-37- L'onore di un figlio

183 21 6
                                    


Shiin camminava con le mani strette dietro la schiena. Non erano i suoi abiti semplici a distinguerlo come dyku del clan ella Fenice, neppure la lunga katana al fianco: era quel portamento dritto e sicuro di un condottiero a farlo brillare tra gli uomini lì presenti. La primavera era giunta dopo un lungo inverno in cui aveva lottato con ogni mezzo lecito contro il padre. Kaidao era stato imprigionato per tradimento e solo la fortuna, o la follia del padre, avevano evitato che lui facesse la stessa fine.Fiuren aveva ascoltato più volte le suppliche dei due fratelli e, nella sua mente, Kaidao era diventato il punto da cui stava fiorendo il tradimento: era colpa del maggiore, secondo lui, se aveva perso di vista il vero scopo, il potere. Era colpa di Kaidao, secondo Fiuren, se lui si opponeva alle sue scelte, lo aveva considerato sotto l'influsso del potere del fratello senza capire che l'unico, tra loro tre, a essere dominato dal potere di qualcos'altro era lui. Il potere dei demoni aveva corrotto il suo signore, suo padre, e lui poteva solo osservare.
Si fermò, osservando dal ballatoio il mare e il porto, perdendosi nel blu scintillante di sole e stringendo le labbra in preda ai soliti, inconcludenti, pensieri.
Doveva fare qualcosa, sì, ma cosa? Quello intelligente era Kaidao ed era rinchiuso nelle segrete, in isolamento, dove lui aveva la proibizione di recarsi. Gli uomini più fedeli del padre lo seguivano come ombre, sorvegliandolo per la sua sicurezza, aveva detto Fiuren. Per tenerlo d'occhio e spiarlo, aveva pensato Shiin.
Posò i gomiti sulla ringhiera di legno intagliato e tamburellò con le dita sulla superficie dipinta di bianco, mantenendo lo sguardo su quel mare che circondava su due lati la città, con il porto che come un abbraccio si chiudeva in parte su un lato dell'abitato, seguendo la curva della costa. Lì le navi erano all'ancora, sull'estremità più lontana un alto e slanciato faro voluto dal suo bisnonno per proteggere i naviganti e indicare loro quel rifugio sembrava un dito ammonitore. Cosa faceva, lui, lì in ozio, a rimuginare, invece di agire?
Shiin sbuffò appena tra sé.
Aveva cercato in ogni modo di far ragionare il padre, di fermarlo, ma la sua follia era continuata affogandolo sempre di più in un delirio che stava portando alla rovina non solo il clan, ma l'intero territorio del triunvirato. I banditi si erano fatti audaci, le scorrerie dei pirati sulle coste sempre più frequenti, e Fiuren non faceva altro che barricarsi sempre più in città, dimenticandosi tutte le altre sue responsabilità. Villaggi di pescatori, contadini, paesi e cittadine in balia dei capricci di demoni e uomini, mentre lui pagava un tributo in sangue per un potere che in realtà non esisteva, per una sicurezza illusoria.
Aveva fatto uccidere gli altri due membri del Triunvirato, rimanendo l'unico a capo dei territori e la città di Hiyu-han, ogni cosa, stava collassando. I profughi venivano arruolati a forza, ingrandendo le fila dell'esercito della Fenice di uomini che venivano sommariamente addestrati e usati come carne da macello in inutili e suicidi assalti contro banditi e demoni, orchestrati con una assoluta mancanza di strategia. Lui era costretto a rimanere a palazzo, a guardare uomini senza addestramento mandati a morire nel nome del loro clan, guidati da chi ne sapeva ancora meno di loro, mandati a sacrificare inutilmente le vite in una parodia di resistenza che fiaccava animi e risorse. Molti degli uomini coscritti scomparivano, ufficialmente disertori, ma in realtà erano portati ai demoni del signore del caos come tributo. Ogni mese nuove vite erano date in pasto a quei mostri, consegnate, e lui non poteva fare nulla.
Il suo spirito ribolliva, impotente. Farsi mettere a sua volta in prigione, dopo che la follia del genitore l'aveva graziato una volta, ritenendo impossibile che facesse parte dell'insubordinazione del fratello, ritenendolo forse troppo stupido per essergli meno che leale, l'aveva salvaguardato.
Ora, però, non sapeva cosa fare.
Quello intelligente era Kaidao, non lui.
