-9- Lo spirito della pestilenza

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Tra le mani di Ashur il vecchio bracciale di cuoio si stava rapidamente bagnando di lacrime. Avrebbe voluto salutarlo, vederlo un'ultima volta, avrebbe voluto dirgli grazie. Fargli capire quanto era stato importante per lui in quei mesi, ripetergli quella parola infinite volte, ma non aveva potuto farlo.
Si passò il dorso della mano sugli occhi, sentendo il dolore di quella separazione scavare in lui con artigli che laceravano crudelmente. Majion era stato venduto, Zunya si rifiutava di rivelare a chi, o di dire qualunque cosa sulla fine che aveva fatto e pareva che nessuno avesse idea di chi avesse sborsato tutto quel denaro per il Cestrix.
Aveva passato quasi tutto il giorno con la padrona: la donna aveva voluto giocare, a modo suo, ed era di nuovo diventato la tavolozza su cui la piccola Rika si esercitava. Chenien era rimasta ancora una volta stupita di come Ashur riuscisse a passare da donna e assieme alla bambina l'avevano trattato come una bambola, vestendolo e truccandolo, passando le ore ad acconciargli i capelli mentre lui desiderava solo sprofondare, tra l'imbarazzato e l'arrabbiato. Quando l'aveva finalmente congedato il giovane era andato a cercare Majion, ma la cuoca l'aveva intercettato e, con poche parole, gli aveva riferito l'accaduto, dicendogli che l'altro aveva lasciato qualcosa per lui. Gli aveva posato la mano sulla spalla, osservando il pallore improvviso del ragazzo e gli occhi improvvisamente colmi di lacrime trattenute.
Era corso da Zunya, l'espressione piena di furia e lo sguardo acceso e di qualcuno che non era più da quando era stato esiliato negli occhi scarlatti, accesi come fiamme. Era il volto di un Ashur abituato a comandare e a essere obbedito. Con le spalle squadrate e gli occhi accesi aveva affrontato il po'shin, pretendendo una risposta e ottenendo solo di impattare con la realtà: il padrone l'aveva schiaffeggiato con forza, facendogli immediatamente ricordare cos'era adesso. I due colpi violenti al viso gli avevano fatto chinare il capo, mentre si imponeva di trattenere la rabbia e il desiderio di attaccare al muro quell'uomo ce aveva mentito a Majion. Lui era solo uno schiavo e non poteva pretendere nulla, non poteva indignarsi per la mancanza di parola che il padrone aveva avuto verso un altro schiavo. Con parole aspre e l'avvertimento di non osare mai più comportarsi a quel modo se non voleva essere punito, Zunya l'aveva congedato, dicendogli di prendersi un po' di tempo per riflettere, capiva che era evidentemente sconvolto e che per quell'unica volta lo perdonava.
Aveva dovuto ringraziarlo, ingoiando la furia e la voglia di colpire quel bugiardo fino a fargli sputare i denti, di picchiarlo e tagliargli la gola con il pugnale che Zunya teneva alla cintura. Aveva dovuto imporsi di non portare all'atto pratico ciò che immaginava: si vedeva mentre premeva la lama dritta, dalla punta acuminata, contro la gola di Zunya, aprendola e sentendo il sangue caldo che schizzava dalla ferita. Aveva tremato nello sforzo necessario a frenarsi, non aveva mai provato tutta quell'ira.
Ora, accarezzando il bracciale di cuoio e con il viso solcato da lacrime di rabbia e dolore, pensava a quanto ingiusto fosse stato tutto quello. Majion era così vicino alla libertà, era a un soffio da essa e tutto, invece, era scomparso nel nulla. La somma che avevano offerto per lui era talmente alta che rifiutarla era stato impensabile per il po'shin, del resto la promessa a uno schiavo non aveva un valore giuridico, e non era nemmeno un vincolo d'onore. Era solo una gentilezza che poteva non essere mantenuta davanti una simile offerta.
Il pollice scorreva sulle incisioni a fuoco del bracciale, erano simboli della terra natia di Majion, a lui sconosciuti. Erano rovinati e il cuoio segnato, vecchio, eppure il fatto che avesse lasciato a lui l'unico ricordo che gli era rimasto della sua terra gli straziava il cuore. Avevano litigato, l'aveva anche odiato a volte, soprattutto quando lo costringeva ad ascoltare le sue lezioni che agli inizi erano imbarazzanti e disonorevoli ai suoi occhi. L'aveva disprezzato. L'aveva considerato un essere vanesio e privo di qualunque dignità, poi aveva capito il tipo d'uomo che Majion era. Aveva compreso quello che si celava sotto quel sorriso all'apparenza lezioso, irriverente e canzonatorio. Gli era stato risparmiata la sofferenza fisica e l'umiliazione grazie a lui. Quando aveva davvero capito l'aveva ammirato, guardando oltre il velo della sua educazione, scostando quelle che l'altro definiva idiozie dalla sua mente. No, non erano idiozie, non tutte almeno, ma il mondo era troppo vario per poterlo guardare solo attraverso quegli insegnamenti così dogmatici e chiusi.
Majion non rientrava in nessuno di quei precetti di lealtà e onore, non in modo palese, almeno. Era una puttana nel vero senso della parola, capace di vendersi e di ammaliare, a cui il sesso non dispiaceva affatto. Non disdegnava il sesso promiscuo, traendo spesso autentico piacere dall'incontro con i clienti, eppure quello che l'aveva marchiato come spregevole ai suoi occhi alla fine era diventata una cosa irrilevante.
L'uomo era capace di sacrificarsi in modi che lui non aveva mai immaginato, aveva una forza e una risolutezza che aveva solo potuto ammirare, sperando di poter, un giorno, possedere una simile forza d'animo. E ora l'avevano venduto, quando era così vicino alla libertà da poterla quasi toccare.
Gli aveva parlato spesso del suo paese, aveva visto i suoi occhi illuminarsi malinconici alle descrizioni delle terre lontane che gli avevano dato i natali e, a volte, l'aveva sentito cantare a mezza voce in una lingua musicale e strana. Non aveva mai capito quelle parole, ma ogni volta il suo cuore si stringeva, sentendo una nostalgia dolorosa che trasudava da esse. Era il lamento di un uomo che desiderava la sua terra e il suo cielo, ma che poteva rivederli solo nel ricordo... questa era la risposta che Majion gli aveva dato quando aveva chiesto di cosa parlassero quelle canzoni.
Alzò lo sguardo, il tramonto era vicino e lui doveva presentarsi alla locanda. Alzò le dita, sfiorando il collare che gli circondava la gola, afferrandone i bordi e, per un attimo, sentì il sangue ribollire. Era una proprietà a sua volta, chi gli avrebbe dato la certezza che Zunya gli avrebbe permesso di riprendersi la sua libertà, un giorno?
Scosse il capo, portando con aria mesta quello che gli era stato lasciato nella sua stanza e scendendo poi nel seminterrato, lavandosi e indossando una veste che gli era stata data per quando intratteneva i clienti. Neppure lui possedeva qualcosa... in realtà aveva solo quello che gli aveva dato Majion; gli abiti che aveva indossato quando era arrivato al Loto erano scomparsi.
Strinse la cintura di stoffa sui fianchi, la veste lunga fino ai polpacci che si incrociava sul davanti di un grigio scuro, quasi nero. Legò i capelli in una coda alta, arrivando nella sala comune dove già alcun avventori stavano iniziando a bere e mangiare.
Chiamato ad alcuni tavoli si impose di sorridere, servendo il vino e lasciando che lo studiassero, evitando con abilità le mani che si allungavano a esaminarlo con troppo entusiasmo. Intravide con la coda dell'occhio il nobile Shiin entrare e dirigersi immediatamente alle salette superiori e Zunya attirò la sua attenzione, indicandogli con l'indice la balconata interna. Congedandosi da chi stava servendo, si diresse dove sapeva di essere atteso: il dyku chiedeva sempre la stessa saletta.
Entrò, il sorriso sulle labbra, inchinandosi e servendo il vino che aveva portato. Osservò il guerriero, notando come un'ombra irritata gli velasse lo sguardo e come i suoi gesti celassero una rabbia controllata.
Certo che qualcosa disturbasse non poco l'altro, Ashur decise di essere il più discreto possibile. Il suo umore non era dei migliori e non era certo di saper fingere se l'altro avesse deciso di sfogarsi con lui in qualche modo. Portò i cibi che aveva imparato essere i preferiti l'altro, versando vino e rimanendo in silenzio, ignorato. La serata si trascinò lenta, il vociare della sala comune udibile e l'umore sempre più nero del nobile che sembrava appestare l'aria.
«Sei silenzioso, Ashur.» le parole distratte di Shiin erano scivolate nella quiete della stanza attraverso quell'umore nero che in essa regnava.
Il giovane si avvicinò, inginocchiandosi accanto al nobile seduto a gambe incrociate sui cuscini e, versandogli altro vino, rispose con tono mite. «Mi sembrate sovrappensiero, nobile Shiin. Non volevo causarvi disturbo con le mie chiacchiere.»
«Cioè anche tu sei di cattivo umore.» il dyku sorrise, una smorfia sghemba, e posò il bicchiere, fissando Ashur. «Lo vedo nei tuoi occhi, non sei ancora capace di fingere così bene. Sembri una bestia ferita e furente sotto quella maschera di serena placidità che hai indossato. I tuoi occhi sembrano sangue vivo che si riversa da una ferita, stasera.»
«Non voglio arrecarvi disturbo con i miei pensieri, sono solo piccole cose.» Ashur sorrise, cercando di dare un tono convincente alle sue parole e posando la bottiglia sul tavolo si avvicinò maggiormente all'altro.
«Piccoli o grandi che siano, stasera i pensieri rimarranno tali, ho idea.» la mano del nobile si posò sulla coscia di Ashur, infilandosi poi nella piega della veste fino a raggiungere la pelle dello schiavo, che si trovò accarezzato nell'intimo con una fretta inusuale per l'altro. «Voltati.»
Sapeva cosa si aspettava da lui e, anche se fingere gli era particolarmente pesante quella sera, obbedì. Dare le spalle all'altro era di certo un aiuto, non era certo di poter mantenere quella maschera che Majion gli aveva insegnato a mostrare ai clienti. Il pensiero dell'amico lo scosse, facendogli stringere lo stomaco e risvegliando il suo dolore.
Fu l'intrusione indelicata a riscuoterlo. Soffocò un grido, irrigidendosi istintivamente e cercando di scansarsi. Shiin aveva iniziato a penetrarlo senza cura, premendolo a terra con una mano tra le scapole quando si era mosso. In un lampo d'intuito capì che stava sfogando su di lui la rabbia, perché ferire lui non era grave, perché uno schiavo non era importante. Poteva essere usato a quel modo... era solo un oggetto.
Trattenne il grido successivo e quello dopo ancora, la veste tirata sui fianchi, mentre veniva preso da dietro con brutale e animalesca voglia. Un atto che l'altro usava per liberarsi dei cattivi pensieri, dell'ira, marchiandolo con segni violacei sul corpo, lasciando nella sua anima nuovi semi di umiliazione da dimenticare.
Quando il dyku trovò finalmente la piena soddisfazione, Ashur venne spinto via. Stringendo i denti e tenendo lo sguardo basso tornò a inginocchiarsi vicino al suo cliente, la mano che si sistemava la veste.
«Desiderate qualcosa, nobile Shiin?» domandò con voce bassa pochi minuti dopo, il tempo di assestarsi. «Cibo? Vino?»
«Guardami.» la mano di Shiin scattò quando quando Ashur non obbedì, colpendolo con uno schiaffo. «Ho detto di guardarmi, Ashur, voglio vedere i tuoi occhi adesso. La tua voce mente, il tuo corpo anche, ma i tuoi occhi non mentono mai e sono quelli che voglio guardare, adesso.»
Le mani si strinsero a pugno, poi Ashur alzò lentamente il volto, incontrando lo sguardo di Shiin, che gli sorrise in modo distante.
«Non sono gli occhi di uno schiavo, i tuoi. Fingi, lo fai anche bene, celi la tua anima dietro modi sottomessi, ma tu non lo sei, vero Ashur? Il tuo sguardo è pieno di furia. Dimmi: potendo, cosa mi faresti?»
«Non posso fare nulla più che appagarvi, signore.» disse cercando di non ringhiare quella risposta. Imponendosi di apparire docile e ubbidiente. «Siete qua per trovare svago e soddisfazione, e il mio compito è che troviate tutto ciò che cercate.»
La mano del dyku scese in una carezza fermando due dita sulle labbra dello schiavo, premendo leggermente «Non è quello che ti ho chiesto, Ashur. Cosa ti hanno insegnato a fare a chi ti manca di rispetto?» Shiin osservò una scintilla quasi folle apparire in quelle iridi scarlatte e sorrise: voleva sapere, aveva deciso in quel momento che era stanco di aspettare. Desiderava vedere ciò che il ragazzo nascondeva dietro quella maschera, le pose e le moine, dietro i sorrisi languidi. Doveva saperlo.
«Sono uno schiavo, mio signore. Non mi si può mancare di rispetto...» le parole uscirono con difficoltà, le mani del ragazzo che si stringevano spasmodicamente alla stoffa e Shiin accentuò il suo sorriso.
«Si dice che l'origine della famiglia della Fenice sia uno spirito. Un essere che costringeva le sue vittime ad affrontare il nero della loro anima, uccidendole con la loro stessa oscurità ma che, un giorno, trovò una donna così pura e luminosa, così totalmente priva di ombre, che se ne innamorò. Io sento la menzogna, Ashur. O meglio, capisco molto più di quello che mi viene detto. Smettila di mentirmi.» attirò a sé il ragazzo, spingendolo poi al suolo. «Chi sei davvero?»
Ashur fissò il nobile, l'istinto che gli urlava imperioso di rimanere in silenzio. Rivelarlo, dire chi in realtà fosse, poteva essere decisamente controproducente, di quello era certo. Shiin era troppo intelligente per non cercare di sfruttare la cosa e anche se era stato scacciato e gli era stato tolto il nome, forse poteva essere usato contro la casa del Leone e lui non lo voleva. Aveva imparato molto della politica dal dyku, senza volerlo era stato un ottimo mentore. I giochi di comando erano a volte sottili, altre brutali, ma l'obbiettivo era sempre uno: dominare e controllare, avere il potere. Rimanere in silenzio era l'unica soluzione al momento, questo gli diceva sia l'istinto che la ragione e lui reagì cercando il modo di distrarre l'altro, e conosceva un solo stratagemma che poteva usare liberamente. Afferrò la testa di Shiin, affondando le dita tra i capelli del nobile e invertendo le posizioni, sentendo la sorpresa dell'altro a quel gesto. Si sedete sullo stomaco del dyku, tenendo la bocca sulla sua in un bacio feroce che sapeva di passione selvaggia. Con un gesto rapido si spogliò completamente, lasciando la veste al suolo accanto a sé, sovrastando il cliente con lo sguardo acceso di lussuria, infiammato da così tante emozioni che fingere fossero solo passione in quel momento gli risultava fin troppo facile. Sorrise, un lieve stirarsi delle labbra, mettendosi dritto e aprendo a sua volta la ricca veste del nobile, portando una mano al sesso dell'uomo e un'altra a se stesso, preparandosi per accoglierlo in lui senza dover di nuovo patire dolore.
«Ashur...» un nome detto con voce bassa e roca, una specie di invocazione che usciva dalla bocca del dyku, come stregato da quella visione, da quell'espressione che lo stava incatenando. «Ashur...!» ripeté, afferrando i fianchi dell'altro, impaziente, guardando quel corpo così bianco e a modo suo delicato. Ma era forte, glielo aveva appena dimostrato. Sapeva, e ora ne era certo dopo il modo in cui aveva ribaltato le loro posizioni, che aveva ricevuto un addestramento militare, ma non il genere dato a un soldato: il tipo che si riservava a un nobile, con la conoscenza delle arti marziali più antiche.
"Chi sei, Ashur?" si chiese il dyku sentendosi il cuore in gola sotto quello sguardo che sapeva di una lussuria selvaggia e divorante... lo schiavo era come un fuoco, e lui era una falena. "Chi sei, ragazzo, per avere tutto questo potere? Per ogni dio e spirito, devo scoprirlo!" pensò, sentendosi ammaliato da quel fulgore che poteva rivelarsi pericoloso.
Con un movimento graduale, fissando Shiin negli occhi e sentendo il rossore traditore del proprio viso, Ashur si impalò sull'altro, calandosi sul sesso del nobile che sembrava fremere di piacere e d'impazienza. Si mosse inizialmente con cautela, abituandosi a quella che era anche per lui una novità, una posizione in cui nessuno, fino a quel momento, l'aveva voluto. S'inarcò, gemendo e mordendosi un angolo del labbro inferiore, sentendo le sensazioni esplodere lungo il corpo e il piacere invaderlo. Le mani di Shiin lo afferrarono per i fianchi spingendolo contro di sé con forza, ma il giovane si oppose, imponendo il ritmo che preferiva sull'altro. Si mosse lentamente, sapendo quanto per il dyku fosse quasi una tortura sentirlo scivolare così piano su di lui, mentre a sua volta iniziò a gemere, sentendo lo sfregamento interno scatenare a più riprese un'ondata di piacere.
«Piano... troppo piano!»
Alla protesta di Shiin, Ashur si limitò a guardarlo con aria maliziosa, prendendo una delle mani dell'altro e baciandone il palmo, percorrendolo poi con la punta della lingua, piano, senza mai abbandonare quello sguardo e colmando lo spazio tra loro di allusiva lussuria, in quella che era una tortura di piacere per entrambi. Fremette, sentendo il corpo dell'uomo sotto di lui tendersi allo spasimo, la mano che teneva tornare con un gesto quasi rabbioso sul suo fianco per tirarlo con forza.
Continuando a muoversi, incitato e costretto ad aumentare il ritmo, si sporse in avanti un poco, per poi calare un'ultima volta sul nobile sotto di lui, sentendo che ancora una volta riversava il frutto della passione in lui.
«Basta.» Shiin disse, spostando Ashur e invertendo le loro posizioni, bloccandogli i polsi ai lati del capo, premendoli con il suo peso al suolo.
«Come volete voi, signore...» falsamente dolce, così lezioso nella sua arrendevolezza e docilità da scatenare nuovi brividi di desiderio nel nobile, quella voce bassa accarezzò i nervi di Shiin come una scossa piena di promesse lussuriose, facendolo fremere vistosamente.
Impiegò parecchio a riprendersi abbastanza da poter parlare; la mente era ancora pervasa dal piacere, ma infine la ragione tornò a prevalere. «Sei un piccolo demonio, lo sai?» disse, abbassandosi e mormorandogli quelle parole all'orecchio «È la prima volta che permetto a qualcuno di stare sopra di me, è la prima volta che qualcuno riesce a invertire le posizioni. Quando hai imparato l'arte della lotta senza armi, Ashur? Cosa mi nascondi sotto questo aspetto così docile?» le labbra di Shiin scesero e baciarono, succhiarono il lobo dell'orecchio dello schiavo, mordicchiandolo «Credevo fossi una bellissima bambola arresa al suo destino, poi vedo questo. No, non me lo dirai, lo so. Troverai il modo di svicolare ancora una volta e sai benissimo che non sono la persona che ti obbligherà a parlare...» un "per ora" rimase sospeso tra loro, gelando il sangue di Ashur che nascose la cosa strofinandosi contro il dyku.
«Fortuna, nobile Shiin, non ve l'aspettavate, credo...» un mormorio lascivo, mentre quel corpo che si strofinava su di lui ben presto risvegliò la carne di Shiin. Era giovane e aveva tra le mani uno schiavo che aveva tutte le intenzioni di tenerlo distratto il più possibile, usando con abilità le doti dell'arte amatoria.
Majion era stato un buon maestro e Ashur usò ogni cosa che gli era stata insegnata, anche quelle che considerava vergognose. Quello, o rischiare di dover dire la verità al dyku, e raccontare la sua storia non era tra le opzioni che voleva contemplare.

*****

Quando Shiin lasciò il Loto era ormai l'alba e Ashur aveva dato fondo a ogni energia. Si sentiva sfinito, sporco e dolorante. Aveva perso del sangue, poco prima del sorgere del sole, ma aveva ignorato la cosa e ora con la vesta allacciata in malo modo si dirigeva con passo malfermo e una smorfia di dolore all'angolo della bocca verso il seminterrato. A volte preparavano alcune tinozze e se era fortunato ne avrebbe trovata una che poteva usare per lavarsi.
«Tutto bene?» Ashur alzò lo sguardo: Maia era lì, davanti a lui, con una cesta colma di bucato da fare sotto il braccio.
Il ragazzo annuì, regalandole un piccolo sorriso. «Sono solo stanco.»
La ragazza annuì ma posò la cesta in un angolo e gli indicò uno sgabello. «Allora ti serve lo stesso una mano, dico alla cuoca che il bucato lo faccio dopo, che ti preparo il bagno... sei il suo beniamino, ho idea che in poco tempo avrai una bella tinozza piena d'acqua bollente!» la ragazza, passando, allo sguardo di gratitudine del giovane sorrise elargendogli una leggera carezza sulla spalla, correndo al piano di sopra. In altre circostanze l'avrebbe aiutata, ma ogni passo era doloroso, ancora. Si sedette con cautela, posando il capo al muro e strofinandosi il viso con le mani, sentendo la pelle calda al tatto.
Si sentiva intirizzito e decisamente stanco, e anche quel calore del volto non erano poi così normale. Probabilmente era solo la stanchezza, si disse.

*****

La luce del braciere illuminava con le braci rosseggianti il volto dell'odiwa, chinato su di esso. Non c'era fuoco, solo carboni su cui era stato messo a bruciare dell'incenso e il profumo s'innalzava nel piccolo tempio della casa del Leone.
La cantilena che usciva dalle labbra sottili e pallide si fece più forte mentre il sonaglio che teneva tra le dita suonava imperioso a ogni gesto. Il sudore gli imperlava la fronte e con un'ultima nota, dalle vibrazioni talmente oscure che avrebbe messo i brividi a chiunque, ogni luce si spense.
Nel buio e nel silenzio risuonò un singolo rintocco e una fiammella verde prese vita dove fino a un attimo prima c'era la luce del braciere.
«Mi hai cercato.» Non era una domanda, quanto un'affermazione annoiata. Quella voce sfrigolante sembrò arrivare da ogni punto della stanza e l'uomo, abbigliato con i paramenti sacri su cui erano stati cuciti incantesimi di protezioni, alzò lo sguardo sulla lingua di fuoco.
«Per il potere che ho evocato, io ti comando.»
«La conosciamo questa parte, Mengwe, possiamo passare alle cose interessanti?»
A quelle parole l'odiwa alzò un sopracciglio. «Il rituale va concluso.»
«Ma quanto sei noioso, li fanno tutti così quelli come voi o è un tuo tratto distintivo?»
Ignorando la provocazione dello spirito, le mani dell'uomo iniziarono a formare dei sigilli mentre parole della lingua magica si formavano sulle sue labbra: suono aspri e sibilanti, che fecero scendere il gelo nella sala mentre la fiammella si muoveva irrequieta sopra il braciere.
«Ora ho fatto.» esclamò l'uomo battendo tre volte le mani. «Ho bisogno del tuo aiuto, e vedi di non fallire, stavolta. O potrei non limitarmi a vincolarti a una candela.»
«Quello è stato un colpo basso, amico! Tu volevi scomparisse, no?»
«Morisse, Bing-mò.» l'odiwa sospirò. «Ed è vivo e vegeto, da qualche parte. Respira, mangia... dicono sia un sintomo di una certa vitalità.» L'uomo fece un gesto e la fiammella sfrigolò. Un verso di dolore ultraterreno giunse alle orecchie dell'umano che sorrise, compiaciuto.
«È intervenuta lei! LEI! Capisci? Cosa avrei dovuto fare, morire?»
Un altro gesto, un nuovo grido di dolore, e l'odiwa sospirò. «Non sarebbe stata una gran perdita, forse. Ma non sono qua per rimarcare i tuoi insuccessi, ho un nuovo compito per te e stavolta potresti apprezzarlo.»
«Cosa vuoi che faccia?»
«Taone, voglio che la sua... malattia continui. Il dolore per la perdita di quell'idiota di suo figlio lo sta logorando, non deve più essere in grado di comandare le sue armate. Il nero velo della disperazione non dovrà mai alzarsi da lui... fino al momento in cui si toglierà la vita. So che ci vorrà tempo, ma è il modo più sicuro.»
Lo spirito della malattia sembrò vibrare e, anche se era privo di fattezze, Mengwe percepì un sorriso affamato e crudele.
«Questo compito mi appaga molto di più, decisamente.»
«Lascio che tu scelga il modo, Bing-mò, ma non deludermi anche stavolta o arderai sulla punta di una candela per sempre, sono stato chiaro?»
Lo sfrigolio divenne più forte e la fiamma prese forza, divenendo alta quanta un uomo. I toni del verde di quel fuoco erano quelli del putridume marcescente di una palude e si assestarono in una figura vagamente umana. «Non ti deluderò, Mengwe.» Ondeggiando si spense di colpo e la luce del braciere tornò a illuminare la piccola stanza di legno, dove pergamene rituali erano appese ai muri.
Mengwe si alzò, sorridendo. Doveva solo avere pazienza, le cose sarebbero accadute come desiderava lui.  


L'ultima monetaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora