- 25- Taone

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Jiaren guardò la lettera tra le sue mani un'ultima volta prima di entrare al cospetto dell'imperatrice.
La sovrana l'attendeva nella sua tenda e nell'inginocchiarsi davanti a lei la ragazza sentì un lieve giramento di testa. Non si era ancora ripresa dalla battaglia, era ancora spossata e ogni sforzo, per quanto piccolo, la prosciugava di ogni energia. Aveva potuto vedere solo nel tardo pomeriggio Ashur, ma il fratello dormiva, febbricitante. L'aveva guardato da dietro la stoffa che divideva la sua branda dalle altre, senza che neppure Majion si accorgesse di lei, e se n'era andata chiedendo a un guaritore cosa avesse quello schiavo. Con aria stanca, probabilmente aveva dormito poco o nulla tanto era stato impegnato con il suo dovere, l'uomo le aveva spiegato che il corpo combatteva l'erba nera, oltre a una profonda spossatezza. Lei aveva annuito ed era andata via, per poi trovare ad attenderla un messaggero sudicio ed esausto davanti alla sua tenda. L'uomo aveva viaggiato a spron battuto per giorni e giorni e, in quel momento, Jiaren si era chiesta se in tutto il regno ci fosse qualcuno con ancora qualche energia. Ovunque guardasse vedeva solo volti scavati e spaventati, espressioni piene di cupi pensieri.
La missiva era di sua madre, la informava della morte del padre. Sapeva che, probabilmente, non avrebbe certo potuto lasciare il campo di battaglia, ma era suo dovere dirglielo. Taone aveva lottato fino alla fine, scriveva Muley, e le sue ultime parole erano state per lei. Lì la scrittura della madre si era fatta tremolante e le macchie che avevano in parte sciolto l'inchiostro erano la prova del pianto incessante che aveva scosso la donna.
Taone l'aveva benedetta, mandandole il suo orgoglio e il suo amore ed esprimendo, con l'ultimo barlume di lucidità, il desiderio che il figlio che non poteva più chiamare tale sapesse che mandava le stesse parole anche a lui.
Lesse tutto ciò senza muovere un solo muscolo, aveva poi congedato l'uomo, invitandolo a rifocillarsi, allontanato l'ancella e, solo allora, era scoppiata in un pianto disperato.
Aveva gridato il suo dolore: sapeva che la sua voce era udita, ma non riusciva a trattenersi. Era troppo, quel dolore era troppo da sopportare. Sentiva l'anima dilaniata dalla perdita, mentre i ricordi del padre le invadevano la mente. Il suo volto, il loro ultimo abbraccio, i suoi occhi gentili.
Grida angosciate fiorivano dalla sua anima, spargendosi come lacrime su un oceano di dolore che le inghiottiva, mescolandole tra di loro.
A ciò si aggiungeva il trauma di quello accaduto sul campo di battaglia: tutta quella devastazione, il sangue, le morti, la follia e la brama che le erano vibrate dentro invocando altro massacro, la presenza della dea che premeva come una montagna contro la sua mente.
Era stato terribile.
Dopo la battaglia si era risvegliata nella sua tenda, svuotata di ogni energia, accudita e circondata dai pochi servitori che aveva con sé.
Non aver potuto chiedere di Ashur se non vagamente, sentendosi sollevata dal sapere che era vivo. Poterlo vedere era stato uno dei motivi che l'avevano spinta a sforzarsi di tornare in piedi al più presto, partecipando alla riunione della sera precedente.
Ora tutto quello, però, era stato cancellato dalla sua mente.
Nella sua testa c'erano solo gli strazianti gemiti che la sua gola non poteva sfogare, l'infinito dolore del suo cuore.
«Cosa accade, per chiedermi udienza con così grande urgenza, Jiaren del Leone?»
La ragazza si bagnò le labbra, deglutendo. «Ho...» la voce le si spezzò e dopo un secondo riprese a parlare, porgendo la lettera alla sua imperatrice, alla sua maestra. «Ho ricevuto questa, mia signora. La mia casa ha bisogno di me.»
Shandyan lesse, mentre sul suo viso la compassione per quella ragazza così giovane e già segnata da grandi dolori si faceva strada. Avrebbe voluto concederle il desiderio del suo cuore, aveva perfettamente capito che era lei, e non il contrario, ad aver bisogno della sua casa. Purtroppo, però, il dovere di un nobile era anche la sua pena.
«Mi dispiace profondamente di non poterti dare il permesso, nobile Jiaren. Purtroppo sei l'unica guida del tuo clan e il tuo dovere è di rimanere qua, dove sono i tuoi uomini e il pericolo, qua dove difenderai le tue terre dall'invasione di queste bestie. I demoni non sono stati vinti, torneranno, e noi dovremo fermarli ancora e ancora, fino a quando non si compirà il volere degli dei.»
Costringendosi a usare un tono distaccato, là dove avrebbe voluto abbracciare la giovane davanti a lei, pallida, con gli occhi segnati dal pianto e la disperazione che le marchiava i lineamenti, Shandyan negò il permesso a Jiaren.
Lentamente la ragazza alzò lo sguardo, le iridi rosse piene di lacrime trattenute a stento.
«Lo capisco, lo immaginavo. Il mio dovere è qua. Mio padre non ha mai mancato a esso, non disonorerò la sua memoria venendo meno a ciò che è il mio compito.» fece una pausa, la voce sottile. «Vi chiedo però un favore, un desiderio. Concedetemi un giorno di lutto, un giorno per piangere il mio signore, mio padre. Concedetemi di passarlo con Ashur, so che ora è nelle mani dei guaritori, vorrei portargli le parole di Taone, anche se sarebbe contro la legge riconoscerlo a quel modo.»
«A volte la legge può essere piegata un poco. Farò in modo che abbiate la possibilità di condividere il peso della perdita con lui, avete fatto così tanto per tutti noi che metterò personalmente a tacere qualunque parola meno che rispettosa su questa mia decisione. Andate pure, avrete il vostro giorno, lo avrete entrambi.»
Jiaren cercò di parlare, ma il nodo in gola le impedì di dire qualunque cosa. Si inchinò, posando la fronte al suolo, poi uscì.
Stringeva di nuovo tra le mani la lettera, mentre si dirigeva da Ashur. Guidata da una delle ancelle dell'imperatrice stava andando da suo fratello per portargli quella notizia. La ragazza venne accompagnata verso una delle più lontane e piccole tende, dove i meno gravi, coloro che abbisognavano solo di qualche cura e riposo, erano accuditi. In uno spazio chiuso da un tendaggio trovò Ashur, profondamente addormentato e vegliato da Majion. L'uomo la guardò, alzandosi immediatamente dallo sgabello e inginocchiandosi.
«Nobile Jiaren, in cosa vi posso servire?»
Al cestrix era bastata un'occhiata per capire che qualcosa non andava, nella giovane. Il viso era pallido, sconvolto, gli occhi gonfi. L'ancella fece alcuni passi indietro, lasciando che la tenda cadesse e si mise a guardia dell'intimità della fanciulla.
«Ho notizie per Ashur.» Mormorò Jiaren.
Majion annuì e mettendo lo sgabello a disposizione della nobile, scosse Ashur fino a svegliarlo. Sbattendo le palpebre il giovane mise a fuoco prima l'amico e poi la sorella, le sorrise, ma dopo un attimo allungò la mano, sfiorando quella di lei.
«Ji, che succede? Non stai bene?»
Lei scosse appena il capo, stropicciando la carta tra le dita. Porse la lettera e Ashur la prese in mano, esitante, per poi aprirla.
Majion vide il volto dell'amico diventare perfino più pallido e le lacrime iniziare a scendere silenziose dal suo volto. Piegò il foglio, lasciandolo in grembo, e tese una mano a Jiaren che gli si gettò tra le braccia, scoppiando in singhiozzi accorati che soffocava contro la spalla di lui.
Majion prese quella lettera, odiando la sua incapacità di leggere la lingua dell'impero, e uscì da quel piccolo spazio delimitato da tende chiare. Guardò l'ancella, il suo viso triste, e chinò il capo davanti a lei.
«Posso chiedere cosa accade, gentile dama?»
«Taone del Leone, il grande generale delle mille fiere, ci ha lasciato per incamminarsi lungo i sentieri dei cieli.»
In quelle parole c'era la conferma dei sospetti del cestrix, che annuì mestamente. «Vi ringrazio gentile signora.»
La donna annuì e si guardò attorno attorno. «Vai a prendermi uno sgabello e dell'acqua.»
Majion si inchinò e obbedì all'ordine, rimuginando su ciò che aveva visto. Trovò in fretta quanto gli era stato chiesto e la dama si sedette, sorseggiando l'acqua dalla coppa, mentre lui rimaneva in piedi, a poca distanza, i singhiozzi di Jiaren e le sommesse parole di Ashur che filtravano dai tendaggi. La presenza dell'ancella dell'imperatrice faceva sì che nessuno disturbasse, eppure lunghe occhiate curiose venivano rivolte loro.
Dentro quella relativa intimità offerta dalle tende Jiaren era tornata bambina, stretta tra le braccia sicure di suo fratello, amata e protetta. Affondava il viso nella sua spalla, singhiozzando, sentendo le lacrime che inzuppavano la stoffa grezza dell'abito di lui.
Anche Ashur piangeva, grandi lacrime silenziose scorrevano sul volto chino contro il capo della sorella, le loro chiome che si mescolavano e i loro respiri che si univano. Quando sentì le spalle di Jiaren smettere di essere agitate dal pianto e mosse solo da qualche raro singhiozzo il giovane si mosse in modo da guardarla.
«Grazie, Ji.» mormorò. «Pensavo che mi odiasse.»
Lei scosse il capo. «No, che non ti odiava.» Lo abbracciò, salendo bene sullo stretto letto da campo e rannicchiandosi contro di lui. «Solo io sono stata così stupida da farlo.»
Ashur la circondò con un braccio, accarezzandole il volto e i capelli, silenzioso.

L'ultima monetaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora