-05- L'imperatrice dei fulmini

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«Altro vino, mio signore?»
Shiin della Fenice, dyku della sua casa, annuì. Osservò i movimenti aggraziati ed eleganti di quel giovane schiavo con occhi attenti, notando come ogni cosa, in lui, gli ricordasse la grazia del guerriero esperto. Aveva visto quella fluidità di movimenti solo poche volte e unicamente in chi era stato addestrato alle armi fin dai primi momenti di vita. Cosa ci faceva, lì, un ragazzo simile?
«Sei un enigma, Ashur.» asserì a bassa voce, tranquillamente.
«Cosa intendete, nobile Shiin?» Ashur posò la bottiglia e guardò attraverso le ciglia il volto dell'altro. Il capo leggermente chinato, inginocchiato a poca distanza, si sentiva terribilmente agitato e ansioso. Quel dyku che, a poco più di vent'anni, aveva guidato e vinto una sanguinosa campagna per liberare dai briganti costieri la zona era acclamato come un eroe. Due stagioni di battaglie interrotte solo nei mesi in cui il mare era impraticabile e l'entroterra battuto da torrenziali tempeste impossibili da affrontare gli avevano dato fama, gloria e onore.
Si sentiva indegno di stare alla sua presenza, sporco, eppure era stato lui a comprarlo per quella prima notte, a versare una piccola fortuna perché fosse suo.
«Non sei sempre stato uno schiavo, vero?»
Ashur impallidì appena e chinò ancora di più il capo, cercando di sfuggire allo sguardo inquisitorio di quelle iride grigie, simili all'argento.
«È quello che sono ora, il passato è ciò che ci lasciamo alle spalle, mio signore.»
«E non eri un popolano. Ne sono certo.»
La mano di Shiin gli si posò sotto al mento e gentilmente costrinse Ashur ad alzare il viso, continuando quell'osservazione che ora iniziava anche a spaventare il giovane. Era troppo acuto, aveva già intuito troppo, e lui non voleva che scoprisse altro, di lui.
«Vi prego, mio signore, non sprecate il vostro tempo con me a questo modo,» Ashur disse, cercando di imitare il tono caldo e sensuale che aveva sentito usare da Majion «sono solo quello che vedete, nulla di più.»
Shiin annuì appena, scostando i fini e lucidi capelli neri dal viso dello schiavo. Era pallido, era evidentemente agitato.
«Sono domande a cui non ti è permesso rispondere?»
Cogliendo l'occasione al volo, Ashur abbassò nuovamente lo sguardo e annuì. Non era vero, non esattamente, ma se avesse pensato che non poteva soddisfare la sua cuuriosità, forse l'avrebbe lasciato stare, ponendo fine a tutte quelle domande. Aveva fatto l'errore di salutarlo istintivamente come un suo pari, fermandosi a metà del gesto per correggerlo, ma l'occhio attento del dyku l'aveva comunque colto e da lì quel piccolo interrogatorio aveva avuto inizio.
«Altro vino, allora.» lasciando libero il viso di Ashur, Shiin si portò alle labbra un involtino di pesce, una piccola prelibatezza.
La stanza era grande e lussuosa, anche se in un certo senso spoglia. Un ampio e basso letto coperto da coltri di seta era all'angolo opposto, davanti a delle grandi porte che davano su un balcone che sovrastava, dall'ultimo piano, la strada. Sottili tende velavano quell'apertura permettendo alla brezza di entrare, ma tenendo lontani i piccoli insetti notturni, cosa sempre gradita.
A gambe incrociate sui cuscini, mentre mangiava al basso tavolino di legno intarsiato con piccoli fiori di loto, laccato di blu e oro, Shiin non poteva far altro che ammirare quella grazia felina, morbida eppure a modo suo pericolosa, sorridendo tra sé.
«Eri stupito di vedere che ti avevo comprato io per questa notte, vero?»
«Non mi aspettavo un guerriero.» disse Ashur, rendendosi immediatamente conto di aver dato la risposta sbagliata. Lo sguardo di Shiin si assottigliò, poi inaspettatamente rise.
«E così non te lo aspettavi! La mia casa è molto più aperta su questi passatempi, anche se non andiamo in giro a sbandierarlo. Quando mio padre ti ha visto ho avuto la sua invidia, sai?»
Ashur, per un momento, lo fissò esterrefatto e la rinnovata risata del nobile lo colse nuovamente di sorpresa.
«Scusate, mio signore, non volevo mancarvi di rispetto, io...» un dito che si posava sulle sue labbra l'interruppe.
«Non lo hai fatto, è una perplessità che posso capire.» gli disse sorridendo appena. Poi mise la mano sotto il mento del giovane, avvicinandosi a lui e guardandolo negli occhi annuì. «Occhi scarlatti, splendidi... sono certo abbiano un significato e che tu non me lo dirai.»
Arrossendo appena, Ashur si trovò a fremere, desiderando fuggire da quell'uomo che aveva troppo intuito e troppa gentilezza.
Il ragazzo si sporse, decidendo di porre fine a quella chiacchierata che non desiderava nell'unico modo che gli era concesso. Posò le sue labbra su quelle del nobile che, dopo una minuscola frazione di tempo, forse sorpreso, rispose al bacio, spingendosi contro Ashur con decisione. La sua bocca si aprì, cercando quella dello schiavo che aveva davanti, esplorando quelle labbra e sentendo il desiderio scorrere nelle sue vene, infuocandole.
Accarezzò quella pelle, iniziando a percorrerla con mille dita curiose, scostando la veste e scendendo sulla cintura con movimenti precisi, senza spreco di tempo. Shiin avanzò lungo quella strada imprimendo a ogni tocco il suo desiderio, mentre Ashur si piegava obbediente a esso. Doveva obbedire, doveva compiacere, doveva far sì che il nobile Shiin della Fenice uscisse dal Loto appagato e felice.
Rispose dapprima con una certa incertezza a quelle carezze, spaventato e disgustato da quello che doveva fare, colpevole e vergognoso davanti al volto del padre che percorreva la sua mente con lo sguardo colmo di disgusto e disapprovazione. Gli sembrava di sentire gli insulti dell'uomo sulla pelle brucianti come staffilate, dolorosi come ferite aperte e sanguinanti.
Chiuse gli occhi, rispondendo ai baci sempre più appassionati del guerriero che ora incombeva su di lui, sovrastandolo, mentre scostava i lembi della veste di seta che indossava per l'occasione. Una volta denudato capì di essere vicino a tremare come un vigliacco e deglutì, soffocando nel suo intimo quella vergogna che faceva affluire il sangue al suo volto e pungere gli occhi con lacrime amare.
Strinse le braccia al collo del suo cliente, affondando il viso nell'incavo della spalla e con imbarazzo, sentendo il sangue scaldargli le orecchie, prese con delicatezza tra i denti la sottile pelle del collo, stuzzicandola, lasciandola per poi baciarla. Sentiva il respiro di Shiin farsi accelerato e si sentì tirare su a forza. Sorpreso, quasi perse l'equilibrio, ma seguì l'altro al grande letto, guardandolo spogliarsi con gesti rapidi e frettolosi. Le mani di Shiin tornarono ad accarezzare Ashur, percorrendo l'avvallamento della colonna vertebrale e scendendo fino alle natiche, saggiandole ed esplorando.
Ashur chinò il capo, incapace di mostrare un qual si voglia autentico entusiasmo cercava a quel modo di nascondere ciò che veramente provava, temendo che ciò potesse scontentare il dyku. Quando l'altro si sedette sul bordo del materasso con grazia gli si inginocchiò davanti, prendendo la carne dura dell'altro tra le labbra e cercando di controllare il tremito che sentiva minacciarlo. Non era solo la paura, il disgusto e la disperazione a fomentare quel nascente tremore: era l'erba nera che voleva emergere.
Lottò per tenerla sotto controllo, terrorizzato da quello che poteva accadere se avesse avuto una crisi proprio in quel momento. Sarebbe stato cacciato da quella stanza? Allontanato suscitando così le ire di Zunya e una punizione? Non temeva solo il castigo per se stesso, ma la vergogna che esso portava: ne stava assaporando fin troppa.
Continuò quindi a dedicarsi a Shiin, inesperto, anche se istruito da Majion, Ashur cercò di concentrarsi nel dare piacere al giovane dyku di fronte a lui. Si sforzava di controllare la crescente ondata che premeva dal suo interno: sembrava che portando tutta la sua attenzione ad altro il tremore dell'erba nera stentasse a emergere e di ciò era enormemente grato.
«Sali sul letto.» ordinò con voce gentile Shiin, allontanandolo da sé, e Ashur obbedì docilmente, continuando a evitare lo sguardo dell'altro. Si sedette sul letto e il nobile lo sovrastò nuovamente accarezzandolo e baciandolo, percorrendo la sua pelle con una strana attenzione curiosa. Era però un amante frettoloso, anche se delicato, in cui ardeva il fuoco della passione giovanile, che consumava velocemente il proprio desiderio. Un falò che bruciava alto e violento, con una forza di breve durata ma che, come la fenice simbolo della Casa di Shiin, risorgeva continuamente dalle sue ceneri.
Sapeva cosa aspettarsi, Majion era stato chiaro e non aveva fatto giri di parole nel descrivergli quello che sarebbe accaduto. Ashur si morse con violenza le labbra quando la fretta dell'altro gli causò un dolore terribile, imponendosi di non emettere suono. Prono, i fianchi in balia del nobile, affondò il viso nel cuscino, sentendo la passione dilagante che l'altro riversava dentro di lui come lava che gli inondava la carne, ardendola.
Era doloroso e umiliante. Infine gemette, incapace di trattenere la voce sperò che non capisse che era un suono di dolore e non di piacere. Sarebbe stato ancora più vergognoso in quel caso?, si chiese il ragazzo, confuso da quello che il suo corpo gli trasmetteva, da quelle sensazioni che si spandevano in lui mescolando dolore e piacere, mentre lui trovava la nascita della passione, in lui, mortificante. Era sbagliata, quello sapeva. Aveva passato un'intera vita nella certezza che ciò che lui ora faceva era disdicevole, infamante per un uomo. Eppure era lì, a gemere come la puttana in cui l'avevano trasformato, dimenando i fianchi e muovendosi come gli avevano gli avevano insegnato. Era lì, istruito per dare piacere, per dispensarlo, meno di un uomo.
Cos'è l'orgoglio per una puttana? Quelle parole risuonarono nella mente del ragazzo, che gemette più forte, soffocando nelle sensazioni le parole e le immagini che invadevano la sua mente, cercando di dimenticare, di accantonare. Ashur del Leone era morto, non esisteva più, doveva vivere come Ashur lo schiavo. Doveva aggrapparsi all'unica, piccola speranza: la libertà. E se la via per guadagnarla era attraverso il suo corpo doveva incamminarsi su di essa, lasciando dietro di sé ogni altra cosa.
Con altri rapidi colpi sentì che Shiin si tendeva sopra di lui, per poi rilassarsi e liberarlo dall'ingombro, rotolando su un fianco e sospirando soddisfatto.
«Sei bellissimo.» gli mormorò, posandogli una mano tra le scapole e accarezzandolo lungo la linea della colonna vertebrale. «Non ho saputo trattenermi, ti ho causato dolore?»
Girandosi in modo da vederlo, il viso asciugato dalla frizione contro la morbida seta delle lenzuola, Ashur lo guardò, fissando con lo sguardo il mento del nobile.
«Siete gentile, mio signore.» mormorò «Non preoccupatevi, non avete causato dolore.» mentì. Del resto dire la verità era improponibile. Accennò un sorriso e sentì le mani che gli tremavano. Strinse i denti, cocciuto, cercando di nascondere ciò che gli accadeva: infine l'erba nera aveva spezzato gli argini della sua volontà e manifestava i sintomi.
Si rannicchiò leggermente, spaventato dall'intensità di quello che iniziava a provare. Non era solo quel tremore che odiava, ma anche un dolore che iniziava a dipanarsi nel suo ventre, un tormento che ricordava bene.
«Tremi, qualcosa non va?»
«Nulla...» ma la voce di Ashur suonò soffocata e bugiarda alle sue stesse orecchie. Shiin lo afferrò per le spalle e l'osservò. Incapace di mascherare il tremito, supino, non poté fare altro che guardare quegli occhi grigi studiarlo, soffocando un gemito di dolore. Durò pochi minuti, poi tutto cessò, anche le fitte al ventre.
«Voglio la verità, sei forse malato?» perentorio, un ordine in tutto e per tutto, il comando di un uomo che aveva tra le dita la vita di soldati, abituato a essere obbedito.
«No.» disse Ashur in un soffio, deglutendo «Sono i sintomi dell'erba nera, mio signore. A volte si manifestano nei momenti meno inopportuni, a mesi o anni di distanza...»
Il silenzio accolse per lunghi istanti quelle parole e Ashur, il viso improntato alla vergogna, cercò di spostarsi e di scendere dal letto, ma la mano di Shiin lo bloccò.
«Ti hanno costretto ad assumerla?»
A capo chino, il giovane annuì . «Sì, assieme al latte di papavero.» le parole presero forma lentamente, dolorosamente.
«Perché?»
Ashur alzò gli occhi, sentendo una strana rabbia scaldargli il sangue.
«Uno schiavo non domanda le motivazioni del suo padrone, mio signore. Non volevano fastidi da parte mia, immagino.»
«Apprezzo molto di più quando mi guardi negli occhi, Ashur.» Shiin posò la mano sul collo del ragazzo, scostandogli con l'altra i lunghi capelli e pettinandoli con le dita per qualche istante. «Un giorno mi dirai tutto.»
Non era una domanda, era un'affermazione, detta con una sicurezza granitica.
Il ragazzo abbassò gli occhi, cercando di non far trapelare il fuoco dell'ira che provava dalla voce, rispose: «Se così dovrà essere, accadrà. Tutto è nelle mani degli Dei.»
«Degli Dei, dei demoni e degli spiriti, oppure in mano nostra?» Shiin si avvicinò al giovane, passando le mani su quel corpo che l'aveva stregato e ammaliato con la sua bellezza in una carezza. «Io ho sempre agito come se il mio destino fosse in mano mia, anche davanti al canto delle sirene della baia nera, o nel mezzo di un arrembaggio, sono sempre stato io l'artefice del mio destino. Non credo che agli Dei interessi qualcosa di noi mortali, se non per ridere ogni tanto delle nostre sciocchezze.» Quelle parole fecero sussultare appena Ashur. No, gli Dei si intromettevano nelle loro vita, giocavano con loro, e lui lo sapeva. Shiin si sporse e baciò di nuovo lo schiavo, l'ardore nuovamente risvegliato che cercava il suo sfogo.
Per Ashur ricambiare, fingendo un desiderio che non provava, divenne più facile a ogni occasione, durante quella lunga notte. Più e più volte il nobile Shiin sentì il bisogno di soddisfare la propria lussuria, mentre il giovane, ogni volta, si sentiva più vuoto. Fingeva, faceva tutto quello che Majion gli aveva insegnato, cercava di rendere soddisfatto il suo cliente, il tutto con l'anima straziata da un mostro che lo divorava con zanne di vergogna e umiliazione.
Mancava poco all'alba quando il nobile si alzò, soddisfatto, e Ashur lo aiutò a rivestirsi per poi inchinarsi profondamente mentre usciva. Sulla soglia, bloccandosi, Shiin voltò appena la testa verso lo schiavo. «Credo proprio che chiederò ancora di te. Sei diverso dagli altri, mi incuriosisci.»
«Vi ringrazio, mio signore.» mormorò, cercando di apparire felice di quelle parole. Non seppe se era stato udito, però. Il guerriero aveva proseguito, scendendo le scale ampie e lucidate, lasciandolo solo. Con un gemito di stanchezza e dolore, che aveva lasciato uscire perché solo, si avviò barcollando leggermente, desiderando solo poter raggiungere la minuscola stanza che era solo sua e dormire.
Invece, una volta giunto in fondo alle scale con passo malfermo, trovò Zunya ad attenderlo.
«Il nobile Shiin ha lasciato una mancia per te. Dice che te la sei guadagnata, visto che non è stato poi così difficile?»
«Sì, padrone.» disse, cercando di non guardarlo rabbiosamente. Non era stato difficile per il po'shin, forse, che lo guardava con aria soddisfatta vedendo, probabilmente, i guadagni che avrebbe fatto.
«Seguimi, dobbiamo chiudere la faccenda, poi potrai riposare un po'. Ricordati che tutto questo non ti svincola dal servizio a Majion.»
Ashur aprì la bocca per protestare: come poteva dopo una notte simile andare a servire l'altro? Eppure era certo che ogni sua rimostranza sarebbe rimasta inascoltata. S'incamminò dietro a Zunya celando il malumore, sopportando la stanchezza e il dolore che la nottata passata con il nobile Shiin gli aveva causato. Nonostante ogni passo fosse un tormento serrò cocciutamente i denti, rifiutandosi di dire una parola.
Arrivarono alla stanza nel cortile sul retro che il po'shin usava come un ufficio mentre la luce dell'alba si faceva più forte. Una volta dentro l'uomo prese una scatola sul tavolo, l'aprì e ne estrasse un collare dorato.
«È tradizione del Loto che io ti metta l'anello solo dopo il primo cliente.» affermò, afferrando i bordi di quel cerchio aperto sul davanti, con una piccola decorazione di spirali lungo quei bordi. Zunya fece cenno ad Ashur di avvicinarsi. Prese a strofinare sovrappensiero i bordi dell'apertura dell'anello, per poi sospirare. «Dovevo farlo decorare di più, pazienza.»
Prese dalla tasca un cristallo grande come un dito, esagonale e di un bianco trasparente. Al suo interno sembrava muoversi in spirali pigre del fumo e Ashur riconobbe l'oggetto: era un cristallo di quarzo in cui era stato vincolato un elementare minore. Inoltre, dalle cangianze simili a scintille di brace di quella esalazione all'interno della pietra, pareva affiliato con il fuoco. Zunya l'avvicinò al cerchio di metallo, posandolo su di esso e mormorando alcune sillabe in un linguaggio che Ashur, pur non conoscendo, riconobbe. A quanto pare il proprietario del Loto aveva inaspettate doti da mago. Riponendo il cristallo nella veste afferrò i lembi dell'anello e, senza apparente sforzo e senza deformare il metallo, l'aprì per metterlo al collo di Ashur. Il freddo materiale sfiorò la pelle accaldata del giovane, che rimase immobile e rigido, mentre veniva chiuso accostando lo spazio tra i bordi il più possibile senza che potesse però causare danni al collo dello schiavo.
«Bene, fatto. D'ora in poi i clienti sapranno che non sei solo destinato a servire i tavoli e potranno sceglierti! Ora vai.»
Ashur si inchinò, tenendo per sé i pensieri rabbiosi, violenti e pieni di quel senso di disperata umiliazione che si agitavano in lui. Posò le dita sul metallo che gli circondava il collo, sapeva benissimo che era impossibile toglierlo. Non era un mago e di magia sapeva ben poco, non gli era mai neppure interessata, ma Majion lo aveva avvertito che anche solo cercare di aprirlo era decisamente sconsigliabile. Finalmente arrivò davanti alla sua stanza, ma lì trovò con sua sorpresa Majion ad attenderlo.
«No!» sbottò vedendolo «Lasciami stare, fammi dormire, voglio stare solo... almeno un po'!»
«Non è la soluzione. Vieni, ti ho preparato un bagno, poi dormirai. Il mio letto è più comodo e se pensano che ti sto tiranneggiando non verranno a disturbarti.»
Ashur lo fissò a bocca aperta, per poi seguirlo docilmente quando venne tirato per un polso. Andarono nel seminterrato, dove una tinozza era già stata preparate e con gentilezza l'uomo lo aiutò, lo fece spogliare e rimase in silenzio, aspettando finisse di lavarsi. Il sollievo del giovane era evidente, l'acqua calda sembrava lavare via non solo il sudore e ciò che aveva sulla pelle, ma anche il tocco del nobile che lo aveva posseduto per tutta la notte. Chiuse gli occhi, abbracciandosi le ginocchia e scoprendosi a ricacciare indietro le lacrime a fatica.
«Resisti ancora un po', andiamo.»
Incredibilmente dolce, il tono dell'uomo lo stranì. Ashur lo seguì nelle sue stanze, sopportando il dolore che ogni passo faceva ripercuotere in lui. Si lasciò guidare sul letto di Majion, posando la testa sul cuscino e fissando il muro sentì quella bolla di emozioni represse premere nel suo petto, fremendo per esplodere.
Non avrebbe pianto, decise. Nonostante lo desiderasse non l'avrebbe fatto, farlo non avrebbe cambiato nulla farlo. Non era morto, non era successo nulla di irreparabile... almeno, nulla che una puttana avrebbe considerato irreparabile.
Si rannicchiò su un fianco, coprendosi il viso con il braccio. Alcune lacrime ribelli scesero comunque, mentre Majion, seduto poco lontano, lo guardava in silenzio, sospirando tra sé, dispiaciuto per Ashur.

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