Chian osservò con occhio critico le pupille dilatate di Ashur, abbandonato sulle coperte, attirando con un gesto l'attenzione del compagno.
«Dagliene ancora un po', si sta riprendendo.» Afferrò per le spalle il giovane, mentre il guaritore si avvicinava con aria poco convinta.
«Di questo passo diventerà dipendente. Lo sai, vero?»
Il sogghigno dell'uomo era noncurante, mentre teneva il giovane fermo, aprendogli la bocca con una pressione ai lati delle mascelle e ignorando il mugolio confuso con il quale cercò di opporsi.
«Meglio, vorrà dire che per averne un po' sarà disposto a tutto.»
Il guaritore brizzolato sbuffò e Ashur lo vide versare una nuova dose di succo di papavero nella solita ciotolina.
Il ragazzo si rendeva conto, vagamente, che era in viaggio con loro da giorni, sempre ottenebrato dal succo di papavero, sempre stordito e inerme. Sotto l'effetto dell'oppiaceo tutto si mescolava in una specie di visione onirica: muoversi, reagire, anche parlare, era tremendamente difficile e tutto sembrava accadere in tempi dilatati e strani, mentre la sua memoria faticava a ricostruire gli eventi, lasciando in essi dei buchi. Aveva cercato di sputare, ribellarsi, ma ogni suo gesto era stato vano. Era a stento in grado di mangiare da solo e per tenerlo a bada bastava una mano. La notte non dovevano neppure sorvegliarlo, gli legavano i polsi e le caviglie e i nodi, che in un altro momento sarebbe stato capace di sciogliere, erano ostacoli insormontabili. Di giorno agiva solo se continuamente sollecitato, o si abbandonava a quello stato ipnotico che lo sommergeva nonostante ogni suo vano tentativo di resistergli.
Il liquido gli bagnò le labbra, biancastro e appiccicoso, e lui deglutì in un riflesso condizionato quando invase la sua bocca Sentendo l'amaro sulla lingua cercò di risputarlo, debolmente, ma la bocca era tenuta chiusa e il naso tappato. Lottò per appena pochi secondi, poi si arrese e deglutì, conscio che la scarsa consapevolezza che era tornata in breve tempo l'avrebbe nuovamente abbandonato. Con l'odio negli occhi guardò il guaritore, seduto davanti a lui che chiudeva con attenzione la bottiglia di succo di papavero. Aveva ancora le linee della spossatezza che gli marcavano il volto segnato dal sole e dal vento. Vagamente, Ashur si era reso conto che salvandolo aveva rischiato la propria vita, ma non gliene era di certo grato, tutt'altro. Non l'aveva fatto per altruismo, lo sapeva, era palese dai loro discorsi che coglieva a pezzi, rimettendo insieme le frasi nei rari momenti di lucidità, ma imprigionato nelle spire dell'oppiaceo non riusciva a capire cosa volevano farne di lui. Non potevano certo chiedere un riscatto a suo padre, non valeva nulla per lui.
L'avevano spogliato, bruciando i suoi abiti di seta nel piccolo fuoco da campo ancora la prima notte e mettendogli addosso una tunica lisa e ruvida, da contadino. Ma quando Chien aveva preso il coltello per tagliargli la lunga coda era stato bloccato dall'altro.
Aveva fatto un apprezzamento sui suoi capelli neri, dritti e incredibilmente lunghi, paragonandoli a seta filata e dicendo che aggiungevano valore al pezzo. A quelle parole un sospetto e un timore subito cancellati dalla droga erano emersi.
Ashur si agitò, l'inquietudine e il timore che emergevano a tratti prima che il succo di papavero li sommergesse di nuovo e, a fatica, cercò di chiedere, di sapere, una luce disperata negli occhi.
«Cosa... volete da me?» le parole sembravano affastellarsi nella sua bocca, legandosi alla lingua e faticando a uscire. Ashur cercò di concentrarsi il più possibile, prima che la nuova dose di oppiaceo facesse effetto.
«Non ti devi preoccupare, sarai trattato bene, se sarai ubbidiente.» mettendogli in mano una ciotola di riso e un cucchiaio il più anziano dei due gli rispose «Ora mangia, tra pochi giorni arriveremo a Hiyu-han. Hai mai visto il mare, ragazzo?»
Lui lo fissò senza capire davvero, reggendo imbambolato il cibo.
Iniziò a mangiare lentamente, dopo che con una certa gentilezza gli spinsero il cucchiaio colmo in bocca, cercando di pensare alle parole che il guaritore gli aveva detto. Hiyu-han era la più grande città dopo la capitale, dove aveva vissuto per tutta la sua vita. Lì mercanti di tutte le terre conosciute confluivano con i loro carichi esotici e non, dalle spezie più rare agli schiavi biondi del lontano nord, animali mai visti, come i piccoli e multicolori uccellini canori o tessuti fatti con il cuore delle piante di raobb, che crescevano solo al di là del deserto meridionale.
Lì nessuno lo conosceva, era letteralmente dall'altra parte dell'impero, un luogo che aveva sempre desiderato visitare, un giorno. Eppure non era certo felice di andare proprio lì e, rendendosi conto di cosa lo aspettava, sentì un'angoscia tremenda stringergli il petto e rabbiosamente, con l'ultimo brandello di lucidità, disse:
«Non sono uno schiavo!»
I due uomini scoppiarono a ridere di gusto, tanto che il più giovane si strinse le mani sul ventre, a corto di fiato.
«L'hai sentito?» Chien si asciugò le lacrime d'ilarità dagli occhi e si sporse verso Ashur «Tu sei quello che decidiamo noi, lo sai questo, vero? E poi cosa pensi di fare, tornare a casa a chiedere aiuto a tuo padre? Sei solo carne, adesso. Bella e di pregio, che ci frutterà un sacco e di cui non interessa nulla a nessuno. Mi sorprende che solo noi abbiamo pensato di sfruttarti così. Sai, credevamo ci sarebbe stata la ressa fuori dai cancelli del casa del Leone, invece sei uscito senza che nessuno badasse a te! Eppure il giorno dell'esilio era conosciuto!» con un buffetto sul viso pallido di Ashur, Chien continuò «Ci farai passare l'inverno negli agi, principino.»
Sentì le lacrime sul suo viso, ma nessun dolore, solo vuoto, mentre pensava a quelle parole che gli erano appena state dette. Si meritava tutto quello, si disse, era disonorato a causa di quello che aveva fatto, alla sua fuga dalle caverne dell'iniziazione. Generazioni di guerrieri della casata del Leone erano entrati e usciti, portando tra le mani l'antica spada e con la luce della vittoria nello sguardo; ma non lui.
Lui aveva visto la Dea dai mille e nessun nome in persona e lei lo aveva sbeffeggiato, terrorizzato, allontanato. Gli aveva mostrato quello che era davvero il campo di battaglia e lui ne era stato atterrito. Non era come nei racconti, non era lucido metallo e onore, era disperazione e dolore. Aveva ragione Chien: lui non era un guerriero, non era nessuno, non era Ashur del Leone, era solo carne.
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L'ultima moneta
FantasyAshur ha compiuto il peccato peggiore possibile: ha avuto paura. Davanti alla Dea dai mille e nessun nome è fuggito, portando il disonore sulla sua famiglia. Ora ciò che lo aspetta è solo l'esilio, mentre suo padre, il generale delle mille fiere, gl...