-38- Sentenza

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I passi erano perfettamente udibili nel silenzio; nonostante fosse scalzo, quel fruscio sulle pietre era assordante, ridicolmente forte.
Come faceva a fare così tanto rumore a piedi nudi? Si chiese Shiin.
Una domanda stupida, un pensiero che lo allontanava da un presente ingombrante.
«Fatelo inginocchiare.»
Una mano sulla spalla lo spinse a terra, non si oppose. Continuava a tenere lo sguardo basso, le mani legate dietro la schiena.
Indossava solo una camicia rozza, chiusa al lato con dei lacci e corte braghe, simili a quelle dei coltivatori di riso, che gli lasciavano scoperti i polpacci. Tessuto rozzo, pulito, ma nulla di cui qualcuno avrebbe mai sentito la mancanza.
«Il consiglio ha discusso per giorni, i giorni sono diventate settimane. Quasi una luna è passata da quando hai commesso il più spregevole degli atti, eppure le prove portate all'attenzione di tutti dimostrano che hai agito per evitare un crimine altrettanto orrendo. Fiuren della Fenice aveva la mente indebolita dalle influenze a cui era sottoposta, ma non di meno era il nostro signore.»
Lentamente Shiin alzò lo sguardo, incontrando quello del primo consigliere del fratello. Kaidao, bardato di ogni simbolo di potere, era seduto in silenzio e con le gambe incrociate su un rialzo coperto di tappeti e cuscini. Attorniato da guardie e con la spada sguainata sulle ginocchia lo fissava, ma Shiin sfuggiva lo sguardo di lui.
«Sono consapevole del mio crimine, primo consigliere. Non credo serva perdere altro tempo, so cosa mi aspetta.»
«Silenzio!» Lo sguardo dell'uomo si rabbuiò sotto le cispose sopracciglia grigie. Il viso rugoso mostrava ampiamente come le parole di Shiin lo avessero infastidito, ma lui non capiva perché.
L'ex dyku chiuse la bocca: serviva a qualcosa parlare, del resto? Se volevano fare un po' di scena, beh, liberi di farlo, si trovò a pensare mentre il consigliere proseguiva con il suo discorso. «Le leggi sono chiare: un simile tradimento prevede la morte, eppure le circostanze attenuanti e le testimonianze hanno creato grande disaccordo tra di noi. Infine, grazie all'attenta ricerca nei documenti legali custoditi nel tribunale del Triunvirato, abbiamo trovato un precedente sul quale basarci per decidere la sentenza.»
Lo sguardo d'argento di Shiin si alzò di scatto, fissando per la prima volta il volto del fratello. Aveva profonde occhiaie e il viso non mostrava nessuna emozione eppure, quando i loro occhi si incrociarono, sul fondo di quelli dorati di Kaidao c'era sollievo.
«Cos'hai fatto?» Le parole uscirono dalle labbra di Shiin in un sottile fiato inconsapevole, angosciate. Lui non voleva vivere, non aveva mai avuto intenzione di sopravvivere con quel fardello sulle spalle, con quella colpa lacerante che gli pesava sull'anima.
Un colpo violento allo stomaco sferrato con il bastone di una lancia lo fece piegare in avanti, spezzandogli il fiato e lasciandolo boccheggiante.
La voce del primo consigliere riprese a riempire la sala, stentorea, enunciando una sentenza che non gli piaceva con il sapore della bile sulla lingua. «In accordo tra tutti i consiglieri e con l'approvazione del nostro signore, Kaidao della Fenice, la pena di morte viene commutata. A Shiin verrà tolto il nome della casata, gli verranno dati venti colpi di frusta sulla piazza, sarà poi marchiato come schiavo e venduto alle miniere di Longnee. La sua vita non gli apparterrà più e verrà consumata tra le pietre del giacimento.»
«No!»
«Silenzio!» Stavolta fu la voce di Kaidao, tonante, a zittire la sala piena di mormorii e il fratello. «Così è stato deciso! Con il suo atto sconsiderato ha scongiurato l'assassinio del resto della famiglia, la legge è sopra l'uomo ed è stata applicata nel più giusto dei modi!»
«Kaidao! Non farlo, non... no!» La voce di Shiin supplicò e lo sguardo del fratello, per un istante, divenne pieno di dolore.
Shiin voleva morire, Kaidao lo sapeva. Lui lo aveva chiesto, lo aspettava. Come poteva vivere con il sangue di suo padre sulle mani?
«Portatelo via. Domani, all'alba, ci sarà la fustigazione nella piazza del tribunale.»
«No! NO! Kaidao!»
Un nuovo colpo allo stomaco lo zittì e venne portato nella sua cella dove con una furia incontrollata prese a sbattere i pugni sulla solida porta di legno e metallo, urlando il nome del fratello.
Disperazione e rabbia si rincorsero per ore fino a quando, sfinito, non si lasciò cadere a terra, privo di forze e ansante, portandosi le mani al volto e seppellendolo in esse mentre lacrime angosciate gli scorrevano sul viso.
Doveva essere notte fonda quando il suono dei passi di qualcuno lo raggiunse. Non era il cambio della guardia, era avvenuto poco prima e, inoltre, non erano piedi calzati da spesso cuoio.
«Shiin.» Attraverso la griglia sulla porta, la voce del fratello lo raggiunse e lui si alzò, afferrando quelle sbarre e guardando il volto in ombra del suo signore. «Non potevo farti morire.»
«Io volevo, voglio, morire.» L'angoscia trapelò dalla sua voce. «Ho il sangue di nostro padre sulle mani. Come pensi possa vivere con questa colpa? Ho ucciso... lui. L'ho pianificato, voluto. Gli ho piantato la lama nella carotide. Non è stato un incidente, volevo farlo e l'ho fatto.»
«Per salvare me, nostra madre, le nostre sorelle. Per salvare dalla fame dei demoni il nostro popolo. Per salvarlo dai banditi e dalla fame, dalla corruzione che stava dilagando! Smettila di essere così cocciuto! Ripristinerò il triumvirato, riporterò legge e ordine e l'onore della Fenice sarà nuovamente immacolato. Ma posso farlo solo grazie a te. Non ti sto dicendo che sei senza peccato, o che non hai fatto nulla di grave, ma che non meriti di morire, che tu lo capisca o no. Sei stato sempre così legato alle vie dell'onore, così fiero e orgoglioso, non vedevi nulla al di fuori di quei sentieri, ma sei riuscito ad andare oltre e salvarmi, salvarci. Non puoi capire che hai compiuto l'unica scelta possibile?»
Il silenzio divenne lungo, pesante, la fronte di Shiin posata sulle sbarre. Quando la mano di Kaidao gli passò tra i capelli in un gesto della loro infanzia, qualcosa nel guerriero si spezzò sotto quel tocco gentile.
«Non ce la faccio, Kaidao...» mormorò. «Non ce la faccio a vivere con il sangue di papà sulle mani. I suoi occhi quando ha capito che l'avevo tradito. Che l'avevo ucciso. Non ce la faccio.»
La mano di Kaidao continuò ad accarezzarlo, come si poteva fare per calmare un bambino da un incubo. Come faceva per tranquillizzare il fratello più piccolo quando veniva da lui nel cuore della notte, spaventato da qualcosa. Il silenzio mutò: divenne quieto, mentre quelle parole si depositavano tra loro.
«Devi farlo, Shiin. Ho bisogno di te.» Un mormorio pacato, eppure pieno di un bisogno così disperato da non poter essere ignorato. «Sei mio fratello. Ho bisogno di saperti vivo e, te lo giuro, farò in modo che tu non rimanga nelle miniere. Ho bisogno di te, della tua forza.»
«No, non ti servo, lo sai. Sei tu quello intelligente, io non ti servo. Non mettermi questo addosso, non farlo...»
La presa di Kaidao cambiò e si strinse tra i capelli dell'altro, una presa che sapeva di tormento e dolore. «Non sottovalutarti. Non farlo, Shiin.» Le dita di Kaidao tra i capelli del fratello divennero più decise. «E poi hai un compito. Io farò ciò che posso, ma tu non dimenticarti che ci sono molte più cose oltre i nostri confini di quelle che ci affliggono direttamente, un intero mondo che si dibatte nelle spire dei demoni. L'imperatrice deve vincere e dobbiamo lavorare per lei. È una lotta sotterranea, fatta di ombre, di regole sconosciute. Fallo per me, Shiin, ti prego, non fare stupidaggini...»
Le dita si avvinghiarono attraverso le sbarre, la mano libera di Kaidao nella sua, l'altra tra i capelli.
Ancora una volta il silenzio calò, vibrante di parole non dette, finché la presa non divenne lieve, lenta, e infine scomparve. Si guardarono, gli occhi del maggiore erano pieni di emozioni e la supplica presente in essi era anche un ordine. Non era solo suo fratello, ora era il suo signore, gli comandava di vivere. Non era più Shiin della Fenice, ma non di meno lui era il suo signore. Attraverso le sbarre della grata, Kaidao vide il fratello indietreggiare di un paio di passi e piegarsi su un ginocchio, la testa che si chinava in una silenziosa obbedienza.
Annuendo, il signore della Fenice con un ultimo sguardo si allontanò, segnalando alle guardie di tornare a presidiare la porta.
I suoi passi risuonarono per un istante sulla pietra e poi scomparvero, chiusi fuori dal tonfo della porta d'accesso alle prigioni.
Shiin si distese sulla stretta branda, sentendosi a pezzi. Kaidao aveva vinto ancora una volta: alla fine lui aveva ceduto, aveva accettato di vivere.
Si guardò le mani: erano pulite, eppure per lui erano ancora piene del sangue di Fiuren, ne sentiva ancora il calore sulle dita. Strinse gli occhi cacciando indietro le emozioni: non avrebbe dormito, lo sapeva, ma ci provò lo stesso disperando di allontanare i ricordi e la colpa opprimente nel petto.
Quando l'alba arrivò aveva sonnecchiato, gli incubi che si rincorrevano ai ricordi. Le guardie entrarono, gli legarono le mani dietro la schiena e lo spinsero avanti. Non lo colpirono, non l'avevano mai davvero maltrattato: era pur sempre stato il loro dyku. Lo avevano rispettato e amato e, in un paio di occasioni, aveva colto nello sguardo di uno dei soldati una specie di comprensione, di solidarietà inespressa.
Il sole aveva appena iniziato a rosseggiare eppure le vie fino alla piazza erano gremite, silenziosi o urlanti insulti, voci che imploravano perdono o pietà, i cittadini non parevano condividere un'opinione comune su ciò che meritava. Camminò a testa bassa, incapace di alzare lo sguardo, fino a quando non si fermarono nello spazio vuoto della piazza; un cordone di soldati al perimetro e, da un lato, su un piccolo palco, tutto il consiglio, la sua famiglia, Kaidao.
«Il verdetto è già stato reso pubblico. Legatelo al palo e iniziate.»
Il pallore di sua madre gli rimase impresso, così come i visi bianchi delle due sorelle.
Angosciato, si chiese perché fossero lì. Non voleva lo vedessero in quel modo, che assistessero alla sua punizione per aver ucciso Fiuren, eppure sapeva perché dovevano essere su quel palco. Politica, ma non solo. Dovevano presenziare, in modo che fosse chiaro agli occhi di tutta la città che lui non era più parte del clan, ma allo stesso tempo era l'unico modo che avevano per vederlo l'ultima volta, ecco il motivo per cui erano lì. Il coraggio di un silenzioso addio corse tra di loro nel tempo di un fugace sguardo, un'immagine che, Shiin ne era certo, non avrebbe mai potuto scordare.
Gli slegarono le mani, gli tolsero la camicia e fissarono i suoi polsi con una corda all'anello in cima al largo palo di legno simile al tronco di un albero davanti al tribunale, in attesa di ogni uomo e ogni donna che sarebbe stato punito pubblicamente in quel modo.
Dava la schiena al palco e fu felice di non vedere i volti di chi amava durante la messa in atto di quella pena, di non vedere le maschere che erano costretti a indossare e di non scorgere dietro di esse ciò che celavano. Chiuse gli occhi mentre un brivido gelido gli correva lungo la schiena e un déjà vu gli riempiva la mente con le immagini di Ashur.
Il parallelismo per un attimo lo sommerse, ma non poté soffermarsi su di esso: la prima staffilata lo raggiunse con uno schiocco sonoro. Gli tolse il fiato, il dolore che esplodeva dalla schiena, riverberando lungo tutto il corpo. Non si aspettava facesse così male.
Erano solo venti, ora diciannove, si disse.
Un altro colpo lo raggiunse, sommergendolo di nuovo nel bruciante dolore: possibile fosse stato più forte del precedente? Non ce la fece a trattenersi e gridò. Non era in grado di mantenere neppure quell'ultimo brandello di orgoglio, il dolore cancellava tutto facendo uscire dalla sua gola grida strozzate. Perse il conto, mentre le gambe smettevano di reggerlo e solo i polsi legati in alto gli impedivano di cadere. Appeso, sentiva il sangue scorrere sulla pelle: venti colpi precisi di cui nessuno era caduto nella parte più alta della schiena, avevano avuto cura di lasciare intatta la porzione che sarebbe stata tatuata. Il resto della sua carne era devastata e sanguinante quando smisero di usare la frusta su di lui. Erano stati davvero solo venti staffilate a ridurlo a quel modo?
Lo slegarono e tenendolo per le braccia lo portarono via, non verso la dimora della sua famiglia, ma verso il quartiere dei mercati, allontanando chiunque e facendolo scomparire tra le vie, fino a lasciarlo in una stanza simile a una cella, vuota, dove si lasciò cadere a terra premendo lo stomaco contro il pavimento gelido, cercando di non muoversi. Il dolore era a malapena sopportabile e il percorso fino a lì era stato inconsistente, avvolto nella nebbia della sofferenza. Non avrebbe saputo dire dov'era con precisione, solo che era probabilmente in uno dei magazzini usati per gli schiavi.
Si rese conto di essere a un passo dall'incoscienza; la perdita di sangue e lo shock, probabilmente.
Una parte di lui non accettava tutto quello, una parte di lui non voleva mantenere la promessa silenziosa fatta a Kaidao e desiderava solo che tutto quello lo portasse alla morte, ma non sarebbe accaduto, lo sapeva.
Serrò con più forza gli occhi, lasciando che l'incoscienza lo portasse via con sé, smettendo di lottare, lasciandosi andare e desiderando solo dimenticare ogni dolore per un po', solo per un po'.

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