Le unghie grattarono la pittura immacolata, un piccolo gesto di nervosismo. Lui era il dyku, eppure era a capo dell'esercito solo nominalmente. Sfoggiato dal padre, impotente, le sue catene erano invisibili, ma ancora più salde di quelle del fratello.
La madre era segregata nell'ala delle donne, assieme a poche ancelle; la poteva scorgere solo da lontano e in quei primi giorni di sole, quando la donna usciva nel giardino, intravedendola dalle balconate. Da lontano si guardavano, eppure non c'era nulla che potesse fare.
Nulla di onorevole.
Nulla di giusto.
Nulla che non implicasse una disobbedienza tale da portarlo al patibolo, ma che era a conti fatti l'unica soluzione.
Uccidere suo padre l'avrebbe reso un assassino, ma avrebbe fatto così in modo da rendere Kaidao capo del loro clan. Se fosse accaduto ora che era nelle segrete da tempo, isolato, senza alcun contatto con l'esterno, tanto meno con lui, sarebbe stato innocente agli occhi di tutti. La loro stessa corte obbediva a Fiuren per paura, dovere, tradizione e ben poca gioia. Lui sarebbe stato portato a processo come traditore, suo fratello avrebbe dovuto farlo giustiziare, ma il clan sarebbe stato salvo e in buone mani.
Le terre che dovevano proteggere avrebbero avuto una speranza e quella carneficina sarebbe cessata.
Trattenne ogni espressione dal suo viso, riprendendo a camminare.
Sarebbe venuto meno al suo giuramento di aiutare Ashur, ma era comunque inutile segregato lì, mentre l'unica cosa giusta che poteva fare era quella.
Era un'azione disonorevole secondo i dettami delle leggi dei guerrieri, del clan, ma onorevole se l'affrontava con una visuale più ampia.
Sarebbe diventato un traditore, uno spergiuro, ma lo sarebbe stato per una giusta causa.
Il peso del disonore sarebbe rimasto sulle sue spalle per poco, comunque. Nessuno avrebbe potuto salvarlo dalla pena capitale, la legge parlava chiaramente.
Avrebbe chiesto a Kaidao di salutare la madre, le sue sorelle, prima di essere giustiziato.
Suo fratello sarebbe stato un buon sovrano per quelle terre, le avrebbe protette, avrebbe fatto in modo che Ashur riuscisse nella sua impresa al suo posto. Avrebbe preso sulle sue spalle il fardello di una missione che lui sacrificava per il bene della famiglia, di un intero regno, del loro onore di clan, del nome della Fenice. Sì, lo avrebbe fatto.
Avrebbe voluto rivedere Ashur, però. Saperlo sano e salvo era però impossibile. Avrebbe voluto chiedere scusa al giovane ancora una volta, meritava che si mettesse in ginocchio davanti a lui, supplice, implorandone il perdono.
Aveva iniziato a rivalutare il codice d'onore, il concetto di giusto, il modo in cui aveva vissuto tutta la vita già prima di quei mesi tra le mura del palazzo, apparentemente libero eppure confinato in esso, chiamato signore, padrone, dyku, eppure meno libero dell'ultimo degli schiavi. Aveva iniziato a rivederlo viaggiando con Ashur, Majion e Aderyn.
Essere un combattente e uno stratega geniale non lo dispensava da nulla, non era un pregio che colmava ogni lacuna, e lui ne aveva molte. Era un dovere, un servigio che doveva mettere al servizio di chi non poteva proteggersi da sé.
Continuò a camminare, le mani così strettamente serrate dietro la schiena da sbiancare, il viso chiuso e privo d'espressione mentre le iridi d'argento osservavano tutt'intorno a sé.
Doveva solo decidere quando agire, quando fare la sua mossa. Ogni giorno cenava al tavolo del padre, nella sala, seduto accanto a lui. Sarebbe bastato poco, pochissimo, ogni sera quel pensiero lo torturava, ogni sera non agiva.
Era pur sempre suo padre e nel guardarlo, mentre pensava al pugnale che teneva nello stivale, rivedeva il viso dal sorriso gentile dell'uomo che l'aveva cresciuto... i suoi incitamenti, i suoi abbracci e consigli. Suo padre non era sempre stato folle, sapeva che era a causa di qualcosa che gli avevano fatto i demoni, ma Kaidao era stato chiaro: quella maledizione era stata possibile solo perché in Fiuren c'era già il seme del caos pronto a mettere radici. L'anima del padre era sempre stata assetata di potere, ma dove l'onore e il senso di giustizia avevano sempre trattenuto il lato peggiore di lui, per colpa di quei demoni ogni barriera era stata infranta. Nulla sembrava importare oltre i suoi piani, i suoi scopi, la sua sete.
Lo sapeva, eppure non era ancora riuscito ad agire. Ogni giorno camminava su quei balconi, pensando, ogni giorno capiva che quella era l'unica cosa che poteva fare e, ogni sera, non riusciva a compierla.
Fiuren era suo padre, il suo signore, era l'uomo a cui aveva giurato fedeltà e obbedienza.
Le mani si strinsero ancora più convulsamente.
Aumentò il passo, scendendo nelle sale d'allenamento al piano terra, arrivandoci quasi di corsa. Si tolse la lunga camicia di seta stretta in vita dalla cintura, la spessa e rigida stoffa venne lanciata su una delle panche mentre lui prendeva una casacca d'allenamento e una spada dalla rastrelliera, lasciando le sue armi lì e iniziando a sfogare attraverso il corpo la tempesta che gli infuriava nella mente e nell'anima.
Le figure delle forme più avanzate di spada presero a formarsi con efficienza e fluidità, mentre si muoveva come in una danza. La lama di legno vibrava nell'aria mentre la sua velocità aumentava sempre di più e il sudore iniziava a scorrergli lungo il viso e il corpo, i muscoli si flettevano e i piedi non sbagliavano un passo, leggeri e precisi. Il suono del legno colpito dai suoi passi e il suo respiro erano le uniche cose che si udivano. Un ritmo intrecciato e perfetto, che continuava instancabile sotto gli occhi delle guardie. I suoi carcerieri erano rimasti sulla soglia a guardare, colpiti e affascinati: era un maestro, nonostante la giovane età.
Fin da quando aveva iniziato a camminare l'arte della spada era stata il centro della sua vita e ogni forma era un'estensione di lui, della sua anima. Pose aggraziate, eppure letali, si disegnavano in quello spazio grazie al suo corpo in continuo movimento. Non fece un errore, non sbagliò un passo, fin quando, coperto di sudore e quasi al buio, si fermò.
Il suo respiro era pesante: aveva continuato a intrecciare forme su forme per ore, ma ora con il corpo stremato la sua mente sembrava finalmente chiara, ogni indecisione ormai svanita.
Senza una parola riprese le sue armi, se le legò in vita e recuperato il suo vestiario si diresse alle sue stanze, dove scacciò i servitori immergendosi nell'acqua calda della vasca e mantenendo quello stato mentale, aggrappandosi a quella specie di vuoto quieto in cui dubbi e paure erano come annullati, sospesi.
Non era la prima volta che si sfogava a quel modo, eppure quella sera qualcosa, dentro di lui, era maturato.
Si rivestì con cura, preparandosi alla cena senza nessun aiuto e si diresse alla sala dove erano serviti i pasti, seguito dagli onnipresenti carcerieri che avevano atteso alle porte delle sue stanze. Shiin raggiunse la sala, illuminata da lampade appese alle colonne di legno. Racchiuse dentro delicate filigrane di vetro le fiamme illuminavano i volti e, quella sera, il dyku li osservò con una luce nuova nello sguardo.
Chi avrebbe sostenuto Kaidao? Chi avrebbe lottato?
Passò davanti ai pannelli che erano stati aperti da un lato per far passare un po' della fresca aria notturna, osservando una fetta di cielo sgombro.
«Figlio mio, vieni, siediti al mio fianco. Raccontami la tua giornata!»
Shiin si costrinse a sorridere, chinando il capo in un saluto, mentre si sistemava alla destra del padre. «Una giornata come tante, padre. Ho guardato i rapporti delle navi: i pirati si stanno facendo più temerari nell'ultimo periodo e assaltano i nostri mercantili, dovremmo rimetterli al loro posto.»
«Vero, ma per ora non posso dispiegare troppe forze in mare. I villaggi dovranno difendersi da soli.»
Shiin rimase in silenzio. Un tempo avrebbe risposto che erano loro a doverli proteggere, che era il dovere del clan, di uno dei signori del Triunvirato. Si limitò ad annuire e a guardare il suo cibo.
Sarebbe riuscito a farlo? La sua mente era ancora aggrappata a quel vuoto in cui i dubbi sembravano sopiti: respirò.
«Sapete cosa sia meglio per noi, padre.»
L'uomo annuì, la lunga chioma con qualche filo grigio era legata da un cordino sulla nuca e scendeva dritta lungo la schiena rigida.
«Almeno tu capisci questo, non come Kaidao.» La voce, amara e risentita, fece quasi trasalire Shiin. «Almeno uno dei miei figli non è un traditore. Tua madre e le tue sorelle sono state traviate dalle parole di tuo fratello, mi ha tradito due volte, come figlio e come erede. Voleva il potere per sé e ha avvelenato la mente della famiglia, ma non la tua!»
La mano di Shiin si strinse sulle bacchette. «No, non la mia.»
Alzò lo sguardo. Dietro il padre e dietro di lui c'erano sei guardie, erano a circa quattro passi di distanza. Attente, osservavano tutti e tutto, lui compreso. Il pugnale era nello stivale, sentiva la sua rigidità contro la pelle. Avrebbe fatto a tempo a piantarlo nel corpo del padre in uno dei punti vitali che non gli avrebbero dato scampo?
Non solo le guardie, ma Fiuren stesso era un abile guerriero, anche se certamente più lento di un tempo. L'avrebbe bloccato? Lui all'ultimo avrebbe esitato?
Non avrebbe avuto seconde possibilità o una qualche forma di pietà nella sua punizione se avesse fallito, di quello era certo.
Posò le bacchette e alzò lo sguardo su uno dei suoi capitani. Molti erano convinti che Kaidao fosse stato imprigionato ingiustamente, e non solo: le sue accuse avevano seminato dubbi e nel tempo, per molti, erano diventate certezze. Muoversi contro il loro signore era però impensabile, ma se lui avesse ucciso Fiuren era certo l'avrebbero liberato, mettendolo al suo posto. Lo sperava.
Ci sarebbero stati scontri, ma confidava nell'onore di quegli uomini, anche di quelli che seguivano Fiuren. La tradizione, la legge, imponevano che Kaidao salisse al potere nel caso lui avesse ucciso il loro signore. Sarebbe stato difficile, ma solo lui poteva prendere quel posto. Libero da ogni sospetto avrebbe riportato la giustizia in seno al clan, salvando loro e le loro terre.
Non aveva potuto parlare con nessuno o cercare alleati in quei mesi, era controllato così strettamente che ogni tentativo, in tal senso, era risultato impossibile.
Doveva fidarsi dell'onore di quelle persone.
Si mosse sulla bassa sedia imbottita, simile a un largo sgabello, che permetteva una posa a gambe incrociate senza essere però seduti al suolo. Un movimento apparentemente casuale.
Alzò gli occhi su suo padre che conversava con la sua nuova concubina, una ragazzina di forse quindici anni che proveniva dalle terre del nord, con la chioma così chiara da sembrare d'argento. Era giovane, spaventata, gli occhi bassi.
Non sarebbe stata d'intralcio.
Prese un respiro e si aggrappò ai brandelli di quella calma mentale che aveva conquistato quel pomeriggio, mentre il pugnale scivolava nelle sue mani.
Fu un istante, un unico movimento rapido e preciso, un battito di cuore e la lama si conficcò in profondità nel collo scoperto di Fiuren, mentre le urla della concubina assordavano la sala, isteriche e acute.
Le guardie si erano mosse istantaneamente, ma erano troppo distanti.
Lo raggiunsero, gli strapparono l'arma di mano, cercarono di salvare Fiuren, ma la grossa vena della gola era recisa e nulla poteva salvarlo.
Se suo padre non si fosse fidato di lui come i primi tempi l'avrebbero perquisito, una guardia sarebbe stata a un passo dietro di lui, ma in quei mesi era arrivato a credere che lui gli fosse davvero fedele, a convincersi delle menzogne che lui stesso si diceva.
La vista di Shiin si appannò, le lacrime gli offuscavano la vista mentre i colpi violenti delle guardie gli toglievano il fiato.
Aveva ucciso suo padre.
Quella consapevolezza gli urlava nel cervello, togliendogli fiato e volontà.
Aveva ucciso suo padre.
Assassino, spergiuro, disonorato.
Aveva tagliato la gola all'uomo che gli aveva dato la vita, che lo aveva cresciuto, a cui aveva giurato fedeltà.
Aveva ucciso suo padre, il suo signore.
Ma presto l'avrebbero giustiziato.
Un colpo più forte lo raggiunse alla testa e perse i sensi, accogliendo il buio che cancellava le urla della concubina, il fracasso degli uomini che chiamavano a gran voce le guardie fuori dalla sala, che toglieva dalla sua vista il viso sconvolto di Fiuren e gli occhi colmi di rimprovero, le iridi che sgranate e vuote lo fissavano.

L'ultima monetaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora