19 - Fratelli

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  Davanti a loro si apriva il complesso del palazzo imperiale, un enorme labirinto di giardini, parchi ed edifici in cui spuntavano, qua e là, alte torrette e pagode. Quel luogo era un'intera città nella città, racchiusa da alte mura di pietra grigia sormontate da tegole rosse. Draghi scarlatti e dorati, intrecciati tra loro, sembravano quasi vivi nelle sculture che adornavano ogni angolo, nei bassorilievi delle mura e nei dipinti che ornavano paraventi e tende. Lì la primavera sembrava già arrivata con anticipo: si diceva che, in grazia della presenza dello spirito del drago che lì risiedeva, l'inverno sfiorasse tardi e lasciasse presto la sua morsa dal complesso imperiale.
Ashur cavalcava con la servitù che accompagnava i nobili della Fenice, tenendo lo sguardo basso. Anche se Fiuren aveva messo una leggera illusione sui suoi occhi, in modo che il colore sembrasse solo un particolare castano, il suo volto era immutato. Era certo che, prima o poi, sarebbe stato smascherato, ma pregava ardentemente che accadesse il più tardi possibile. Riconosceva con un misto di amarezza e felicità quei luoghi: certo non aveva frequentato assiduamente il palazzo, ma si era recato lì diverse volte con suo padre, nel tempo. Ripensare a Taone, consapevole del fatto che stesse morendo, gli faceva nascere un profondo dolore nel cuore. Lo aveva cacciato, eppure non lo odiava. Ricordava benissimo quello sguardo, quella voce: era stato obbligato dal dovere e dall'onore, dalle leggi del Clan, aveva obbedito a loro quando lo aveva allontanato, soffrendone quanto lui. Era passato praticamente un anno, ormai, da quando aveva abbandonato la capitale. Lunghi mesi in cui la sua visione del mondo era cambiata in modo radicale, quasi irriconoscibile, gettando al vento la quasi totalità degli insegnamenti e delle regole su cui si era basata la sua vita. Il suo concetto di onore e rispetto era radicalmente mutato, così come il suo modo di giudicare gli eventi.
Accanto a lui, Majion, vedendolo pensieroso e quasi raggomitolato su se stesso, come a volersi nascondere, sfilò un piede dalla staffa e diede un leggero calcio alla gamba dell'amico, che subito lo fissò.
«La smetti? Nessuno penserà che tu... insomma, sei uno schiavo. Potrebbero giusto pensare a una forte somiglianza, ma così attiri gli sguardi: sembri un'anima in pena.» Majion sogghignò. «O magari sei in pena davvero e non per quello? Tra poco scenderemo di sella, tranquillo.»
Ashur lo fulminò. «Avevo proprio bisogno di una parola di conforto, ricordami di non ascoltare più le tue, però.»
«Come mai? Forse ho toccato un argomento dolorante?»
«Se non la smetti te lo do io, il dolorante.» sibilò, irritato. No, non era divertente. Shiin aveva smesso con quella sua stupida vendetta, ma non erano certo bastati un paio di giorni senza quelle attenzioni a rimettergli in sesto il fondo schiena. Majion rise e lui sbuffò, alzando lo sguardo e osservando come ovunque, attorno a lui, gli spiriti presenti sembrassero completamente diversi. Era come se ci fosse una certa nobiltà, in loro. Vedeva solo vaghi contorni di esseri simili a uomini o donne, piccole e sfuggenti volpi con più code, spiriti che mescolavano sembianze animali e umane. La cosa che, però, lo stava meravigliando di più era una specie di luccichio dorato che pervadeva, ai suoi occhi, ogni statua di drago. Era come se ognuna di loro avesse altre, vere forme o, almeno, quella era la sensazione che aveva. Non sapeva spiegarlo, o capirlo, si trovò però sbalordito a contemplare quella bellezza magica e contemplabile solo da lui.
«Cosa vedi?» gli chiese Majion, incuriosito dalla meraviglia che stava brillando sul volto dell'amico e di come i suoi occhi si posassero in punti che lui vedeva vuoti. Il palazzo era stupendo, sorprendentemente ricco e raffinato. Ogni più piccolo aspetto curato e le decorazioni abbondavano. L'oro, il rosso e il bianco erano ovunque e le pietre grigie che costituivano camminamenti e muri erano perfettamente squadrati, con piccole inclusioni di mica che davano, nella luce solare, un effetto brillante a quelle superfici.
«Sembri Kaidao.» mormorò il ragazzo, memore della lunga passeggiata con il nobile. «Non so neanche come spiegartelo, ma sembra che ci siano spiriti più, non so, eleganti?»
«Mi fido di te. Anche se come termine è strano.»
Ashur si strinse nelle spalle, continuando a guardarsi attorno, quasi dimentico della sua paura di prima. «Se sapessi come spiegartelo lo farei.»
Nel mentre la colonna era arrivata a un grosso cortile, ampio decine e decine di metri, completamente lastricato. Avevano attraversato alte porte di legno dipinte di rosso e rinforzate da fasce di ottone lucido su cui erano incisi gli immancabili draghi. Smontarono tutti da cavallo e i servitori del palazzo portarono via some e animali. Ordinatamente ognuno si inginocchiò, prostrandosi con la fronte a terra e le mani accanto al capo. Una serie di profondi battiti di tamburo annunciarono l'arrivo dell'imperatrice, venuta ad accoglierli personalmente. Come schiavi si trovavano in fondo e Majion azzardò un poco, alzando appena la testa per riuscire a vedere la sovrana. Spalancò gli occhi e trattenne il fiato davanti allo sfarzo e alla magnificenza che il corteo imperiale dimostrava. Paraventi di seta, abiti con ricami di fili d'oro e pietre preziose che brillavano al sole e, davanti a tutti, in una lucida mezza armatura impreziosita da sbalzi e smalti, stava lei. I capelli raccolti all'interno di una corona alta, che raffigurava draghi avvinghiati tra loro e decorata da giada e smeraldi, avvolta da una veste di un verde caldo e vivo decorata in oro e ampie, lunghe maniche sotto cui si intraveda seta candida.
«Tieni giù la testa!» il sussurro di Ashur gli arrivò chiaro. Majion si rese conto di averla alzata decisamente troppo e si affrettò a sfiorare il suolo con la fronte, facendo tesoro di ciò che aveva visto.
Erano troppo lontani per sentire, ma i saluti e l'accoglienza formale a palazzo furono lunghi, mentre quella posizione iniziava a diventare davvero scomoda. Un cambiamento nel suono basso del tamburo che aveva accompagnato la cerimonia fu il segnale. L'imperatrice era tornata all'interno del palazzo e tutti si mossero; i servitori riapparvero, guidando il corteo della Fenice agli alloggi a loro riservati: un'intera ala nei pressi degli alloggiamenti militari dove sarebbero stati ospitati anche i soldati del clan non appena fossero arrivati. Un grande cortile in parte lastricato era al centro di quell'ala che si chiudeva su se stessa, formando una specie di schematica spirale composta da linee rette. I camminamenti erano coperti dalle tettoie della costruzione, il colore dominante era un verde intenso, accompagnato da decorazioni in oro.
Piccole aiuole decoravano angoli e punti tranquilli, con piccole panchine e fontane. Deliziosi gazebo coperti di rampicanti che promettevano uno sbocciare intenso di fiori facevano capolino da dietro alcuni edifici. Ashur si affrettò a sistemare nelle stanze assegnata a Shiin il bagaglio, ufficialmente era il suo servitore personale ed era sua responsabilità che tutto fosse in ordine. Controllò che fosse tutto a posto e accese, nonostante non facesse davvero freddo, la piccola stufa nella camera da letto. Erano tre ampi locali e uno più piccolo in cui una vasca di pietra nel pavimento si nutriva delle acque termali che sgorgavano da sotto il palazzo. Ashur non sapeva come funzionasse, ma c'era uno scarico e dei rubinetti, l'acqua calda era comoda e veloce da avere, lì. Riempì per Shiin la vasca, mettendo in essa alcuni oli essenziali e sistemò gli abiti puliti su uno sgabello. Riuscì a completare ogni preparativo appena in tempo, precedendo di poco l'entrata del dyku, che si guardò attorno con approvazione.
«Stanze molto belle, che ne pensi?» chiese Shiin, in tono colloquiale, mentre Ashur lo aiutava a svestirsi.
«Sono tra le più belle del palazzo, padrone. L'imperatrice evidentemente tiene in grande considerazione il clan della Fenice, per avervi dato questi quartieri.»
Shiin annuì, dirigendosi nella grande vasca di marmo scuro, venato di verde, ed entrando nell'acqua fumante. Posò il capo sul bordo, chiudendo gli occhi e ascoltando i piccoli rumori che causava Ashur. Il giovane stava sistemando in una cesta gli abiti che il dyku si era tolto per portarli a lavare, riponendo le armi in ordine sul tavolo appena fuori dal bagno.
«Ashur?» Dopo un istante Shiin sentì il fruscio quasi inudibile dei piedi del ragazzo sulle stuoie intrecciate che coprivano quasi completamente il pavimento di legno. Aprì gli occhi e lo vide inginocchiarsi vicino a lui. «Entra nella vasca, voglio che mi lavi la schiena.»
Lo schiavo inclinò appena il capo in un assenso, «Come ordinate, padrone.»
Il tono di voce era sommesso, erano parole docili e ubbidienti, eppure il nobile sapeva con certezza che nulla, nell'anima del ragazzo, era docile e ubbidiente. Aveva ripreso ad ardere, la sua anima fiammeggiava nuovamente. Sorrise tra sé, osservando mentre scioglieva la cintura della veste e la faceva scivolare dalle spalle. Guardò il tatuaggio che gli andava da scapola a scapola, con la fenice al centro, e le natiche ancora spellate e violacee. Un'ondata di rossore lo investì: aveva tenuto un comportamento indegno, doveva ammetterlo.
Sapeva perfettamente che il giovane non gli aveva mentito quando aveva negato di aver intrattenuto rapporti con il cestrix, eppure aveva provato emozioni cupe che lo avevano spinto a un comportamento errato nei confronti dell'altro. Essere schiavi non voleva dire essere lo sfogo della cattiveria del padrone, per lo meno quello era ciò che l'onore imponeva anche se, lo sapeva perfettamente, spesso quello era il destino di chi viveva privo di libertà.
Osservò con attenzione i movimenti eleganti e armonici del giovane, voltandosi in modo che potesse lavargli la schiena.
Ashur si inginocchiò nell'acqua trovando meraviglioso affondare in quel calore. La vasca era così grande che avrebbero potuto stare comodi anche in quattro quindi, in due, era più che agevole muoversi. Prese un pezzo di sapone e una stoffa a trama spessa e ruvida e iniziò a massaggiare la schiena del dyku. Agiva meccanicamente, come molte volte prima di quella, ammorbidendo i muscoli del condottiero con movimenti lenti. Sotto le sue mani Shiin si rilassò e dopo un po' si mosse, voltandosi in modo da guardare Ashur e togliergli dalle mani la pezza e il sapone, posandoli sul bordo in un piccolo contenitore di legno.
«Hai un tocco delicato, eppure quando maneggi una katana sai essere violento e spietato, implacabile e spaventoso.» Era una considerazione. Nulla più di un basso mormorio che sembrò scivolare sull'acqua fumante. Ashur rimase in silenzio, trattenendo un sorriso perplesso. Come poteva saperlo se i ricordi di quei momenti erano per lo più confusi? Quando combatteva tutto si ammantava di rosso, nelle sue orecchie c'era solo il suono dello scontro, i suoi sensi erano come amplificati e unicamente indirizzati alla lotta. Tutto il resto era sfumato: non esisteva dolore, pensiero coerente, era solo un insieme di desiderio di sangue e di vittoria, un essere che viveva per affondare la lama e sentire il clangore del metallo.
Tutto si riduceva a quello, e solo quello ricordava: il sibilo della katana che fendeva aria, carne e qualunque cosa gli si parasse davanti.
Le mani di Shiin salirono sulle spalle del ragazzo, premendo appena la pelle liscia e ancora sbiancata da quello che aveva fatto Majion. I polpastrelli del dyku sembrarono cercare la carne dell'altro con perizia, osservando quegli occhi pieni di fuoco. L'illusione, su di lui, non aveva effetto e le iridi rosse di Ashur erano tizzoni ardenti; vedeva come il giovane cercasse di celare dietro il comportamento remissivo e dimesso il desiderio di ribellione e accennò a un sorriso. Si avvicinò, sfiorando con le proprie le labbra dell'altro che, immediatamente, si abbandonò tra le sue braccia.
Divenne all'istante l'amante perfetto, la fonte di un piacere raffinato e sublime che lo ammaliava con i suoi modi, con gli sguardi falsamente innocenti, i gesti languidi e le mosse lascive. Il mutamento che avveniva in Ashur in quei momenti era completo. Diventava un essere fatto per il piacere e la lussuria e presto il dyku non riuscì a trattenersi, entrando nell'altro alla ricerca dell'appagamento. Seduto sul fondo della vasca, con la schiena puntellata alla parete, il nobile prendeva la sua soddisfazione mentre il giovane muoveva i fianchi, impalandosi sul sesso del suo padrone e guardandolo. Le mani di Ashur erano posate ai lati del collo dell'altro e accarezzavano dolcemente le spalle del suo padrone, le sue labbra blandivano maliziose quelle piene di desiderio dell'uomo che stava letteralmente cavalcando, provando al di sotto di tutto un certo disprezzo per sé e per Shiin. Com'era facile irretire qualcuno, pensava in un angolo della sua mente. Bastava indossare una maschera, gemere, baciare e nutrirne la lussuria.
Sentì l'altro soffocare versi di piacere contro la sua bocca in un grido trattenuto e le braccia del dyku stringergli la vita fin quasi a mozzargli il respiro, mentre si svuotava in lui. Continuando a tenerlo stretto in quel modo a un passo dal doloroso, Shiin lo baciò nuovamente, mordendogli il labbro, esplorando con la lingua quei contorni che sapevano stregarlo per lunghi minuti, prima di allontanarsi.
Allentando la presa il dyku fece scendere dalle sue gambe l'altro, per poi spostarsi fuori dalla vasca. Ashur si affrettò a uscire a sua volta, porgendo poi un ampio e morbido telo al suo padrone.
«Se andassi a porgere i miei omaggi al generale Taone, vorresti venire con me?»
Quella domanda completamente inaspettata fece impallidire Ashur. «Non credo che il nobile Generale avrebbe piacere nel vedermi.»
«Non potrebbe riconosce la tua presenza come figlio, ma vedere che sei in salute, vivo, potrebbe dargli un certo sollievo.» Shiin, avvolto dal telo, andò nella stanza da letto facendo poi cadere la stoffa al suolo e iniziando a vestirsi, fingendo di non notare l'immobilità di un animale terrorizzato dell'altro. «Sei pur sempre in una Casa, ora. Non saprebbe altro.»
«Dubito che non verrebbe a sapere come vi servo, padrone.» mormorò, cercando di non far emergere l'astio. «Preferirei non doverlo fare, ma se me lo ordinerete sarei obbligato. Anche se spero voi non lo facciate.»
«Non sono un uomo così crudele. Se dici che non trarrebbe alcun giovamento dal saperti qua rispetterò il tuo desiderio.» Shiin si allacciò le due spade al fianco e la lunga veste nera dai risvolti ricamati in argento. Le maniche erano ampie e lunghe quasi fino a terra, i pantaloni al di sotto erano morbidi e stretti ai polpacci. Ashur si accorse di non aver mosso un dito, ma non si scusò. Non voleva farlo. Guardò Shiin mantenendo l'espressione quasi intontita e il dyku storse appena il labbro, osservandolo. «Devo presenziare nella sala reale, tu ricorda di non farti notare troppo.»
«Certo, padrone.»
Era il primo a non volesi far notare, pensò. Certe raccomandazioni erano inutili.
Nei giorni successivi prese dimestichezza con i percorsi usati dai servitori, tenendosi lontano da qualunque incontro casuale con persone che avrebbero potuto riconoscerlo nonostante l'illusione che celava i suoi occhi. Shiin usciva la mattina poco dopo l'alba e tornava solo dopo cena, questo gli lasciava il giorno completamente libero, una volta svolte le sue mansioni, e aveva preso l'abitudine di gironzolare nelle zone delle cucine, scoprendo che erano un calderone di pettegolezzi. Lì si vedeva anche con Majion, nelle sue stesse condizioni.
«Non avrei mai pensato ci fosse così tanta gente.» Il cestrix addentò uno dei dolcetti che avevano convinto una delle cuoche a regalare loro, per poi riprendere a parlare. «Il palazzo è una vera e propria cittadella, con quartieri e strade. Ha una piazza d'armi enorme al centro, la ho vista oggi. A momenti non si vede l'altro lato.»
«Esagerato, lo si vede benissimo.» disse con tono distratto Ashur.
Erano seduti con la schiena contro un muro baciato dal sole del tardo mattino, nel cortile dietro le cucine che si occupavano dei pasti dei dignitari minori. Davanti a loro un orto ospitava piante aromatiche, cespugli di bacche dolci e alcuni alberi da frutto. Majion osservò il volto dell'amico, come i suoi occhi si spostassero nel seguire cose che solo lui poteva vedere. Assomigliava moltissimo a sua sorella in un certo senso. A parte i rarissimi eventi in cui gli spiriti erano visibili a tutti, e lui ne aveva memoria di uno solo, nel suo villaggio l'unica oltre la wida a vedere quelle creature era Beith. Anche lei guardava sempre qualcosa che solo lei poteva notare, gli occhi colmi di magia.
«Cosa vedi?»
Ashur si morse appena l'angolo del labbro, guardando poi l'amico che, ormai, aveva preso l'abitudine di chiedergli cosa vedesse. «Ci sono delle piccole driadi che spuntano da quegli alberi, giocano tra i rami e sembra che l'albero gradisca. Ci sono piccoli spiriti senza una vera forma tra le foglie, sono piccoli come il pugno di un neonato, brillano e sembrano quasi gemme luminose. Poi c'è sempre quel qualcosa di enorme che occupa tutta la cittadella imperiale, che ha il suo nucleo nel palazzo vero e proprio, ma lo sai che non capisco cosa è. Vedo solo dei pezzi, credo sia troppo grande e potente perché posa vederlo tutto. Qua ci sono così tanti spiriti, ma sono tranquilli, è come se fosse un luogo felice per loro, una specie di casa sicura.»
«Sembra che tu stia meglio.» Il tono del rosso era esitante, mentre fissava il volto del ragazzo seduto accanto a lui.
«Sì.» Ashur si strinse nelle spalle, sorridendo con un angolo delle labbra. «La certezza di non essere pazzo fa miracoli.»
«Non parlavo solo di quello.» Majion sogghignò e il ragazzo lo fissò.
«Va meglio anche quello.» sibilò, stizzito. Girando il capo in modo da vedere il cielo, Ashur sbuffò. In quei giorni quasi non era stato toccato da Shiin, cosa di cui era decisamente felice. Quando il dyku arrivava lui gli preparava il bagno, ascoltando le considerazioni dell'altro su quello che stava accadendo sul confine e raramente, se gli veniva chiesto, gli dava il suo parare.
I passi montani erano affollati, l'esercito delle streghe era assiepato e pronto ad attaccare e già le prime piccole schermaglie stavano avendo atto. La pace durata anni era stata spezzata e non si capiva il perché. In realtà nessuno dei due regni poteva sopportare il peso di una guerra, gli effetti della precedente ancora gravavano sulla popolazione e il numero di morti era stato così spropositato che, per anni, era mancata la semplice forza lavoro per la coltivazione dei campi. Avevano allora importato un numero altissimo di schiavi dai piccoli regni delle montagne, minuscoli principati che vivevano isolati e che non interessava a nessuno annettersi. Questa nuova ondata era quindi inspiegabile, anche perché pareva che non ci fosse solo l'esercito, ma anche un numero di civili molto elevato assiepato lungo quei confini: sembrava quasi un esodo.
Le loro spie e gli esploratori, però, non riuscivano a carpire molto di più e il primo vero attacco era stato scongiurato solo dalla presenza dei draghi che sorvegliavano il confine. Del grande corpo composto da più di cento draghi e dai loro cavalieri, però, ne rimanevano solo poche decine. Era difficile uccidere una di quelle creature, ma non impossibile. L'imperatrice aveva vietato ai pochi cavalieri rimasti di ingaggiare battaglia se non strettamente necessario, ordinando di limitarsi a una minacciosa presenza. Erano tutti lì, ora, i pochi cavalieri rimasti sorvegliavano quella striscia di territorio cercando di evitare ogni possibile scontro diretto. Shiin gli aveva parlato dei piani per gli approvvigionamenti e di come la chiamata alle armi dell'imperatrice avesse raccolto un numero di uomini molto inferiore alle speranze. Non erano passati abbastanza anni perché le nascite riuscissero a rimpolpare le file di tutti quei morti, erano in una situazione critica.
Ogni volta che diceva quelle cose l'uomo lo fissava, sembrava valutarlo, soppesarlo, e lui era certo che dietro quello sguardo calcolatore ci fossero solo guai, per lui.
«Credo andremo in guerra.» disse a mezza voce, portando lo sguardo dalla cupola del cielo a Majion. «Almeno, che porterà me sono quasi certo. Credo speri di potermi usare, di farmi replicare quello che ha fatto il generale Taone.» Quello di Ashur era poco più di un sussurro, ma perfino Majion sapeva quello di cui parlava.
«Ma non sono solo storie? Non è possibile che un solo uomo...»
«Non sono storie.» l'interruppe Ashur. «Ne è quasi morto e il suo corpo è coperto da così tante cicatrici da essere quasi mostruoso. Però è tutto vero, è quello che fa il sangue del Leone.»
Il silenzio del cestrix fu più eloquente di un intero discorso. Dopo svariati minuti Majion posò il braccio sulle spalle dell'amico. «Certo che hai una vita davvero complicata. Io ti auguro di non dover andare in guerra, non per quello e non in quel modo. Anche se so che sei stato cresciuto per quello, no?»
«Sì, ma l'idea non mi rende felice. La cosa dovrebbe riempirmi di vergogna, invece no. Colpa tua, mi hai cambiato troppo.» Cercò di scherzare, ripagato dal sogghigno dell'altro.
«Potresti fare uno sforzo e cambiare un po' di più, magari.»
Cogliendo l'allusione il giovane scosse il capo, sorridendo divertito. «Non così tanto, Majion. Rassegnati.»
L'altro si portò le mani al petto sospirando teatralmente, strappando una risata ad Ashur. Dopo un attimo il volto del ragazzo si raggelò mentre nella sua mente sentiva l'eco della voce del suo padrone. Quella strana certezza che Shiin lo stesse cercando si fece largo in lui. Si alzò e strinse le labbra, facendo un cenno di saluto all'amico si avviò quasi di corsa agli appartamenti del dyku, convinto che l'umore dell'uomo fosse nero e che se non l'avesse trovato lì sarebbe stato solo peggio per lui.
Arrivò agli appartamenti del suo padrone precipitandosi all'interno, con il fiatone, andando subito a riempire la vasca di pietra. Passò solo il tempo necessario a ritrovare un respiro meno affannoso che il dyku entrò.
«Ashur!»
Percepiva chiaramente la rabbia nella voce dell'altro: era furioso. Si affrettò a farsi vedere, inginocchiandosi davanti a lui e prostrandosi. «Padrone, cosa posso fare per servirvi?»
«Aiutami a spogliarmi. Il bagno?»
«La vasca si sta riempiendo, padrone.» disse in tono docile, certo che in quel momento la minima provocazione, vera o presunta, sarebbe sfociata in una punizione per lui. Aveva imparato che l'orgoglio era decisamente meno utile, se usato a sproposito, e quello era uno di quei momenti dove era più salutare dimostrarsi in tutto e per tutto ubbidiente e servizievole.
«La cecità di certi elementi è davvero impossibile!» sibilò Shiin con rabbia mentre, nudo, entrava nella vasca. «Vecchi testoni che negano l'evidenza, guardandomi come se fossi uno sciocco perché, a loro dire, sono troppo giovane per il ruolo che ricopro! Da quando ho dovuto prendere il ruolo di dyku della mia Casa non ho mai, mai, perso uno scontro, piccolo o grande che fosse! Ho riportato solo successi, vincendo gloria e ricchezze. Troppo inesperto e giovane, io!»
Shiin sbatté con violenza il pugno sul bordo della vasca di pietra e Ashur, tra sé, sospirò.
«Padrone,» disse in tono conciliante, quasi dolce «lasciate che quegli stupidi blaterino, il vostro valore e le vostre gesta parlano da sole.»
«Usano la mia età per zittirmi, imponendomi un rispetto che non meritano! Non sanno neanche da che parte è l'est mentre guardano il sole sorgere!»
«E voi mostrate loro che si sbagliano. Immagino che nel consiglio basso sia un continuo abbaiare di cani, siate un lupo in caccia e agite con furbizia. Fatevi tra quelli meno chiassosi gli amici giusti, ricordatevi che non è chi vedete in prima linea il nemico: ogni burattino ha dietro un burattinaio. So per certo che una delle voci contro di voi è il vecchio Quanmin, lui è manipolato dal dyku della Vipera. Puntate a convincere lui, mio signore, è il più scaltro del branco. Cercate di conquistarvi chi muove i fili senza scagliarvi su chi alza la voce.»
Dopo un attimo di silenzio, Shiin si rilassò visibilmente. «Mi saresti utile al mio fianco, al consiglio, ma non posso portarti. Sei scaltro, Ashur. Capisci la politica.» Sospirò, guardando l'altro con attenzione. «Ti hanno istruito bene; mi ricordi Kaidao, a volte.»
Chinando il capo, il giovane rimase in silenzio percependo il mutamento d'umore dell'altro. Era pensoso, la rabbia domata, e lui si sentiva decisamente fuori pericolo.
Aiutò l'altro a lavarsi, mentre il silenzio si faceva rilassato e un mezzo sorriso compariva sul volto di Shiin. Uscendo dalla vasca lo fissò, commentando: «Il dyku della Vipera, quindi.»
Ashur annuì, porgendo un telo morbido al suo padrone e andando a prendere gli abiti puliti.
«Ashur, ho bisogno di muovermi un po'. C'è un cortile per gli addestramenti poco oltre il confine del nostro quartiere, accompagnami.»
«Padrone, siete certo di volere me?»
«Sì, tu non ti farai problemi a rispondere ai miei attacchi e adoro una vera sfida, serve a sfogare la tensione.»
Ashur annuì. Sperava solo di fermarsi veramente, se l'altro glielo avesse ordinato. Non capiva il perché, sapeva solo che quando Shiin gli diceva di fermarsi come delle catene invisibili lo bloccavano, fino a quando non si calmava. Aveva quasi paura di prendere in mano una spada, l'esaltazione che gli cantava nel sangue, infiammandolo dal desiderio di una battaglia cruenta, diventava totalizzante. Perdeva la ragione, il cuore, diventava un essere votato alla morte.
Strinse le labbra, seguendo a un passo di distanza Shiin attraverso i corridoi, notando che i piccoli spiriti diventavano sempre più presenti man mano che andavano nella direzione del cortile. Non solo quello, però, attirò lo sguardo del ragazzo: nelle ombre delle colonne c'erano più guardie del normale, li guardarono senza però fermarli e un'apprensione inspiegabile gli afferrò lo stomaco.
Oltrepassarono una porta di legno traforato a formare draghi intrecciati, entrando in un piccolo cortile in parte coperto da una tettoia. Alle pareti laterali erano appese delle rastrelliere e la sabbia copriva il terreno. Shiin avanzò con tranquillità, ma una voce femminile in cui brillava una nota di divertimento li colse di sorpresa: da dietro alcuni centri per l'arco accatastati in un angolo, emerse l'imperatrice in persona. Non fu quello, però, a far impallidire Ashur: con lei c'era Jiaren.
Si affrettò a mettersi in ginocchio, posando la fronte a terra, imitato da Shiin.
«Shiin, dyku della Casa della Fenice, alzatevi.» Con mosse fluide l'uomo si alzò, guardando con una certa insistenza la ragazza che accompagnava la sua sovrana. Era ovvio chi era, non solo la somiglianza con Ashur, ma il fatto che si trovasse accanto a Shandyan.
«Vi chiedo perdono, mia signora. Non sapevo foste qua e non volevo disturbarvi, me ne vado immediatamente.»
«Sapevo del vostro arrivo e ho dato ordine di lasciarvi passare. Credevate veramente che nessuno vi avrebbe fermato, nel giungere qua, se non avessi voluto parlarvi?»
Ashur, ancora prostrato a terra, capì immediatamente. Gli spiriti avevano comunicato con Shandyan e lei aveva dato ordine alle guardie di lasciarli passare. Quelle creature, ora ne era certo, avevano un legame particolare con la sovrana e nulla di ciò che accadeva nel palazzo le poteva rimanere celato.
«Mi onorate grandemente, mia signora. In cosa posso esservi utile?»
«Non voi, Ashur.» Gli occhi della sovrana si puntarono sul ragazzo prostrato a terra, il peso di quello sguardo penetrante mise a disagio il giovane. «Alzati, forza.»
Ubbidendo a fatica si mise in piedi, tenendo lo sguardo basso. La sovrana si avvicinò e gli prese delicatamente il mento tra le dita, lui si accorse di essere di poco più alto di lei.
«L'illusione sui tuoi occhi è fatta molto bene, immagino quindi che la Casa della Fenice sappia delle tue origini. Ho intuito correttamente, dyku?»
«Sì, mia signora.» Shiin comprese all'istante che Shandyan sapeva, se non tutto, quasi. Mentire sarebbe stato assolutamente inutile.
«Ashur, sei stato tu a parlare loro del tuo passato?»
Il ragazzo strinse le labbra, cercando in tutti i modi di evitare quello sguardo implacabile. Non era feroce, malvagio o spaventoso, tutt'altro: una certa dolcezza brillava in quelle iridi d'onice. Ma era solo un'ombra che ammorbidiva gli spigoli di una volontà inflessibile. «Voglio che tu mi racconti tutto quello che è accaduto da quando sei uscito dai cancelli della Casa del Leone. Non mentire e non tralasciare nulla, sono stata chiara?»
Ashur impallidì, spalancando gli occhi e sentendo il palato improvvisamente arido. Guardò per un solo fuggevole istante la sorella, vedendo uno sguardo gelido e furioso nelle iridi rosse di lei. Un brivido gli percorse la pelle, ghiacciandolo.
«Mia imperatrice, vi supplico, sono solo un granello di polvere indegno dei vostri stivali, ora. Non c'è nulla di quello che mi è accaduto che possa in qualche modo essere interessante per voi.»
«Quello lo deciderò io dopo aver ascoltato, vuoi forse disubbidire?»
Nel dire quelle parole la mano della donna lasciò il volto di Ashur, poi lei si voltò andando a sedersi su una piccola panca all'ombra della tettoia. «Venite, il sole è caldo oggi e ho idea sarà una lunga storia.»
Jiaren e Shiin si misero ai due lati dell'imperatrice, in piedi, e Ashur rimase davanti a lei. Da quella posizione Shandyan osservò con attenzione Ashur, studiando ciò che solo lei vedeva. Il dono del drago le permetteva anche di osservare le connessioni tra le persone, gli eventi, il passato e il futuro. Certo, non sempre e certamente non chiaramente in ogni occasione, ma vedeva distintamente che Ashur era ormai legato alla figura di Shiin in modo assoluto, una grossa linea oscura sembrava avvolgere come una catena la figura del ragazzo, per unirsi al dyku in un punto solo, sul cuore.
Ashur deglutì più volte, aprendo e chiudendo i pugni, sentendo le gambe improvvisamente molli. Non poteva raccontare tutto quello davanti a Jiaren, non poteva lasciare che lei sentisse, ma non poteva chiedere venisse allontanata. Era la pupilla dell'imperatrice, oltre che una nobile, l'erede di una Casa. Sentiva il sentimento della sorella come un'emanazione quasi fisica: bruciava, dolorosamente, nel suo cuore. Sapeva che era stupido, ma aveva sempre sognato, in un punto celato della sua anima, che Jiaren almeno non lo odiasse. Il disprezzo, essere giustamente ignorato, ma quell'odio feroce no, non se l'era davvero aspettato. L'immagine della bambina che gli prendeva la mano, della ragazzina che gli faceva scherzi e che pretendeva lui giocasse con lei era solo un ricordo, ormai. La realtà era quella giovane donna, armata e dallo sguardo intenso e fiero, ribollente d'odio, puntato su di lui. Lei doveva aver superato l'iniziazione, aver portato la spada alla luce e siglato il contratto con la dea, al contrario di lui che aveva fallito. Si sentiva soffocare, la lingua incollata al palato e i denti così serrati da scricchiolare. No, urlava dentro di sé, incapace di articolare una sola parola.
Non poteva chiedergli di raccontare del bordello, dei clienti, di come si fosse piegato e arreso a quella vita, non davanti a Jiaren. Soffocando le emozioni cercò di respirare, di calmarsi.
«Avanti, Ashur, parla.»
Quelle parole lo colpirono come una frustata, facendolo sussultare. Non aveva scelta, non aveva mai una scelta, in realtà.
Lentamente, parola dopo parola, raccontò ogni cosa, come se non fosse accaduto a lui narrò di come avesse cercato di togliersi la vita e di come l'avessero drogato con l'erba nera. Parlò del Loto, del suo ruolo, di come avesse salvato la vita a Shiin, cercando di evitare i particolari il più possibile, ma non potendo evitare di rendere noto quello per cui era stato venduto al bordello e che aveva fatto. Sentiva la vergogna pesargli addosso, il volto caldo per il rossore che lo pervadeva. Per quanto potesse essere poco comune e mal visto che Shiin avesse un concubino, un uomo, la sua posizione e i suoi onori lo proteggevano, fintanto che non ostentava quell'inclinazione. Chi era in colpa, chi era sporco, era lui.
«Una puttana. Una schifosa puttana.» Il tono colmo di disprezzo di Jiaren lo ferì, ma rimase in silenzio.
Shandyan annuì tra sé, molti dettagli le erano più chiari, ora. La città portuale era protetta dai sigilli del triunvirato e questo spiegava come mai fosse stato così difficile rintracciarlo. Inoltre doveva ammettere che non avrebbe mai pensato che il ragazzo finisse in un bordello: proprio per la sua bellezza era stata più incline a pensare a un'asta privata, in caso. Un gioiello conteso tra ricchi mercanti, piccoli nobili e proprietari arricchiti.
Jiaren fece un passo avanti, guardando Ashur piena di astio.
«Sei una puttana. La morte sarebbe stata l'unica cosa che un vigliacco come te, un rifiuto simile, avrebbe dovuto volere e invece no! Spero che mio padre non scopra mai nulla, che nessuna voce gli arrivi, per colpa della tua esistenza hai rovinato la sua vita e quella di mia madre! Sei un porco! Muori e risparmiaci la vergogna del saperti in vita!»
La mano della ragazza scattò e colpì il volto di Ashur, lo schiocco sonoro sembrò rimbalzare sui muri del piccolo cortine d'allenamento. La mano di lei si mosse di nuovo per colpire, ma Ashur le afferrò il polso, bloccandolo. Non era più una nobile, era solo sua sorella in quel momento, e anche lui aveva dimenticato dove si trovavano.
«Jiaren!» Ashur sibilò, furioso, alla sorella. «Io non ho nessuna intenzione di morire, meglio che ti abitui all'idea e lavati la bocca con il sapone! Cosa direbbe nostra madre sentendoti parlare così?»
«Mi darebbe ragione! Non permetterti mai più di chiamarla madre, stupida puttana!» con uno strattone la ragazza liberò il polso, portando la mano all'elsa che aveva al fianco.
«Fermati!» Imperioso, l'ordine la bloccò. Shandyan si alzò, le labbra strette, portandosi tra i due fratelli. Shiin era pietrificato, immobile, senza sapere come intervenire.
«Mia signora!» Jiaren protestò con veemenza. «Lasciate che gli dia una lezione! Questo... questo rifiuto ha dimenticato il suo posto!»
«E tu il tuo.» L'imperatrice si spostò in modo da vedere entrambi i giovani, notando come la rabbia fiorisse anche negli occhi di Ashur.
«Chiedo perdono, mia signora.» Disse però il giovane. Ashur chinò il capo, consapevole ancora una volta della sua posizione.
Jiaren, però, alzò il volto con orgoglio. «Chiedo di poter punire questo immondo rifiuto, mi ha mancato di rispetto.»
L'imperatrice valutò lo sguardo della ragazza, poi si mosse fino a raggiungere la rastrelliera e afferrare due spade da allenamento, porgendone una ad Ashur e una a Jiaren. «Affrontatevi ad armi pari, se riesci a batterlo ti prometto che sarà duramente punito per averti mancato di rispetto. In caso contrario sarai tu a scusarti con lui.»
Ashur fissò la spada, scuotendo appena il capo. «Mia signora, non credo che sia giusto. Ho mancato di rispetto a una nobile e merito la punizione.» La voce gli uscì in un soffio. Temeva di perdere il controllo, anzi, ne era certo. Se avesse fatto del male alla sorella non avrebbe mai potuto perdonasi, nulla al mondo avrebbe potuto fargli dimenticare un simile peccato.
«Ashur, decido io ciò che è giusto. Sono spade di legno da allenamento, non vi farete male.» Apparentemente aveva colto i timori del giovane e si spostò, indicando la sabbia davanti a loro. «Andate!» Ordinò seccamente, ai due non rimase che obbedire.
Gli sguardi dei due fratelli erano molto diversi: in Jiaren la voglia di combattere premeva assieme al cupo desiderio di battere il fratello. L'odio che provava per lui, per tutto quello che, per lei, era solo colpa di Ashur, traspariva così chiaramente da essere solo fonte di altro dolore per il ragazzo.
Ashur amava Jiaren: era sua sorella e, nonostante le parole che aveva detto, nulla avrebbe potuto alterare quel fatto. La ragazza era arrabbiata con lui, lo capiva. Era solo a causa sua se il suo mondo era stato ribaltato, dandole da un lato quello che desiderava, ma distruggendo ogni altra cosa. Taone era malato e, probabilmente, anche Muley soffriva per quello che era accaduto. Tutto il peso del loro feudo si era posato sulle sue giovani spalle: la responsabilità di terre, uomini e abitati era sua e solo sua. Non era stata preparata a nulla di ciò, avrebbe dovuto essere lui a proteggerla, a subentrare al padre e assumersi il ruolo per cui era stato educato e cresciuto. Aveva fallito, però, la prova che Jiaren aveva compiuto.
Si misero in posizione, uno davanti all'altro.
«Mi dispiace.» sussurrò Ashur.
Jiaren lo fissò, sputò nella sabbia ai piedi del fratello e lo attaccò. «Non dispiacerti, cane! Limitati a fare almeno una cosa bene, muori!»
Imponendosi di trattenersi, di limitarsi a parare i colpi violenti e rapidi di Jiaren, Ashur poté osservare come attorno alla sorella si stesse formando un alone scuro, simile a fumo nero, che sulla schiena appariva come abbozzate ali di corvo. Resistette all'impulso di lasciarsi andare e combattere con ogni forza. Lottando su due fronti, però, mantenere la difesa era impossibile. La guerra interiore contro la marea che cercava di salire, contro quel desiderio feroce di violenza, stava diventando sempre più grande occupando ogni minuto di più la sua mente. Penalizzato nello scontro fisico da quello sforzo, Jiaren trovò un varco in una difesa altrimenti perfetta: la lama di legno colpì di punta una spalla di Ashur e un lampo di dolore accecò il ragazzo.
Ogni scintilla di raziocinio, in Ashur, scomparve. Sul suo volto gli apparve un sorriso feroce, macabro, e gli occhi persero l'illusione che li celava divenendo tizzoni ardenti. Incurante di ogni cosa, di chi fosse il suo avversario, al dolore, iniziò ad attaccare senza tregua. Un'identica espressione si disegnò sul volto della sorella mentre il suono delle lame di legno che cozzavano diventava fragoroso, rimbalzando contro i confini del cortile. Una velocità e una ferocia inumane presero ad animare il combattimento, mentre sotto gli occhi di Shiin entrambi i fratelli iniziavano a essere avvolti da quella specie di fumo nero, nulla più, per lui, di un'ombra che appannava i lineamenti dei due giovani.
«Mia signora, credo che potrebbe essere pericoloso.»
«Non temete, dyku. Voi potete fermare Ashur e Jiaren mi obbedirà, non si uccideranno l'un l'altro. Non oggi, almeno.»
Shiin annuì, del resto non poteva certo fare molto più che ubbidire alla sua imperatrice, e riportò lo sguardo sullo scontro. Le spade di legno non erano davvero affilate, nonostante fossero indurite con il fuoco non avrebbero dovuto tagliare, ma quella specie di fumo aveva avvolto anche le lame. Ferite superficiali avevano iniziato ad apparire su entrambi i fratelli, immersi nella furiosa estasi dello scontro, completamente incuranti di ogni cosa che non fosse abbattere l'avversario. Gli occhi del dyku seguivano con attenzione gli scambi talmente rapidi da essere inumai: a volte sembrava quasi che scomparissero per riapparire in posizioni diverse, le spire di fumo che lasciavano le scie dei loro movimenti nell'aria. Sembrava un incontro tra guerrieri leggendari, che con la loro velocità e forza apparivano come divinità. Nell'istante in cui quel pensiero sfiorò la mente del dyku un brivido di gelo gli scivolò per un istante lungo la schiena, certo che lui e l'imperatrice non fossero gli unici a osservare quello scontro. Qualcosa di potente era lì, con loro, qualcosa a cui lui non sapeva dare un nome, ma che poteva percepire nonostante fosse privo della seconda vista.
Ashur iniziò a ridere.
Una risata bassa, gorgogliante e folle gli danzò sulle labbra: un avversario degno di lui, finalmente. Si impegnò sempre di più mentre l'istinto che lo spingeva a eliminare l'altro diventava a ogni istante che passava più prepotente: il suo unico scopo era la vittoria e tutte le sue energie erano impiegate in tal senso. Non cercava più di arginare quel fiume di fuoco che gli pervadeva l'anima, il desiderio di sangue, anzi. Incalzò l'avversario senza posa, iniziando a spingerlo verso il muro. Ogni volta, però, Jiaren schivava agilmente, fluida come l'acqua gli sfuggiva tornando verso il centro e continuando quella danza che sapeva di morte con lui. Corvi e spiriti iniziarono ad assieparsi sui tetti, silenziosi, i piccoli occhi che fissavano la battaglia sotto di loro. La mente di Jiaren manteneva un angolo di lucidità in cui le domande si affollavano: com'era possibile che Ashur possedesse il dono del Clan? Eppure era innegabile.
Il sole si mosse nel cielo, ma i due non sentivamo fame, fatica o sete, pervasi dallo spirito dei corvi divini della dea erano instancabili. La strana foschia si accumulava sulle lame di legno, dando loro un filo innaturale che sibilava a ogni contatto. Come come note di una campana che suonava dall'aldilà, lo scontro delle loro energie causava bassi rintocchi simili a scoppi sonori.
Ormai combattevano nel silenzio più assoluto, i volti pervasi da quella luce quasi demoniaca e bramosa. Le loro capacità parevano equilibrate, eppure, lentamente, Ashur prese vantaggio sulla sorella. L'esperienza, l'età, o forse il maggior potere che sembrava scorrere in lui, mise lentamente fine a quell'equilibrio che, per ore, aveva tenuto in stallo i due combattenti. La tensione vibrava nell'aria, quello spettacolo sapeva di potenze fuori da ogni controllo, mentre l'immagine delle dame corvo, le leggendarie guerriere mortali che seguivano la dea seminando morte e distruzione in suo nome, fioriva nella mente di chi vedeva i due scontrarsi. La presenza della dea sembrò farsi sempre più presente e viva, un manto oscuro che pervadeva di follia e sete di sangue ogni cosa. Nella mente del giovane quella figura divenne immensa, come durante l'iniziazione fu pervaso dalla sua presenza e ogni aggancio alla realtà fu perso. Con un colpo più veloce, unito a una finta inaspettata, Ashur si infilò sotto la guardia della sorella, strappandole l'arma dalla mano. La mossa si sarebbe completata in un battito di ciglia, avrebbe sgozzato Jiaren come un animale.
«Ashur!»
L'urlo imperativo di Shiin penetrò nella sua mente, bloccandolo a un soffio dal commettere il peggiore dei peccati. Jiaren vide la lotta interiore del fratello: la brama di sangue lottare contro l'ordine e cedere alla voce del padrone, poi gli occhi di Ashur tornarono presenti e consapevoli e lasciò la presa, facendo un passo indietro. L'ombra della dea lasciò il suo spirito e un senso di vuoto per un istante lo attanagliò. Poi il sollievo di essere di nuovo se stesso sostituì quella sensazione.
La stanchezza lo colse all'improvviso e le sue gambe cedettero. Crollò nella sabbia, davanti alla sorella a sua volta stremata, seduta poco lontano da lui.
Aveva vinto, ma era arrivato a un soffio dall'ucciderla. Era una dei più amari trionfi della sua vita, pensò, mentre lo sguardo di Jiaren si accendeva di nuovo odio mentre lo fissava.  


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