01 - Senza nome

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  «Guardami. Ho detto guardami! Apri quei fottuti occhi e guardami!»
L'urlo sembrò ribaltarlo, mentre tremava furiosamente, senza riuscire a obbedire, più spaventato da quello che avrebbe visto che da qualunque altra cosa. Ma l'ordine continuava a venir ripetuto, furibondo e insistente.
«Cazzo, ho detto di guardarmi!»
Una mano scese su di lui, infuriata e pesante, aggrappandosi ai suoi capelli e strattonandolo. La testa venne piegata all'indietro e per evitare di vedere chiuse gli occhi, le palpebre serrate umide di lacrime mentre il comando veniva urlato ancora, ancora e ancora.
Alla fine non ce la fece più e lentamente aprì le palpebre.
Le lacrime, libere dalla barriera delle folte ciglia, iniziarono a scendere mentre il viso di Ashur mostrava tutta la sua disperazione, tutta la sua vergogna.
Incontrò quegli occhi furiosi, feriti, pieni di dolore eppure non vide odio, in loro.
Cercò, scrutando con attenzione, il tempo sospeso per un attimo tra i loro sguardi incrociati: doveva esserci. Doveva odiarlo, disprezzarlo, doveva!
«Perché?» gelido acciaio nella sua voce che impietoso infieriva, pretendendo una reazione «Dammi una risposta, una cazzo di risposta!».
«Io...» la voce prese forma, simile a uno squittio. Lui, che avrebbe dovuto essere il più forte guerriero della stirpe del Leone, lui che era stato addestrato a non temere la morte, ma a vivere di gloria e onore, danzando con il sangue sulla spada, la promessa di un futuro nobile e splendente per la sua famiglia, lui, squittiva «Ho avuto paura.»
Un'ammissione che il ragazzo non si rese neanche conto di fare mentre la mano che gli stringeva la chioma non lo mollava, costringendolo ad affrontare l'implacabile giudizio colmo di biasimo di quello sguardo.
«Paura? Tu?» gemette, la stretta era dolorosa, ma erano quegli occhi che lo trafiggevano facendolo tremare la cosa peggiore.
Codardo.
Lui era un codardo.
Un vigliacco, un uomo di nulla, fragile.
Una vergogna per la casata.
Un essere inutile.
«Sì,» un filo di voce roca, tremante, riuscì a prendere forma «non ce l'ho fatta...»
«Piccolo bastardo! Viziato idiota, figlio di una cagna! Non sei figlio mio, non sei figlio nostro! Sei solo uno schifoso rifiuto, un vigliacco!» ansando l'uomo prese fiato, il cuore spezzato. Sembrava quasi di poter sentire il suono di quei cocci che nel suo petto si scontravano in una lotta che portava solo distruzione e disperazione, dolore «Vattene.» ordinò in tono ferreo. Eppure al di sotto di esso c'era una stanchezza incomprensibile, la delusione di un padre, di un uomo, di un generale.
Eppure in quegli occhi che Ashur fissava colmo di paura e vergogna non c'è ancora alcun odio, solo dolore e rabbia.
Non c'era altro che quello, unito dalla ignominia di avere un simile figlio.
«Padre... io...» una supplica. Cieca, disperata, quella di un bambino che teme le ombre della notte.
«Io non sono più tuo padre, e questa non è più la tua casa. Tu non sei più Ashur del Leone, figlio di Taone e Muley. Tu non sei più nulla.»
Davanti a quel gelo, a quella sentenza inappellabile e crudele, le lacrime presero a scendere incontenibili.
Chiuse per un istante solo gli occhi, ricordando: aveva avuto paura dell'ultima sfida, di quell'ultimo passo. Lui, spavaldo e borioso, pieno di fiducia in sé, all'alba del suo sedicesimo compleanno, quando era stata l'ora dell'iniziazione, aveva affrontato le scure profondità della terra con un sorriso orgoglioso. Con passo sicuro si era addentrato nel ventre della montagna sacra della sua famiglia, calpestando lo stesso suolo di pietra che i suoi antenati avevano calcato, certo del successo. Vedere il volto della Dea riflesso nella polla sotterranea, riceverne la benedizione, e uscire da quelle tenebre rinato come uomo. Ma la Dea, la padrona della notte, colei che calava sul campo di battaglia portando follia, sangue e disperazione, non si era mostrata come un riflesso sopportabile per un uomo mortale. Gli era apparsa innanzi avvolta dalla bellezza selvaggia e sensuale della pazzia della battaglia, con la lancia imbrattata di sangue e i corvi attorno a lei, che banchettavano con i cadaveri degli sconfitti. Si era avvicinata e l'aveva toccato con le bianche e gelide dita, così simili a ossa, e lui aveva provato il dolore delle morti di migliaia di uomini e sentito il sapore del sangue di innumerevoli vittime sulla lingua. Era caduto a terra, urlando, trafitto da spade, frecce, lance. Calpestato da cavalli e carbonizzato dal fuoco dei draghi... aveva vissuto tutto, fino a quando la sua voce aveva cessato di riempire la grotta, infine abbandonato da quel tocco divino crudele eppure non malvagio. La Dea si era limitata a mostrargli la verità del campo di battaglia, la menzogna dell'onore, il lato nascosto che i bardi non cantavano.
La morte atroce, la sofferenza, la paure e le lacrime, le grida inascoltate e il becco affilato dei corvi che strappava le carni a chi rimaneva immobile sulla terra colma di sangue, dimenticato, freddo, vuoto.
Aveva perso ogni coraggio mentre quel terrore lo devastava e la Dea rideva di lui, dileggiandolo, stordendolo con le visioni più oscure che lui avesse mai visto e che mai avrebbe immaginato.
La guerra non era onore.
La battaglia non era gloriosa.
I vinti non erano altro che vittime, come i vincitori.
Non aveva raggiunto la polla e non l'aveva attraversata raccogliendo la spada dei suoi antenati dal suo fondo dove riposava ammantata di magia, uscendo bagnato dalle sacre acque. Non ne aveva avuto la forza, in lui ogni vestigia di coraggio era andata smarrita mentre nel suo cuore regnavano incontrastate paura e confusione. Allora era tornato sui suoi passi, senza onore, senza spada, il viso terreo di terrore e le mani tremanti, vuote, che urlavano la suo vergogna.
Aveva perso suo padre, aveva deluso lui, il generale delle mille fiere, il più famoso combattente della guerra delle fornaci, colui che aveva fermato con un drappello di soldati indomiti l'avanzata delle spettrali donne delle fiamme, impedendo che attraversassero il passo. Avevano resistito un intero giorno fino a quando l'imperatrice dei fulmini non era arrivata con i suoi dragoni e si era abbattuta, con i cavalieri dorati, sulle creature demoniache.
Solo così il loro impero era stato salvato e ora lui, il figlio in cui aveva riposto ogni sapienza e addestrato fin dalla culla, lo deludeva.
Lo tradiva, portando quell'umiliazione sulla loro fiera stirpe.
Per colpa della sua codardia aveva distrutto ogni speranza della sua casata e ora aveva perso anche il suo nome e la sua identità. Le gambe tremanti faticavano a sorreggerlo, mentre il desolato vuoto della vergogna gli toglieva ogni forza, fagocitando ogni cosa, in lui. Lo sguardo del padre perse ogni traccia di emozione, diventato gelido come l'immortale ghiaccio del monte Hikijio.
«Non lo ripeterò di nuovo. Vattene, questa non è più la tua casa, mai più lo sarà!»
Il giovane aprì la bocca, gli occhi pieni di lacrime, ma la mano che reggeva la sua chioma l'abbandonò e Ashur cadde come un fagotto di stracci ai piedi dell'uomo. Eretto e distante come mai prima, il generale delle mille fiere fece un passo indietro, allontanandosi da quella vergognosa creatura che un tempo era stata suo figlio.
«Per legge ai senza nome viene concessa una somma di denaro, fanne buon uso.»
Ai suoi piedi venne gettata una tonda e pesante moneta d'argento, lo sguardo implacabile dell'uomo su di lui. Alzò gli occhi, guardando oltre le spalle del padre e vedendo la madre voltargli le spalle, così come la sorella.
Ogni soldato presente nel grande parco della casa di famiglia aveva lo sguardo puntato su di lui, gelido. Alcuni erano veterani che avevano lottato con suo padre nella guerra e nei loro occhi lesse il disprezzo. Ovunque vedeva solo quello, per quanto avesse cercato di spiegare che aveva davvero visto la Dea, che lei lo aveva toccato, che si era manifestata con la lancia e i corvi, nessuno gli aveva creduto e l'Odiwa di famiglia, colui che parlava con dèi e spiriti, aveva negato tutto, dicendo che era stata la paura a farlo fuggire e negando la manifestazione divina.
Lo cercò con gli occhi, sentendo la rabbia dagli forza, e incontrò quello sguardo venato di malevola soddisfazione. L'Odiwa lo odiava, non perdeva mai l'occasione per sminuirlo e aveva avuto l'occasione per farlo cadere in disgrazia. Fin quando era giunto dal tempio alla loro casa, in sostituzione del vecchio, per Ashur era stato sospetto. Eppure più cercava di dimostrare i suoi presentimenti meno sembravano fondati e quell'antipatia si era limitata a manifestarsi come reciproco disprezzo. Ma quello, negare le sue parole e affermare il falso pur di farlo cacciare senza onore... no, quello era troppo. Se avesse confermato il suo racconto la sua codardia avrebbe ricevuto la stessa punizione: non gli sarebbe stato risparmiato l'esilio, sarebbe stato ugualmente un senza nome, ma la sua paura sarebbe stata vista in modo diverso. Temere le ombre e temere la Dea erano cose distinte, ma sopratutto non avrebbe avuto su di lui anche l'onta di una menzogna che non aveva detto. La Dea c'era stata: aveva sentito, visto, udito quello che lei gli aveva trasmesso e la sua codardia, anche se senza scuse, aveva avuto una motivazione. Invece ora era agli occhi del padre sia un codardo, che un bugiardo che aveva cercato di nascondere la sua viltà.
Il giovane strinse i denti, raccogliendo quella moneta a fatica, come se pesasse quando un masso e sentendola nella mano bruciante come il suo disonore.
Non poteva lasciarla lì, era contro le regole, ma poteva gettarla.
Non la voleva.
Non voleva quell'ulteriore onta su di lui.
«Addio, padre.» mormorò così piano da dubitare di essere stato sentito, ma un luccichio di un istante degli occhi del generale sembrò smentirlo.
Si voltò, dando la schiena a quella che era stata la sua vita per i precedenti sedici anni, con le spalle chine sotto il peso del dolore che gli attanagliava il cuore. Camminava sulla terra che aveva visto passare generazioni e generazioni di fieri e onorati uomini del Leone, sentendosi indegno e trattenendo le lacrime a forza per non umiliare ulteriormente se stesso e la sua famiglia: almeno quello doveva farlo, almeno in quello doveva riuscire. Mentre i tetti spioventi che avevano ombreggiato le giornate di tutta la sua vita venivano lasciati alle sue spalle, gli antichi alberi di ginko che sussurravano nella brezza incomprensibili parole e i cancelli della grande casa di famiglia si chiudevano dietro di lui, il suo silenzioso addio raggiunse ogni pietra dell'antica dimora, colmo di dolore.
Si voltò, guardando il cancello di legno ai cui lati due grandi leoni di pietra facevano la guardia. Studiò quel legno verniciato di rosso su cui il simbolo della casata era dipinto in oro. Osservò ogni dettaglio, imprimendoselo nella mente, lasciando che le lacrime ora scorressero libere: nessuno ora avrebbe subito la vergogna di quelle stille se non lui. Ora era un senza nome, un esule, solo e privo di ogni onore e dignità. Strinse tra le dita la moneta d'argento tanto da sentirla affondare nella carne, percependo i bordi zigrinati nella pelle, mentre una decisione lentamente prendeva forma, emergendo dalle scure profondità scavate dalla sua vergogna. Infine, lasciando cadere davanti a quei battenti la moneta d'argento, Ashur decise.
S'incamminò tra le vie polverose della città cieco e sordo a qualunque cosa, urtando i carretti dei contadini colmi di merci per il mercato, i passanti, chiunque fosse sulla sua strada. A capo chino, caparbio, risoluto, procedeva con il suo unico obbiettivo in mente, tutto il resto era invisibile, inesistente. Un passo dopo l'altro arrivò alle mura e le oltrepassò, mentre si dirigeva al grande albero di canfora che s'intravedeva ai margini di un campo, svettante tra altri alberi più giovani e modesti, e si sedette sotto le sue grandi fronde ombrose. Respirò l'aria fresca, colma del profumo della terra arata da poco, dell'imminente pioggia e dell'ultimo tepore del sole. L'autunno da poco iniziato aveva appena sfiorato quell'antico essere e le sue foglie erano ancora grandi e verdi.
Sospirò, il profumo che l'albero emanava sembrò confortarlo e sfiorò l'antica corteccia con dita delicate, serrando per un attimo le labbra.
Con calma dalla cintura estrasse l'unica cosa che gli era stata lasciata oltre i vestiti: un piccolo temperino. Un giocattolo, non certo una lama seria, adatto per tagliare il cibo e nulla più, ma era affilato, molto affilato.
Lo premette sulla pelle interna del polso, tracciando una lunga linea, guardando il sangue emergere scarlatto. Scivolava in sottili fili lungo la pelle bianca, lunare, mentre il pungente dolore diventava solo il piacere dell'oblio. Tracciò un'identica ferita sull'altro polso, soddisfatto di quella sensazione che segnava la fine della sua vergogna e chiudendo gli occhi, abbandonandosi al buio, cullato dalla lieve brezza e dal profumo del maestoso albero di canfora che pareva abbracciarlo.
Un minuto, o forse una vita dopo, quando ormai era cambiato il suo colore trasformandosi in un pallore mortale, ben diverso da quello alabastrino che gli era naturale, un fruscio segnò l'avvicinarsi di qualcuno.
Sentì parlare, ma non aveva forze e rispondere e, allo stesso modo, cercare di aprire gli occhi era inutile: ormai la vita lo stava abbandonando l'avrebbero disturbato per poco, non gli interessava vedere i loro volti. Ma quando sentì un calore delicato avvolgerlo al tocco di dita decise sui suoi polsi si riscosse, aprendo le palpebre con spavento.
«No!» protestò, riconoscendo un incantesimo di guarigione «Lasciatemi stare! Non voglio!»
Incontrò un viso deciso che lo fulminò con lo sguardo. Poi accanto comparve un secondo uomo e la mano di lui scese a tenerlo fermo. Era debole, troppo debole per opporsi. Ma perché lo stavano salvando? Chi erano?
«Direi che ne vale la pena.»
«Hai avuto una buona idea, Chian, seguirlo è stata la migliore cosa che abbiamo fatto da almeno un anno a questa parte, sai quanto cazzo vale uno così?»
Ashur deglutì, riuscì a divincolarsi per un attimo solo prima che quello che lo teneva fermo rinsaldasse la stretta.
«Cosa volete da me?»
«Direttamente da te, niente. Ma non preoccuparti, ragazzino, non ti faremo del male.» poi l'uomo guardò il compagno che stava continuando a intessere l'incantesimo attorno alle ferite, ora quasi del tutto rimarginate «Rimarranno le cicatrici?»
«Qualcosa.» secca, quella parola era un rimprovero, mentre il guaritore brizzolato continuava la sua opera «Siamo arrivati appena in tempo, colpa tua che sei voluto rimanere indietro per non farti notare...»
«Dai, ora siamo qua, e lui non morirà, no?»
L'uomo scosse il capo, sospirando, e i tagli si rimarginarono quel tanto che bastava a non far più fuoriuscire il sangue.
«Dèi, se sono stanco!» esclamò con voce roca «Che Immana mi protegga, salvare la vita a questo idiota mi è quasi costata la mia...» poi frugò nella borsa che gli pendeva al fianco, estraendone un flacone e, versandone parte del contenuto in una ciotolina, ordinò al compare di tenere fermo il giovane.
Ashur era stanco, spossato e completamente privo di forze, stordito dalla perdita di sangue e dagli eventi. Non capiva, non ancora, non davvero. Quando si rese conto che gli stava portando alle labbra del succo di papavero era troppo tardi: lo costrinsero a berlo e in poco tempo il suo stordimento aumentò, lasciandolo in uno stato confusionale in cui era inerme come un neonato.  


L'ultima monetaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora