-34- Lungfe

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«Spogliati, Ashur.»Il ragazzo, a quelle parole, trattenne un sospiro. La prima volta che le aveva sentite aveva creduto che anche Nokraal avesse quel tipo d'interesse per lui, invece si limitava sempre a osservarlo. Lentamente il giovane Leone si tolse ogni indumento, lasciando per ultima la maschera, che rispondendo al tocco e alla volontà si lasciò sfilare dal volto.
Il signore dei demoni, seduto su un ampio scranno nelle sue stanze private al castello, lo studiava con un silenzio assorto e, anche da sotto la maschera che ne celava i lineamenti, il giovane sentiva l'intensità di quello sguardo.
«Voltati.»
Ubbidiente si girò, lasciando che osservasse la sua schiena in quello strano rituale che Nokraal ogni tanto gli faceva ripetere. Lo teneva nudo anche per ore, rimanendo in assoluto silenzio, guardandolo meditabondo e poi lo congedava, senza dirgli nulla.
Ashur si voltò più volte, seguendo i gesti accennati dell'altro, cercando ancora una volta di capire cosa mai volesse dire tutto quello e rimanendo, come ogni altra volta, senza risposta.
Quando però venne congedato, quella sera esitò, lanciando uno sguardo intenso verso Nokraal che inclinò il capo, facendogli un cenno che lo invitava a esprimersi e Ashur colse la possibilità al volo.
«Mio signore, non capisco a cosa serva questo...»
Ashur guardò quella maschera priva di lineamenti, cercando di intuire cosa celasse mentre un lungo silenzio calava nella stanza.
«Ricordi la profezia che l'Oracolo ha rivolto a entrambi?» Ashur annuì. «Recitala, allora.»
«Un luogo che luogo non è, in un tempo che tempo non è.
Quando le stelle cadranno e il sole sparirà, all'inizio del nuovo tempo la fine avverrà.
La decisione sarà presa quando nel cerchio antico il sangue sarà versato.
Il mondo vivrà ancora, se in quel momento la pietà ubbidirà al fato.
Oltre il mare e oltre le montagne, tra le strade di pietre canterine, recatevi dove la betulla ha le risposte più sincere.
Chiedete a colei che molto vede, dove le parole sono più veritiere.»
La voce del giovane si spense, attese.
Nokraal sembrava aspettare qualcosa, immobile, forse stava pensando; per il giovane non era facile capire cosa si celasse dietro quella maschera, anche se sempre più spesso percepiva ai confini della sua mente le emozioni dell'eletto del caos. Si era reso conto con il passare dei giorni quanto l'altro fosse solo. Comandava schiere di demoni, i generali gli davano la loro fedeltà e ubbidienza, eppure non vedeva in loro nulla che gli uomini del padre avevano attribuito a Taone. Il rispetto sincero e spontaneo, quella specie di amore verso chi era la propria guida, quel legame di un generale con i suoi uomini che non era solo il dovere dell'obbedienza. Lo temevano, gli ubbidivano, erano demoni e lui no, non esattamente, almeno. Questo pareva tagliarlo fuori in modi che il giovane non afferrava ancora completamente. Ai suoi occhi Nokraal era circondato da un moro di solitudine perfino più consistente della roccia del suo castello.
Era qualcosa che capiva e a causa di ciò sentiva un legame intrecciarsi tra di loro, simile a quello che l'aveva avvinto a Shiin e che Aderyn aveva dissolto. Lo temeva, però. Le emozioni che provava verso Nokraal diventavo a volte conflittuali e confuse, alternando l'odio ad altri pensieri che cercava di seppellire non appena li sentiva bussare. Pietà, empatia, sensazioni che lo portavano ad avere compassione per quella solitudine immensa.
Non poteva provare nulla del genere per quell'essere, si ripeteva, facendo emergere l'odio per lui e aggrappandosi. Non poteva e no voleva permettersi di provare compassione per quell'essere demoniaco e spregevole.
Aveva detto ad Aderyn che Shiin avrebbe semplicemente dovuto lottare di più per resistere al legame e a quello che gli faceva; solo ora capiva come fossero state parole piene di rabbia e ignoranza: resistere a quella specie di malia era quanto più difficile si potesse fare.
Il movimento dell'altro catalizzò l'attenzione di Ashur, distogliendolo dai suoi pensieri.
Con gesti misurati un guanto d'arme venne sfilato e lentamente una manica alzata, rivelando un braccio in cui strane chiazze sulla pelle sembravano grossi lividi.
«Avvicinati e guarda.»
Ubbidendo, perplesso, Ashur osservò da vicino e notò che sotto la cute non c'era un ecchimosi, ma un universo stellato in movimento: galassie intere si spostavano sotto un sottile e trasparente strato che avrebbe dovuto essere pelle. Sconvolto alzò lo sguardo, incontrando le orbite scure della maschera.
«Cos'è?» mormorò.
«Ho sempre pensato fossero i segni della mia vittoria, voglio vedere se si presentano anche su di te ora che sei il mio servo e un legame ci unisce. Le stelle, l'intero universo si muove sotto la mia pelle, dandomi il potere grezzo del caos, e finché saranno nella mia carne sarò il vincitore. Le stelle non cadranno, mai più.»
Ashur ripensò alla profezia e annuì piano, mentre mille domande gli si affacciarono alla mente.
«Quando è cominciato?»
Nokraal fece scivolare la manica al suo posto, rimettendosi poi il guanto.
«Molto tempo fa, molte centinaia di anni sono passate da quando per la prima volta sono apparse le stelle nella mia carne. Ci sono resti delle antiche profezie e sempre parlano degli astri e del fatto che cadranno, ma se sono dentro di me, non può accadere. Metterò fine a quest'eterna lotta, non ci saranno altri prescelti, nessun altro continuerà la guerra. Io ho te, e senza la lotta tra di noi c'è stabilità. Io contengo il potere stesso del caos, l'esplosione di energia naturale e incontrollabile che ha dato origine a tutto. Noi c'eravamo prima dell'ordine fasullo che vogliono spacciare per il vero equilibrio.»
«Voi?»
Non capiva. Non era certo di voler capire davvero i piani dell'altro, le sue parole. Quel noi lo aveva ulteriormente confuso; di certo non intendeva loro due, lui non aveva certo migliaia e migliaia di anni.
«Io sono l'ultimo, prima di me ci sono stati... altri me.»
Ashur fece un mezzo passo indietro, scuotendo il capo, sconcertato.
«Ma non eravate un uomo come me, prima di essere un eletto?»
«Non ne ho memoria, non più. So che lo sono stato, ma quando si accetta il potere del Caos si diventa parte di esso. Il potere immenso che possiedo chiede un sacrificio, dimenticare ciò che si è stati è il prezzo.»
Qualcosa premette ai margini della coscienza di Ashur, un'empatia che cercò di scacciare, eppure si avvicinò a Nookral, portandosi accanto allo scranno e inginocchiandosi lo guardò nelle scure orbite della maschera.
«Avete dimenticato ciò che eravate. Ogni cosa del vostro passato...?»
«Ciò che conta è ciò che sono, non ero altro che un uomo come tanti, probabilmente» Nokraal prese tra le mani il mento di Ashur, stringendo leggermente. «Ora rivestiti e torna a palazzo, voglio che Kunlai del clan del Cinghiale accetti la mia proposta, usa ogni metodo che riterrai opportuno.»
***
Il fuoco era l'unico punto di luce in quella tenebra, la notte senza luna era punteggiata da miriadi di stelle, ma in quel luogo tra le montagne, dove i picchi vertiginosi si alternavano a profonde vallate, tutto era oscurità e silenzio.
Pochi alberi stentati, ancor più rare fonti d'acqua e mai, in vita sua, Majion era stato grato come in quel momento della vicinanza di qualcuno. Aderyn sembrava in grado di trovare il modo di sostentarli anche nel nulla, di trovare la strada in qualunque modo.
Avevano trovato le indicazioni necessarie per giungere alla città dei saggi protetta dal dio Lungfee, una volta inquadrata la direzione e guardato le mappe, l'hilm'een sembrava incapace di perdersi. Non importava la condizione del terreno, il cielo coperto, la pioggia o il vento o il sole, lui sembrava sapere sempre, esattamente, qual'era la direzione da prendere e la strada migliore da seguire.
Il bastoncino che il rosso teneva in mano smuoveva le poche braci di quel fuoco, mentre pensava a quanto vicini erano alla loro meta. Pochi giorni, non più di un paio, probabilmente. Il viaggio era stato molto più lungo di quello che aveva inizialmente creduto e quasi due lune erano passate da quando si erano separati. La sua preoccupazione per Ashur cresceva e, con essa, il senso di vuoto che aveva nel cuore. Pregava nel silenzio del suo cuore che la dea che l'aveva scelto lo proteggesse, che fosse ancora vivo, in sé, che nulla di male gli stesse accadendo.
Si rendeva conto di avere più paura per lui che per sé e, quando i suoi pensieri si fermavano sulle immagini di Ashur che conservava nel cuore, un sorriso dolce e malinconico gli velava il viso.
Lentamente, in un sussurro melodico che non era un canto, ma qualcosa che tendeva a esso, la voce di Majion si levò nel silenzio.
«Certe parole vanno sussurrate, nel cuore della notte cantate,
melodiche, eppure silenti, sono preziose se ascoltate.
Piccole e lievi, boccioli delicati, sul velluto della notte vengono posate.
Quieti brilii di occhi negli occhi che batter di cuori illuminano,
mentre carezze percorrono labbra e mani e pelle e pensieri sfumano.
Certe parole vanno dette solo al quieto sonno dell'amato,
mentre il suo sguardo sui sogni è posato.
Certe parole mai van dette se non con l'animo pieno di certezze.
Dolci parole che sfiorano il cuore, d'anima palpitanti e di luce raggianti,
le tenebre le sposano, a esse s'intrecciano, parole mai dette che all'animo van strette.
Voci sussurrate, che t'amo han cantato alle stelle, mentre il velluto della notte ascolta paziente.
Certe parole vanno sussurrate, al buio cantate, all'amano donate.
Certe parole mai possono essere dette, perché la loro musica è un segreto celato,
Che solo alla notte deve essere donato.»
Le scintille si levarono in uno scoppiettio e Majion si trovò a sorridere imbarazzato, guardando Aderyn.
«È per Ashur? Lo ami?»
«Lui non ama me, però, e mai lo farà, probabilmente.»
«Ma tu ami lui.»
Majion sospirò, scrollando le spalle. «Sì, ma poco importa.»
L'hilm'een scosse il capo, comprensivo. «La canzone è bella, tu non ami... male. Non so spiegare forse cosa intendo, ma tu non ami male. Questo è bene, molto bene.»
Il Cestrix scoppiò a ridere, battendosi la mano sulla gamba. «Non amo male ha molti, molti più significati di quello che gli vuoi dare tu, mi hanno anche fatto i complimenti molte volte...» tornò poi serio, con un velo amaro sul sorriso che persisteva sulle sue labbra. «Però ho capito che intendi, credo ti riferisca a possessività e gelosia e no, non hanno senso. Alla fine sono una puttana, come posso essere geloso?» Sbuffò piano, gli occhi che scivolavano via dal viso di Aderyn per alzarsi nella contemplazione del firmamento. «Il suo cuore non sarà mai mio come vorrei, ma ho qualcosa di altrettanto bello: la sua fiducia e la sua amicizia. Ci sono cose che bastano così come sono.»
Aderyn annuì, silenzioso, il vuoto che aveva nel cuore era stato risvegliato dalle parole d'amore del compagno e ora minacciava di sopraffarlo.
Mabd.
Aveva sentito la sua morte, il suo addio, ma non si era concesso di piangerla, non ancora. Non era il tempo delle lacrime: il dolore sarebbe rimasto chiuso in un angolo della sua anima fino a quando avrebbe potuto trovare sfogo.
Chiuse gli occhi mentre lo scoppiettio del fuoco diventava l'unico suono, assieme al respiro di Mael, in quella notte. Lì non c'erano animali, quel territorio sembrava sospeso tra i mondi e, in un certo senso lo era.
Mabd avrebbe capito cosa succedeva, si trovò a pensare.
Lei era così piena di conoscenza, di saggezza e bellezza... strinse le labbra mentre il ricordo dei suoi sorrisi, delle sue carezze, della sua voce lo incatenava al dolore, mentre lottava con ogni stilla di volontà per non cedere. I suoi capelli soffici e luminosi tra le sue dita mentre la luce del sole li scaldava sul crinale della montagna, mentre al calore di un fuoco, tra la neve, stavano stretti l'uno all'altra, o ancora quelle lunghe ciglia sfiorate dai minuscoli e preziosi cristalli di brina nelle lunghe cavalcate invernali. L'aveva amata con ogni brandello della sua anima, era stata il suo respiro e ogni cosa degna di essere vissuta era stata in lei. Avrebbe voluto urlare il suo nome, invocarla, ma la sua gola era contratta e dolorante dallo sforzo per non cedere.
Lei gli aveva affidato un compito, dalla sua riuscita non solo l'esistenza del loro popolo, ma di ogni popolo, dipendeva. Nessun hilm'een era mai stato coinvolto così direttamente in quella battaglia, nessun eletto di Nut aveva mai dovuto viaggiare a quel modo e affrontare una terra in cui l'essenza della dea non vibrava, guidandoli. Certo, anche questa terra gli parlava, non era muta, ma non aveva il tocco amorevole di Nut, non l'amava come le foreste della sua dea e in essa non trovava la gioia che provava nel calpestare il suolo della sua patria.
Mabd... lei avrebbe saputo tranquillizzarlo, dargli la forza. Non era certo di farcela, non sapendo che al suo ritorno lei non sarebbe stata lì. Non sapendo che, ad aspettarlo, c'era di nuovo solitudine.
Era l'eletto di Nut eppure ciò che era avvenuto dopo la scelta l'aveva reso distante.
Non aveva l'amore che il suo predecessore nutriva per i fratelli, non amava così tanto la loro compagnia, non ne sentiva il bisogno. Era diverso, e questa sua indipendenza era forse il motivo per cui era stato scelto. Aveva la capacità di stare lontano dall'albero sacro, dagli altri hilm'een, di non patire quella solitudine che chiunque altro di loro avrebbe sentito. Ne sarebbero stati oppressi a tal punto da morire di nostalgia, almeno la maggior parte. Privati del legame con la terra di Nut, privati del legame con i fratelli, lì, così lontano che perfino le loro memorie erano difficili da afferrare, lui era l'unico con la forza necessaria.
Era per questo che aveva dovuto soffrire tanto, nel suo passato?
Perché Mabd aveva dovuto cedere la sua vita?
Perché Nut lo metteva alla prova a quel modo?
Eppure lui aveva accettato, aveva deciso, e quello non era altro che ciò che ogni sua scelta aveva portato. Il futuro era figlio del passato, delle strade intraprese e lui di certo non sfuggiva a quella legge.
Rimase sveglio a lungo, la mente e il cuore colmi delle immagini di Mabd mentre lottava contro quel vuoto urlante che dagli abissi lacerati della sua anima lo artigliava.
Quando Majion si destò, con una sola occhiata colse l'umore dell'altro.
Malinconico come mai prima, il viso stanco, non gli domandò perché non l'avesse svegliato per il cambio della guardia. In silenzio fece da mangiare, mettendogli la farinata in mano, che mangiò inizialmente in modo meccanico, riprendendosi poi pian piano mentre il cibo lo riportava al presente.
«Se tutto va bene al tramonto arriveremo alla tua città dei libri.»
«Speriamo, ci stiamo impiegando molto più tempo del previsto.» Il Cestrix spense il fuoco che aveva riattizzato il minimo indispensabile, andando accanto ad Aderyn che stava sellando i cavalli. «Ti manca casa?»
«Provo nostalgia» l'hilm'een salì in sella, sistemandosi l'arco in spalla, «ma se non riusciamo a portare la vittoria dalla nostra parte non avrò neanche una terra a cui tornare. I demoni sono nelle nostre foreste e nei nostri Palazzi, uccidono ogni vita.»
«Sono arrivati prima da voi, sapevano che probabilmente ci sarebbe stata guerra tra di noi.»
«Prendere i nemici che combattono tra di loro alle spalle è una buona tattica» l'hilm'een annuì tra sé. «Abbiamo cercato di resistere quando sono arrivati nelle nostre terre. Abbiamo combattuto, tanti sono morti e le Cail'ka sono state decimate, ma era tutto inutile. Allora Mabd ha guardato nel cuore dell'Ankhetela, ha sognato, poi ha detto di andare. Abbiamo raccolto quello che potevamo e siamo partiti.»
Majion annuì, finendo di legare alla sella la sua sacca salì e si avviarono di buon passo. Era raro che Aderyn parlasse della sua vita, del suo passato, erano sempre brevi accenni che però, messi assieme, stavano creando un quadro complesso e misterioso nella mente di Majion.
Sospirando si concentrò sulla strada: quel territorio era strano, brullo, il sentiero si inerpica in curve stette lungo gli scoscesi picchi o le ripide discese, sembrava di non andare mai davvero avanti eppure, dopo l'ennesima curva di un declivio impervio, davanti a loro l'ampio nastro argentato del fiume Nythèl si mostrò loro. Non sapeva perché lo chiamassero il fiume rosso, forse per via del colore rossastro delle rocce tutto attorno, non gli importava veramente perché l'unica cosa che gli interessava era poter vedere la sua meta, finalmente.
Accelerarono il più possibile, giungendo su una strada battuta e iniziando a vedere contadini e allevatori, piccoli insediamenti, e infine videro le grandi porte del tempio. Erano scavate nel fianco di una collina attorno a cui il fiume scorreva e non c'erano guardie a sua difesa.
La gente entrava e usciva liberamente, allegra, un chiacchiericcio continuo ravvivava l'aria e uomini dal capo rasato, che vestivano sgargianti vesti azzurre e verdi, entravano e uscivano con tutti gli altri.
I due si guardarono, osservando per qualche istante quell'enorme porta di pietra istoriata.
«Credo sia questa» Majion disse a mezza voce. «Cioè, sì, sono certo, abbastanza almeno...»
«Chiediamo.» Aderyn spinse verso un uomo vestito d'azzurro il cavallo, fermandosi davanti a lui che alzò lo sguardo, sbattendo gli occhi perplesso nel trovarsi la strada sbarrata. «Chiedo scusa, questa è la città della conoscenza?»
«Se cercate il santuario di Lungfe, straniero, siete nel posto giusto.»
«Noi vogliamo sapere delle cose... abbiamo domande.»
L'ometto lo guardò perplesso e Majion si avvicinò, scendendo da cavallo e facendo un piccolo inchino al sacerdote.
«Vi chiedo scusa, saggio, cerchiamo la risposta a una domanda importante, abbiamo una dispensa imperiale.»
Stringendo gli occhi scuri e un po' miopi, il sacerdote annuì. «Bene, vi serve allora parlare con il bibliotecario, per oggi non vi riceverà è già il tramonto. Domani all'alba venite a questa porta e chiedete di lui.»
Majion si inchinò nuovamente. «Grazie, vi siamo riconoscenti.»
«La conoscenza è patrimonio di chiunque la cerchi ed è nostro dovere preservarla e aiutare nella sua ricerca.»
Con quelle parole si portò le mani dietro la schiena e con passo lento proseguì lungo la strada, verso gli edifici del villaggio che, poco lontano, sembrava decisamente popolato e pieno di vita.
«Cerchiamo un alloggio per stanotte.»
Rimontando in sella Majion guidò Aderyn verso il paese che sembrava crescere dall'altro lato di quella collina, allungandosi fino al fiume. Chiese indicazioni e arrivarono a una piccola locanda con poche camere, dove presero alloggio per la notte.
All'alba l'hilm'een svegliò Majion che aprì un occhio assonnato, fissando l'altro per un lungo istante.
«Ma tu dormi mai?»
Aderyn rise, annuendo. «Certo che dormo. Poco, ma dormo.»
Il rosso borbottò mentre usciva dal bozzolo di coperte e si rivestiva, grattandosi il viso con vigore.
Poco dopo avevano lasciato la locanda e si dirigevano attraverso le strade del paese all'entrata del tempio di Lungfe. Sulla via c'erano già i primi ambulanti che chiassosi invitavano i passanti, decisamente numerosi già a quelll'ora, a comprare.
I due presero delle focaccine dolci e del tè da un venditore, sedendosi su un muretto poco lontano.
Il flusso della gente era quasi ipnotico e Majion fissava senza vero interesse quella corrente umana. C'erano contadini con le loro merci, mercanti, allevatori con qualche capo di bestiame e molti sacerdoti del tempio, con le loro vesto verdi e azzurre. Avevano tutti una certa aria trasognata, come se la loro mente non fosse davvero lì, e l'uomo non poté fare a meno di chiedersi se fossero tutti così per via di quella vita passata nei libri.
«Se hai finito andiamo.»
Il Cestrix annuì e si avviarono nuovamente verso il tempio. «Dobbiamo cercare il Bibliotecario, quindi. Chissà che tipo è.»
Aderynn si strinse nelle spalle, allungando il passo.
«Immagino sarà come gli altri, gentile. Con gli occhi che guardano altre cose.»
«Già, sembrano tutti avere un po' la testa tra le nuvole, in effetti.»
La grande porta di pietra li accolse spalancata e uno studioso seduto all'ombra di un ginkgo li guardò da dietro una specie di scrivania segnata dal tempo.
«Buon giorno maestro, siamo qua con una dispensa imperiale alla ricerca della conoscenza» Majon mostrò il documento a cui l'uomo diede a malapena uno sguardo, interessato invece a osservare Aderyn. «Ieri ci hanno detto di chiedere del Bibliotecario. Sapete forse aiutarci?»
Il sacerdote, di una quarantina danni e dall'aspetto decisamente poco atletico, annuì.
«Certo, certo. Tu sei di sicuro un Cestrix, ti riconosco dalle descrizioni e dai ritratti dei libri, ma non capisco di quali genti sia tu» l'uomo si avvicinò all'hilm'een fin quasi a toccarlo, genuinamente curioso.
«Sono delle terre di Nut.»
«Terre di Nut...» il sacerdote si pizzicò il mento, riflettendo, per poi sorridere con la stessa espressione di un bambino davanti a una tavola piena di dolci. «Ma siete una leggenda vivente! Non avete idea di quanto confuse e contraddittorie siano le notizie su di voi! Purtroppo non posso trattenervi e farvi domande, immagino...» il tono speranzoso dell'uomo fece sorridere Majion, che però scosse il capo in una negazione. Con un sospiro allora il sacerdote proseguì, visibilmente meno felice. Scribacchiò una nota su un foglio e lo diede a Majion.
«Entrate e prendete il primo corridoio a destra, lì troverete un maestro con vari novizi, dategli questa nota, uno di loro vi guiderà fino alla tana del Bibliotecario.»

L'ultima monetaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora