito, il sapore del nostro cibo e il canto delle sirene. Mi manca vedere le gigantesche aquile dei monti bianchi volare sulle scogliere a picco sul mare e salutare i loro cavalieri. Erano loro che ci portavano i dispacci e le notizie, fermandosi per la notte alla casa del nostro capo clan. Volevo diventare uno di loro, da bambino.»
«Volate sulle aquile?» al tono meravigliato e al primo barlume di vero interesse dopo giorni, un po' per farsi perdonare, un po' perché in quel momento si sentiva nostalgico, Majion annuì, iniziando a raccontare.
«A nord, oltre la pianura dei mammut, una catena di alti monti ammantati da nevi perenni ospita le città delle aquile.
«Vedi, non sono solo grossi uccelli, quei giganteschi rapaci hanno una sorta di intelligenza, simile a quella umana, e scelgono tra chi si propone per quel compito il loro cavaliere. Si forma un legame unico, aquila e umano diventano indivisibili e condividono il resto della loro vita spartendo quella connessione che li rende inseparabili. Si diventa un tutt'uno e i cavalieri dicono che la solitudine non esiste più; l'aquila è un compagno dell'anima feroce e fedele, fiero e leale. Accettano candidati da qualunque luogo del regno, di qualunque estrazione sociale e qualunque sesso, e ogni persona può tentare al massimo per tre volte di essere scelto da un aquilotto.
«Io volevo diventare uno di loro, provare. Il cielo ha un fascino irresistibile, è senza confini e lì credo che si possa assaporare la vera libertà.» Majion sospirò, una smorfia amara apparve sul suo viso per un istante. «Sono mercenari, di solito, ma svolgono un sacco di funzioni. Un drappello è agli ordini del nostro Atuin.» guardò l'espressione perplessa a quella strana parola e sorrise appena. «È il capo clan di tutti i capi clan, siamo un popolo diviso in tante, piccoli clan, legati tra di loro da patti e legami famigliari. E l'Atuin è eletto alla morte del precedente tra tutti i capo clan.
«Comunque, quel drappello si occupa delle comunicazioni, porta gli ordini da un lato all'altro delle nostre terre, sono la voce dell'Atuin.»
«Sembrano i nostri cavalieri di draghi.» intervenne Ashur, attento e conquistato dal racconto. Dimentico, almeno al momento, dei suoi pensieri.
«Non ho mai visto i vostri draghi, ma credo ci siano somiglianze.»
Ashur annuì, sorridendo al ricordo.
«Da bambino li ho visti, ne ho anche toccato uno, una volta. Sono lisci, caldi, e parlano direttamente alla tua testa... sono meravigliosi» Majion alzò un sopracciglio.
«Però, eri sul serio un nobile, allora...» l'uomo si morse la lingua, la serenità spuntata sul viso di Ashur era evaporata come neve al sole alle sue parole.
«...sì.» sussurrò il ragazzo dopo un momento. «E ho coperto di vergogna la mia famiglia, mi merito tutto quello che mi accade, non sono stato degno dei miei antenati.»
Majion sospirò, desiderando dire a quel ragazzo che quelle erano solo cazzate, ma si trattenne.
«Un giorno ne parleremo, ma per ora vuoi che continui a raccontare?»
Ashur annuì, curioso, e Majion gli narrò dei cavalieri delle aquile, del loro valore in battaglia, dei suoi strani Dèi guerrieri, ognuno crudele e al contempo magnanimo, vertendo poi su un ricordo a cui era particolarmente legato.
«Ero ancora un bambino, mia sorella, che aveva qualche anno più di me, aveva deciso che dovevamo assolutamente vedere la danza degli spiriti.» con lo sguardo perso nei ricordi, una dolcezza rara si mostrò sui suoi lineamenti, addolcendoli. «Una notte mi ha svegliato, imbacuccandomi nelle pellicce e mi ha fatto uscire con lei, di nascosto.
«Vedi, non avremmo dovuto andare alle pietre a guardare, ma la vecchia veggente aveva raccontato così tante storie su quegli spiriti che Beith smaniava per poterli vedere con i suoi occhi. Era la notte perfetta, la probabilità di trovarli e di vederli danzare era alta.
«Ricordo benissimo il posto. In uno spazio libero davanti al monte, come onde di pietra che sasso dopo sasso sembravano infrangersi sulle ripide pareti della montagna danzavano. Erano grigi e viola, gli spiriti che come gocce d'ametista stavano ballando alla luce delle stelle, mentre i primi fiocchi di neve cominciano a cadere, minuscoli, sciogliendosi a contatto con il suolo.
«Non faceva ancora così freddo perché attecchisse e i piccoli vortici creati dalla danza degli spiriti in quella spolverata gelida sembravano a loro volta figure ondeggianti. Parevano creare delle copie di nevischio e aria di loro stessi, giocare con loro... era bellissimo. Guardammo per molto tempo poi, come un'unica, profonda e toccante nota, iniziò il canto di quelle minuscole creature. Ricordo di aver visto mia sorella piangere, commossa, io ero troppo piccolo, forse, per cogliere quello che sentiva lei. La guardavo, ricordo che mi strinse a sé, piangeva e sorrideva. Rimanemmo lì, per tutta quella lunga notte di novilunio guardando gli spiritelli danzare senza posa, quelle figure dai contorni accennati, leggermente luminosi, che volteggiavano sopra quel mare di pietre.» il bussare concitato alla porta interruppe l'uomo, che sembrò quasi risvegliarsi dai suoi ricordi.
«Entra pure.» disse Majion, osservando perplesso entrare con aria disperata la piccola Rika, gli occhi pieni di lacrime. La bambina, di una decina di anni, si chiuse la porta alle spalle con aria incerta, fino a quando l'uomo non allungò la mano verso di lei e la piccola si tuffò tra le sue braccia, singhiozzando disperatamente.
«Piccola, calmati, cosa è successo?»
Ashur, sorpreso da quella scena, rimase in silenzio, osservando quel lato sconosciuto dell'altro. Con aria paterna stringeva la bambina avvinghiata al suo collo, consolandola, fino a quando non si fu calmata. Allo spegnersi dei singhiozzi, con aria preoccupata, le chiese di nuovo cosa fosse successo e la piccola, con la voce rotta da qualche singhiozzo, spiegò.
«La padrona, la padrona mi ha sgridato io...» grosse lacrime scesero dagli occhi di Rika che prese un respiro tremulo «ha detto che la ho truccata malissimo, che per l'equinozio deve essere perfetta e che io sono un'incapace, mi ha detto che se domani non saprò farlo perfettamente mi farà lavare i bagni e tutte le cose disgustose finché vivo!»
«A tutto c'è una soluzione, e tu sei venuta qua perché vuoi che ti aiuti, vero?» la bimba annuì e Majion le sorrise. «Piccola gatta! Sai benissimo che sono bravo con quelle cose, mi hai guardato farle! Ma ci serve qualcuno da truccare, tua sorella...?»
«Non può. Sta lavorando...»
Allora Majion alzò gli occhi su un perplesso Ashur e disse: «Allora ci aiuterà lui! Ti va bene truccare Ashur?»
«No!» disse il giovane mentre, contemporaneamente, Rika affermava un deciso sì. «Non scherziamo, non può truccare te?»
«Io ho la barba, non funziona bene.» disse passandosi una mano sulla guancia ispida.
«Raditi.»
«Non posso, stasera il cliente ha gusti strani, se non ho la barba un po' lunga non...» guardò Rika, probabilmente modificando quello che voleva dire in modo che fosse adatto alle orecchie della bambina «...non è contento. Non vuoi aiutarla? Che uomo sei che non vuoi aiutare una fanciulla in pericolo, eh?»
«Questo è barare...» sbottò Ashur, sospirando davanti allo sguardo di supplica di Rika. «E va bene!»
«Vedi, problema risolto. Per domani la padrona sarà la più bella.»
Per esperienza personale, Ashur sapeva che il trucco per le festività era ricercato, affondava le sue radici nella tradizione e aveva significati che lui, personalmente, non conosceva. Suo padre le aveva sempre definite cose da donne, con un certo disprezzo, e il fatto che Majion le conoscesse l'aveva sorpreso.
«Rika, vai a prendere i trucchi, sai dove li tengo!» la bambina, ora sorridente nonostante gli occhi ancora un po' rossi, corse a un armadio, tirandone fuori una grossa scatola dall'aria pesante e posandola tra Ashur e Majion.
L'uomo fece sedere il ragazzo in modo che fosse di fronte a entrambi e la bambina prese una spazzola, iniziando a pettinare la chioma nera di Ashur.
A disagio, alzando un sopracciglio, chiese: «Ma è necessario anche questo?»
«Fa parte del trucco, in un certo senso, lasciala fare.»
La bambina e l'uomo trafficarono attorno a lui. Gli abbassarono le spalle della veste, dicendo che era per non rischiare di sporcarla e, armato di pazienza, il giovane li lasciò fare. Scoprì che la bambina aveva un'allegria contagiosa e che con lei Majion era diverso: era simpatico, educato e allegro. Per nulla sboccato.
Sentiva che gli intrecciavano i capelli, borbottando tra loro e fissandoli sulla testa con dei fermagli. Aveva ancora visto la madre agghindata a quel modo e con una certa ineluttabile arrendevolezza si rese conto di come lo stavano probabilmente conciando.
«I capelli vanno bene, ma devi ricordarti di partire dal basso, se vuoi che stiano in alto così, capito?»
«Sì, Maji. E per la faccia?»
«Prima la base bianca, ricorda che una volta chiusa la veste non si deve vedere il colore della pelle, inizia.»
Aprendo un barattolo, Rika chiese ad Ashur di chiudere gli occhi. Passò tutto il pomeriggio, mentre Majion e Rika lo usavano come una tela, ma Ashur si stava divertendo. Più che altro, ascoltando quei discorsi, le battute e le parole dei due, aveva dimenticato cosa l'attendeva l'indomani. Quando infine si dichiararono soddisfatti Majion gli porse uno straccio per iniziare a pulirsi il viso, ma prima di lasciarglielo gli disse, ridacchiando: «Non vuoi vedere il frutto dei nostri sforzi?»
«Devo?»
«A Rika piacerebbe un tuo parere, vero?»
«Sì!» la piccola andò a prendere lo specchio a lato del letto e lo portò da loro, porgendolo a Ashur.
Il riflesso in quel vetro non poteva essere lui.
Quello era stato il suo primo pensiero.
Quella era una donna, una donna bellissima e dall'aria misteriosa, non lui. Poi sotto il cerone bianco iniziò a cogliere il suo stesso volto.
Le labbra erano due petali scarlatti e le sopracciglia delle sottili linee nere. Le ciglia erano state scurite, come rese più folte, e gli occhi erano dipinti d'oro e di rosso, in una linea che li allungava.
Sopra tutto dominava un'acconciatura complessa, un'alta crocchia piena di fermagli dorati e morbide ciocche arricciate attorno a esso.
Deglutì, spiazzato e sconcertato.
«Ecco, di certo la padrona non può lamentarsi, è splendido. Bravissima, Rika.»
«Grazie!» gongolante, la bambina si sedette, osservandolo «Sei anche più bello di Majion, quando fa la donna.»
«Rika!»
«Ma è vero! Tu sei bello, ma Ashur di più!»
Il giovane, curioso, iniziando a pulirsi il viso dal trucco, lanciò un'occhiata all'altro.
«Cosa intende?»
Majion si strinse nelle spalle, annoiato. «Ci sono clienti che chiedono cose strane. A volte ti desiderano vestito e truccato da donna, vogliono un'illusione perfetta, anche se sanno che sei un uomo.» grattandosi il mento ispido di barba dorata, l'altro sospirò «È una delle cose che apprezzo di meno. Spera non ti veda nessuno così, o potrebbe diventare il tuo pezzo forte!»
Ashur spalancò sconvolto la bocca e sia Majion che Rika risero davanti a quell'espressione spaventata e preoccupata. La bambina iniziò a sciogliere l'acconciatura, per poi fare una semplice treccia al ragazzo, ammutolito.
«Allora vedete di non dirlo a nessuno.» sbottò infine.
«Ma sei bellissimo!» disse entusiasta la bambina. Ashur strinse le labbra.
«Grazie, Rika, ma preferisco lo stesso che non si sappia.»
«Ma non hai neanche la barba!» la piccola insistette «È molto più bello truccare te che aiutare Maji!»
«Rika, Ashur è ancora un ragazzo, la barba arriverà anche a lui, sai?»
«In realtà non è detto.» mormorò il giovane, incuriosendo gli altri due, così spiegò. «Nella mia famiglia gli uomini non hanno la barba, di solito. Mio padre non l'aveva. Dei suoi fratelli solo uno aveva qualcosa sul mento. Credo dipenda dal... sangue. Come per gli occhi.»
«Sei parte di una di quelle famiglie imparentate con strane creature?»
Alla domanda di Majion lo sguardo di Ashur si incupì, chiudendosi. Aveva chiesto troppo.
«Ora non è più importante e non faccio più parte di quella casa.»
La bambina, ignorando l'evidente malumore del ragazzo, gli si mise davanti, continuando a fissarlo e fermandogli la mano. Ashur lasciò che la ragazzina gli togliesse lo straccio dalle dita e che lo osservasse attentamente, gli occhi che brillavano.
«Però a me piaci truccato, sei bellissimo, anche più di mia sorella, più di Majion. Sembri proprio una donna stupenda!»
Ashur sospirò, inclinando il capo con aria rassegnata davanti a quell'entusiasmo. «Prendermi per una donna non è una cosa che mi rende particolarmente felice...»
La bambina rise all'espressione di Ashur, divertita.
«E perché? Maji dice sempre che è divertente confondere i clienti!»
«Sarà...» borbottò il ragazzo a mezza voce, riprendendo in mano lo straccio e finendo di togliere il grosso del trucco.
«Direi che ti devi lavare la faccia.» Majion gli disse nascondendo un sorriso divertito. «E già che ci sei prepara il bagno per me.»
Annuendo, Ashur si alzò, recuperò il vassoio vuoto del pranzo e uscì dalla stanza. Quel pomeriggio era volato e, in un certo senso, era grato al problema della piccola Rika; era stato così distratto dalle chiacchiere dei due che si era scordato cosa l'aspettava l'indomani.
Una volta arrivato in cucina cercò Maia e si fece aiutare, prendendo dei secchi di acqua bollente scesero nel seminterrato dove si trovavano le tinozze e, assieme, iniziarono a riempirne una.
La ragazza dopo qualche sguardo curioso all'amico, chiese, senza particolare tatto: «Ma ti hanno truccato? Hai tutto il collo bianco, dietro... e i segni del kajal sugli occhi.»
«Sì, ho fatto da cavia per Rika.»
Maia scoppiò a ridere e lo spinse verso uno dei secchi d'acqua calda che avevano portato giù dalla cucina
«Il bagno meglio se lo fai prima tu. Majion aspetterà.»
«Mi lavo giusto la faccia adesso, o quello diventa isterico perché non ha il suo bagno in fretta.»
«Devi comunque farlo. Oggi o domani... e forse è meglio oggi.»
Ashur la fissò di malumore. «E tu che vuoi saperne?»
«Credi di essere il primo a cui si fa l'asta, qua?» domandò con gentilezza, anche se si vedeva chiaramente che era piccata. «Io lavoro nelle cucine perché non sono bella, ma accade sempre allo stesso modo. Quindi meglio che ti metti al meglio con i tuoi tempi, prima di trovarti il padrone alle costole.» Il dito della ragazza picchiettò il petto dell'amico, che dopo un minuto di tentennamento annuì.
«Allora riempiamo per Majion, io lo faccio dopo di lui: non ho voglia di sopportare i suoi borbottii.»
«Ti aiuto anche dopo, se ti serve. Se dico che è per te, la cuoca mi lascia fare tutto, gli piaci.»
Con un mezzo sorriso Ashur annuì e ripresero a fare su e giù con i secchi dalla cucina e, quando la tinozza fu piena di acqua calda, il giovane salì a chiamare l'uomo.
«Ce ne hai messo di tempo!»
«Come al solito. L'acqua la vuoi bollente, serve tempo.»
Majion sbuffò, per poi scompigliare i capelli all'altro con enfasi. «Muso lungo. Sai che non sono mai contento, altrimenti che gusto c'è?»
«Me ne sono accorto.» rispose secco, sottraendosi al tocco. «Ti diverti a rendermi la vita difficile.» sbottò, ma con un mezzo sorriso sul viso.
«Un po' sì, del resto sei divertente con quel modo tutto rigido di fare.»
Nel raggiungere la tinozza Majion si spogliò lanciando la veste contro Ashur e entrando nell'acqua sospirò beato.
«Passami il sapone.»
Il giovane ubbidì, ma la mano di Majion lo bloccò.
«Cosa ti serve?»
«Lavami la schiena.» lo sguardo sornione dell'uomo si fece ammiccante.
«Sei grande. Arrangiati.»
«Siamo proprio di malumore, eh? Dai non farti pregare!» esclamò con un sorriso affascinante. Ashur alzò gli occhi al cielo, iniziando a passare il sapone sulla schiena dell'uomo che con un'espressione beata chiuse gli occhi, abbracciandosi le ginocchia e chiudendo gli occhi.
«Per tutti gli Dei, Ashur, mi ci voleva proprio...» sospirò rilassato. Il ragazzo non si prese neanche la briga di rispondergli, passandogli un panno sulle spalle e sulle scapole, scendendo lungo la schiena e risalendo, sciacquando il sapone. Si era tirato su le maniche della veste per non bagnarla e, mentre svolgeva quel compito, non poté fare a meno di osservare le piccole e quasi invisibili cicatrici sulla pelle dell'altro. Poteva capitare anche a lui, se avesse disobbedito.
Sospirò silenziosamente, versando acqua calda sui capelli di Majion, aiutandolo a districarli e pulirli. Una delle regole del Loto era la pulizia scrupolosa di chi ci lavorava. Che fosse una sguattera delle cucine o un intrattenitore come Majion, era un aspetto che, se trascurato, Zunya puniva severamente. Non che lui avesse qualcosa contro la pulizia, ma sapere che doveva prepararsi per il giorno seguente lo stava non solo agitando e mettendo di cattivo umore, lo faceva sentire spogliato di ogni dignità.
Quando infine Majion, soddisfatto, uscì dalla tinozza, guardò il viso di Ashur e sul suo volto il sorriso si spense.
Si asciugò e dopo essersi infilato la veste pulita che il giovane gli porgeva gli prese il viso tra le mani, le iridi di quel celeste che virava al verde che non permettevano a quelle rosse di Ashur di volgere altrove lo sguardo.
Sospirò e si chinò, posando la fronte su quella del giovane.
«Non abbatterti a questo modo, è solo un... lavoro. Non fa di te una persona peggiore di altre. Non ti rende sporco, neppure ti riempie di vergogna. Sorridi e sii gentile, carino, disponibile... sei bello, educato, raffinato e intelligente; ti vorranno in tanti e ti copriranno di regali. Se giochi bene le tue carte tra una decina d'anni sarai un uomo libero, Ashur. Pensa a quello, solo a quello. Sei coraggioso, ragazzo... io lo so. Puoi farlo.»
Una lacrima prese a scorrere, solitaria, lungo la gota di Ashur che annuì. La libertà, quello era il suo obbiettivo, ormai non aveva altro, se non la sua vita e quella speranza.  

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NDA

*dyku = condottiero, capo guerra


L'ultima monetaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora