-14- Verità

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Nel palazzo della Fenice il morso del gelo aveva ritratto le sue zanne, lasciando a un timido inizio di primavera la possibilità di affacciarsi sulla costa. Il cielo e i venti erano nuovamente profumati di salsedine e nello studio di Fiuren, Shiin, lanciava occhiate annoiate alla finestra. Il suo ruolo di dyku gli piaceva, amava la guerra, la battaglia e le armi. La responsabilità dei suoi uomini e guidarli era parte di lui, così come la pianificazione militare. Ma i discorsi di suo padre e di suo fratello strettamente legati alla politica lo stavano facendo addormentare.
Sapevano da mesi che avrebbero dovuto presentarsi al palazzo dell'imperatrice e che la guerra era imminente, ma i due stavano discutendo delle informazioni relative all'alfabeto delle streghe che avevano scoperto di recente; di come usare quelle nozioni per avere l'ultima parola in consiglio, come poter fare in modo di entrare nella rosa ristretta dei più fidati della loro sovrana. Aveva proposto di usare quelle conoscenze per la guerra in modo libero; del resto servivano a non far morire inutilmente gli uomini, ma sapeva già, prima del rifiuto, che per il suo signore, per l'uomo che tramava e tesseva la politica di quella parte dell'impero dei draghi da più di trent'anni, era una richiesta insensata. Le informazioni erano armi, i soldati erano sempre morti. Amava e rispettava suo padre, il suo signore, ma gli sembrava che, ultimamente, fosse molto più spregiudicato di un tempo. Aveva cercato di far valere il suo punto dii vista, quelli erano i suoi uomini, aveva una responsabilità d'onore nei loro confronti, eppure l'ordine era stato chiaro, il silenzio sull'argomento. Da lì aveva smesso di ascoltare, annoiato, seppellendo l'amarezza che gli era salita nell'animo.
Con la coda dell'occhio osservò suo fratello Kaidao. Aveva quasi cinque anni più di lui, era il primogenito e avrebbe succeduto al padre nel governo della città. Era una copia del padre caratterialmente, ma gli mancava la spregiudicatezza del loro genitore. Aveva taciuto, senza sostenere apertamente la sua posizione quando aveva discusso con Fiuren sull'uso della conoscenza data dall'alfabeto, ma sapeva che in separata sede, con i suoi modi, avrebbe cercato di perorare la sua causa. I loro destini erano decisi fin dalla nascita, Kaidao sarebbe succeduto al padre e lui, in quanto secondogenito, era stato cresciuto per ricoprire il ruolo di dyku. Un giorno avrebbe guidato anche l'esercito del fratello, quando sarebbe diventato il suo signore. Contrariamente alle usanze aveva già assunto il ruolo, però, a causa della dipartita dello zio diversi anni prima, colpito da una freccia avvelenata durante la guerra. Era solo un ragazzino al tempo, che aveva dovuto reggere sulle spalle un ruolo troppo grande e crescere in esso fino a mostrarsene degno.
Ci volle un secondo perché le parole del padre penetrassero nella sua mente assorta e il giovane si voltò di scatto, sorpreso. «Cosa? Ashur e Majion si uniscono a noi?» grattandosi la nuca, il dyku proseguì, incerto. «Capisco l'utilità del cestrix nel decodificare il linguaggio delle streghe, ma è pur sempre, beh, inutile su un campo di battaglia. Ashur poi è incontrollabile, nonostante con una katana in mano sia davvero temibile perde ogni limite e non ho ancora capito perché mi obbedisca, in quei momenti.»
Fiuren sospirò. «Dovresti prestare più attenzione al quadro generale, Shiin.»
«Quadro generale, padre? Da quando si è portato a casa quel ragazzo il sonno arretrato gli sta facendo perdere ogni acume.»
Shiin arrossì e fissò il fratello, incrociando le braccia al petto al sogghigno divertito del maggiore.
«Cosa c'è, Kaidao? Sei invidioso forse, visto che le tue di notti sono sempre troppo solitarie?»
«Questo lo dici tu, fratello. Se crederlo ti fa sentire meglio, però, liberissimo.»
Fiuren batté sul tavolo con la pipa, lo sguardo severo che mascherava un certo divertimento per i battibecchi tra i due, e i suoi figli si zittirono. «Credo sia il momento di parlarti più ampiamente di Ashur. Non hai ancora scoperto nulla del suo passato, perché?»
Shiin strinse un angolo delle labbra. Quella era una domanda semplice e difficile allo stesso tempo. In quelle lunghe settimane, dopo quella prima concessione di passato che Ashur gli aveva fatto, qualcosa nel ragazzo era cambiato radicalmente. Non lo guardava più, sembrava perennemente spaventato. Era diventato talmente docile e ubbidiente da non sembrare neppure la stessa persona. Quando alzava lo sguardo su di lui, perché costretto, i suoi occhi si sgranavano e si riempivano di una luce che il dyku non comprendeva. Era come se lo temesse, senza aver paura esattamente di lui, una contraddizione che l'aveva completamente spiazzato. Gli aveva chiesto cosa avesse e la risposta, un "nulla, padrone" falso e pieno di ombre, era stata data con voce tremante. Tanto che infierire gli era parso così crudele che aveva deciso di aspettare, per scoprire cosa esattamente gli stesse succedendo. Inizialmente aveva creduto che la punizione inflitta dal padre lo avesse segnato, sapeva che era stato riportato all'interno del palazzo dopo un inizio di assideramento e quello poteva benissimo spaventare chiunque. Se non era con lui o con qualcuno della sua famiglia, almeno per quello che aveva potuto notare, era quasi lo stesso di sempre. Ma se alzava gli occhi su un suo famigliare, su di lui, sembrava quasi rattrappirsi, tanto si ritraeva in se stesso.
«Ho smesso di domandare, padre. Qualcosa non va in lui: vive in un continuo terrore che non capisco da dove nasca. Quando combattiamo, però, scompare. Una luce selvaggia torna a brillare nel suo sguardo e fa a pezzi qualunque avversario. Temo di dargli in mano una lama d'acciaio, credo che sarebbe un assassino spietato e non ho ancora compreso come possa ubbidirmi, in quello stato. Quando gli ordino di fermarsi mi fissa quasi mi volesse colpire, poi torna in sé e la paura ricompare nei suoi occhi.»
«Hai paura di lui, Shiin?» la domanda dell'uomo aveva un'intonazione strana, tale da far riflettere molto bene il dyku prima di dare la risposta.
«No, non ho paura di lui, ma temo quello che penso potrebbe fare. Perde ogni inibizione, ogni freno. Diventa un'altra persona quando combatte e non posso fare a meno di domandarmi se un giorno smetterà di obbedirmi. Non so se quel giorno lo saprò respingere, ma so per certo che sarà un combattimento come mai ne ho sostenuti.» uno strano sorriso, quasi di desiderio, si disegnò sulle labbra di Shiin.
«Ashur è il figlio del generale Taone del Leone, l'eroe della guerra delle fornaci che, praticamente da solo, ha fermato le donne delle fiamme, le guerriere d'élite delle streghe, al passo.» Fiuren fece una pausa, guardando i visi sbalorditi dei suoi figli. «Io ero là e ho visto la stessa potenza in suo padre. Credo sia il retaggio del loro Clan: si vocifera siano i discendenti delle dame corvo della dea; di una delle guerriere folli che scendono con lei in battaglia mietendo vittime senza nessuna distinzione, ubbidendo solo alla loro divina padrona. Tempo fa, ormai un anno più o meno, è arrivata voce di una malattia del generale e della scomparsa di suo figlio. Non so cosa abbia portato Taone a esiliare Ashur e togliergli il nome, ma qualcosa deve aver recentemente risvegliato il dono in lui e ho ragione di credere che sia avvenuto quando ti ha difeso. Versando il suo primo sangue per proteggerti, in qualche modo si è legato a te. Ho parlato con alcuni studiosi di magia fidati e pensano che il retaggio del suo sangue, una volta desto, potrebbe aver bisogno di qualcuno a cui votarsi, probabilmente quella parte di lui ha scelto te. Verrà con noi, anche se preferisco non far sapere a nessuno che il dono è attivo. Probabilmente sarà riconosciuto, ma è legalmente uno schiavo e abbiamo fatto modificare il tatuaggio, ora c'è la fenice al posto del loto. Neppure l'imperatrice può riconoscerlo come Ashur del Leone, il gesto di Taone è categorico. Mi chiedo cosa lo abbia spinto a un atto così assoluto.» Fiuren aspirò dalla pipa stringendo appena gli occhi, riflettendo. «La paura che prova per te forse è data dal fatto che parte di lui ti percepisce in modo diverso, forse da altro, non posso saperlo. Scoprilo, Shiin, fatti dire quello che ci manca per comprendere appieno la situazione. Senza informazioni non possiamo sfruttarlo nel modo migliore. E vedi di non farti fermare dai dubbi, stavolta. Abbiamo in mano un'arma con lui, nessuno potrà mai farti del male, o vincerti, con lui al tuo fianco. E se non vincono te, non vincono la nostra famiglia. In guerra un elemento simile, da solo, tiene testa a centinaia di nemici se addestrato. Il problema è capire come sfruttare la sua capacità.»
Shiin e il fratello si scambiarono un'occhiata, poi il maggiore parlò. «Padre, quindi volete che Ashur si unisca a noi anche durante la campagna militare, immagino.»
«Sì.» Fiuren vuotò la pipa, riempiendola con gesti misurati di nuovo tabacco e accendendola. «Credo che vorrò anche Majion, le conoscenze di quel cestrix sono così diverse dalle nostre che a volte sembra quasi conosca la magia delle streghe. Non siamo mai riusciti a combatterle davvero, hanno un rapporto completamente diverso con gli spiriti. Mentre noi li vincoliamo con lunghi rituali all'obbedienza, imprigionandoli in oggetti o altro in modo da obbligarli a obbedire, loro sembrano quasi avere un rapporto di scambio paritario. Non capiamo come ciò sia possibile, ma gli elementi ubbidiscono loro in modo immediato, gli spiriti sembrano considerare quel popolo alla stregua di un parente, o qualcosa del genere. Da quello che ho capito ponendo qualche domanda sembra che anche nel popolo di Majion ci sia un simile rapporto con le forze invisibili. Che siano spiriti, demoni, elementali o altre creature, decidono di servire in un rapporto di rispetto e uguaglianza i loro sapienti. Non ho idea di come facciano e lui non era che un bambino quando è stato portato via, non conosce quindi tutto quello che mi interessa.»
«Cosa avete davvero in mente?» Shiin fissò il genitore, certo che nascondesse molte cose.
«Ci sono molti modi per vincere una guerra, le armi e i soldati sono solo uno, e quello è il tuo compito. Sto ancora riflettendo su molte cose, quando sarà il momento vi dirò tutto, ora andate.»
I due figli si inchinarono al padre e uscirono, camminando fianco a fianco in silenzio. Salirono al piano superiore e si affacciarono alla balconata, osservando il cortile interno ormai quasi del tutto libero dalla neve.
«Shiin, cosa credi stia tramando?»
«Qualcosa per ottenere più potere per il Clan, al solito. Nostro padre non si è mai fermato, ha sempre puntato in alto, solo ora temo quanto esattamente in alto stia puntando. Ad avvicinarsi troppo al sole si rischia di precipitare a terra rovinosamente.»
Kaidao mise una mano sulla spalla del fratello, sorridendogli. «Dobbiamo fidarci di lui.»
«Non ho mai detto di non fidarmi, Kai, ma che una grande ambizione porta anche grandi rischi, e non sono certo che stavolta nostro padre non si stia lasciando accecare da qualche cosa che non conosciamo. Veglia su di lui.»
«Come sempre, Shiin, su lui e su tutti noi. Nostro padre guarda lontano, io guardo vicino.» Gli occhi dorati del maggiore, identici a quelli del genitore, si posarono per un attimo in quelli del minore per sorridergli. «Meglio che vada, ho i rapporti dei danni delle coltivazioni da controllare.»
«È in questi momenti che sono davvero felice che sia tu il primogenito. Odio i documenti e la burocrazia.»
Kaidao, ridendo, si allontanò dirigendosi alle sue stanze mentre Shiin, con un mezzo sospiro, decise di affrontare Ashur. Stavolta non si sarebbe trattenuto, decise. Avrebbe saputo la verità.
Il dyku scese le scale, andando nella zona dove alloggiavano i concubini. Il sole del primo pomeriggio si allungava dalle finestre e il legno sembrava quasi dorato sotto quel gentile tocco luminoso. I servitori erano impegnati in diverse mansioni, i cortili e i giardini interni erano affollati di giardinieri, mentre i corridoio e le stanze erano percorsi da donne che pulivano i passaggi, sostituivano l'olio delle lampade e arieggiavano le camere approfittando di quella temperatura fredda eppure piacevole. Arrivato alla porta laccata di rosso con il disegno del pavone, la trovò socchiusa e silenziosamente la oltrepassò. Cercando di non fare il minimo rumore camminava alla ricerca di Ashur. Quell'ala sembrava avvolta da un'aria diversa, quasi che il tempo, là, non scorresse allo stesso modo, ma quasi in sordina. Camminò lungo i corridoi, sentendo le note del flauto e le risate di voci femminili. Certo che non avrebbe trovato lì Ashur, proseguì fino a sentire la voce di Tìnqui.
Si fermò, curioso, sbirciando oltre l'angolo e vedendo la donna seduta su una poltroncina posta in una macchia assolata, sorseggiava del tè che Ashur le versava. Aveva preferito andare di persona e non incaricare un servo di portarlo da lui come ormai sua abitudine seguendo un impulso del momento, rimase quindi a osservare in silenzio la preferita del padre e il ragazzo. Ashur sembrava fremere di rabbia, le spalle erano rigide e i movimenti secchi eppure nulla, della sua grazia, era rovinata da quello stato d'animo. La concubina, invece, sembrava divertita. Il sorriso delle labbra perfette di lei, dipinte di rosso, era appena accennato eppure aveva un che di malignamente soddisfatto.
«Sai, nonostante tu abbia la mano pesante sai essere bravo quando vuoi. Un ottimo servitore. Immagino che nel bordello ti abbiano insegnato le buone maniere.»
Ashur irrigidì le spalle, mordendosi la lingua. Vide il sorrisino della donna accentuarsi appena e lei proseguì. «Del resto, almeno quello penso che sia necessario. Vendere degli animali da monta non deve fruttare molto, se sai almeno renderti utile sicuramente acquisti un certo valore.»
«Ti serve altro, Tìnqui?» nella voce del giovane c'era una gelida rabbia. La concubina assunse unaria meditabonda, sorseggiando il tè, e poi si sfilò la scarpina di seta ricamata, porgendo il piede al giovane.
«No, Ashur, puoi andare dopo avermi baciato il piede.»
Shiin comprese che non era la prima volta che quello accadeva quando vide il suo schiavo mettesi su un ginocchio con le mani strette a pugno, per poi prendere tra le mani il piede della donna.
«Basta così.» disse alla donna avanzando oltre l'angolo, guardandola con intensità. La vide impallidire senza però perdere la sua compostezza. «Tìnqui, da quando puoi permetterti di trattare il mio preferito a questo modo?»
«Mio signore, è solo il risarcimento per l'umiliazione che mi ha inflitto. Mi pareva giusto essere ripagata.»
«E lo sei stata, donna! Che questo tuo gioco non si ripeta: ricordati che nessuno è eternamente bello o utile, Tìnqui. La bellezza svanisce e viene dimenticata, ma il buon cuore è sempre premiato e mai scordato. Ti consiglio di valutare molto bene quello che fai, d'ora in poi.» poi guardò Ashur che teneva lo sguardo basso davanti a lui, i capelli legati in una coda alta che gli lasciava libero il viso. «Seguimi.»
«Sì, padrone.»
Shiin scoccò un'occhiata dura a entrambi e si avviò. Il tono che Ashur aveva usato con lui era sottomesso e docile, sentiva quella strana paura che il ragazzo provava sempre in sua presenza emanare quasi dalla sua persona. Attraversarono il palazzo, salendo alle stanze del dyku e lì Ashur aiutò il suo padrone a togliersi la casacca imbottita. Nei corridoi faceva freddo, ma quelle stanze erano ben riscaldate e la spessa giubba trapuntata e ricamata era già di troppo. Il ragazzo la piegò con cura, ponendola su un ripiano vicino alla porta e raggiungendo il nobile nella stanza da letto. Senza attendere ordini iniziò a spogliarsi, lo sguardo basso, avvicinandosi poi al suo padrone e inginocchiandosi accanto a lui, seduto sul bordo del letto.
«Guardami, Ashur.» il tono di Shiin era calmo e, dopo un attimo, il giovane alzò il capo. Quelle iridi dello stesso colore del sangue però evitarono il suo viso, scivolando su di un punto alle sue spalle. «Ho detto guardami, non solo di alzare il volto.»
Vide con chiarezza un lieve pallore formarsi su quei lineamenti e lentamente gli occhi si posarono su di lui. Shiin posò la mano sulla guancia di Ashur e vide che tratteneva un leggero sussulto. «Si può sapere di cosa hai così paura? Non ti ho mai punito, non in modo da suscitare una simile reazione, almeno.»
Il cocciuto silenzio di Ashur irritò il dyku. «Ti voglio dare ancora una possibilità: parla, Ashur. Sono stanco dei tuoi silenzi e dei tuoi segreti. Non sono un uomo vile e non ho più voluto ricattarti con Majion, ma ora sono veramente annoiato dal tuo atteggiamento.»
Senza distogliere lo sguardo, le labbra del giovane si strinsero, risolute.
«L'hai voluto tu, si consapevole di questo.» le dita di Shiin tracciarono una lenta carezza lungo il volto dello schiavo, mentre sembrava soppesarlo.
«Vedi, Ashur, anche se qua a Hiyu-han siamo molto lontani dalla capitale, le voci girano. Tu sei bello, molto bello, e non mi stancherò facilmente di te, di guardarti, di toccarti e di averti. Ma sono i tuoi occhi la cosa che mi hanno colpito da subito. Sono di un colore che non ho mai visto da nessun'altra parte, sono rossi come il sangue. Brillano come rubini alla luce, sembrano quasi tizzoni quando sei arrabbiato. Ci ho messo un po' a capire, è vero, ma perfino da noi la voce della scomparsa dell'erede del Leone e della grave malattia di Taone è giunta. E tra tutti i clan, tra tutte le genti, pare che solo chi fa parte di quella discendenza abbia gli occhi di questo colore.»
Ashur aveva iniziato a tremare; nudo e indifeso, inginocchiato davanti al suo padrone, sentì le lacrime pungergli gli occhi e senza pensare parlò: «Mio padre è malato?»
Immediatamente si morse la lingua, distogliendo lo sguardo e affossando il capo nelle spalle. Dopo tutto il suo silenzio con quelle poche parole aveva confessato tutto, spinto dall'apprensione per la salute del genitore.
«Finalmente la verità.» il sussurro di Shiin, però, non aveva sfumature vittoriose, ma quasi dispiaciute.
Taone, era gravemente malato. Ashur sentì le lacrime pungergli gli occhi e la mente farsi confusa per via dei mille pensieri ed emozioni che lo stavano attanagliando. Shiin sapeva tutto, era inutile continuare in quel cocciuto silenzio; lui era solo uno schiavo e mai avrebbe neppure potuto chiedere di vedere suo padre, sapere cosa avesse o dargli un ultimo saluto. Non avrebbe potuto vedere un'ultima volta nessuno di loro, per quanto gravi fossero le condizione di Taone, o se sua madre o sua sorella avessero avuto bisogno: lui non era nessuno. Non esisteva per loro e loro non avrebbero dovuto esistere per lui. Eppure si sentiva dilaniato dalla sofferenza: era la sua famiglia, li amava; eppure era più che morto, era dimenticato. Sentì la mano di Shiin sulla spalla stringere delicatamente, come se volesse dargli conforto.
«Sei davvero Ashur del Leone, quindi. Dimmi cosa è successo, perché ti è stato tolto il nome.»
«Ashur del Leone è morto, padrone. Gli hanno tolto il nome, l'onore, ogni cosa. Quella persona non esiste più.»
Era vero, ogni parola era autentica. Vibrava di dolore, rimpianto e umiliazione. Shiin vide le lacrime sul volto di Ashur e provò pena. Lui cos'avrebbe fatto al posto del ragazzo?
«Allora dimmi come un senza nome è finito al Loto.»
Ashur si asciugò il volto con il dorso della mano, piegandosi ancora di più su se stesso. Ormai era inutile mentire. Che scopo aveva continuare a persistere in quel silenzio? Però c'era una cosa che voleva sapere, che doveva sapere. «Posso chiedere, padrone, cos'ha il generale Taone?»
«Non lo so, Ashur. Tuo pa... il nobile Taone è molto malato da circa un anno e non partecipa più alle riunioni di palazzo. Pare che abbia designato come erede sua figlia, con la benedizione dell'imperatrice stessa, che la ha presa sotto la sua ala.»
«Jiaren è forte, sarà un'ottima guida per il clan.» il sussurro di Ashur fu quasi inudibile. Poi alzò la voce, drizzando un poco le spalle. «Grazie.»
«Ora dimmi quello che voglio sapere, Ashur.» la voce di Shiin era gentile, eppure conteneva una nota di comando che non era possibile ignorare.
Passarono lunghi attimi di silenzio, ma il dyku pazientò, guardando le lacrime continuare a scivolare silenziose sul volto di Ashur che cocciutamente fissava il pavimento. Quando finalmente parlò, la voce era poco più di un sussurro incerto.
«Quando sono uscito dal palazzo del Leone io non vedevo nessun motivo per vivere, la mia stessa stessa esistenza era un disonore. Ho camminato e fuori città mi sono fermato sotto un albero.» le dita del ragazzo accarezzarono le cicatrici quasi invisibili che aveva sui polsi, deglutendo. «Ho agito ancora una volta da vigliacco, ma due mercanti di schiavi mi hanno salvato la vita e mi hanno portato fino a qua, per vendermi. Il resto lo sapete.»
«Ti hanno marchiato, hanno agito in modo illegale per creare una situazione che, però, ora è legittima. Ormai tu sei uno schiavo. Sei mio, Ashur.» il ragazzo annuì piano, sapeva benissimo in che situazione si trovava. Vide la mano del dyku avvicinarsi e sentì la carezza sulla guancia e le dita che si fermavano sulle sue labbra. «Ashur, cosa è accaduto? Perché ti hanno tolto il nome? Perché hai paura di me?»
«È davvero così importante saperlo? Non cambia nulla né a me né a voi, quello è solo il passato.»
«Dimmelo.» il tono del nobile si fece duro e Ashur cedette. Ormai nulla aveva senso nel suo cocciuto silenzio.
«Ho fallito l'iniziazione. Ho avuto paura e sono fuggito. La dea dai mille nomi mi ha mostrato delle cose e io non ho saputo continuare, ho ceduto. Ho cercato di dire che avevo davvero visto qualcosa, ma l'odiwa della Casa ha smentito ogni mia parola, dicendo che erano solo le paure di un vigliacco. A mio pa... al nobile Taone non era rimasta altra scelta che esiliarmi, ero indegno come sue erede, la sua vergogna e il suo fallimento. Si è liberato del ramo secco dell'albero.»
Tremava violentemente, sentendosi il petto dilaniato dal dolore, dalla vergogna e dalla rabbia. Mengwe avrebbe dovuto sapere che non stava mentendo, perché aveva detto quelle cose? Poteva essere che avesse avuto ragione e semplicemente erano state le sue paure, quel giorno, a tradirlo? Davvero la dea dai mille e nessun nome l'aveva messo alla prova?
Lui, comunque, aveva fallito. Era fuggito senza recuperare l'arma sacra, era tornato con la coda tra le gambe da suo padre e all'uomo non era rimasta che un'unica cosa da fare. Poco importava quella menzogna di Mengwe, lui era stato un fallimento. La mano di Shiin continuò a percorrere il volto di Ashur con movimenti lenti, come se cercasse di calmarlo.
«E di me perché hai paura?» Ashur chiuse le labbra. No, quello non poteva dirlo. Era folle, insensato, era qualcosa che lo spaventava e lo faceva sentire un pazzo. Come poteva dirgli che vedeva cose che non potevano esistere? Sentì il sospiro del dyku e capì che, per il momento, non avrebbe insistito ulteriormente.
«Aiutami a slacciarmi la veste.» disse invece il nobile. Ashur ubbidì, sapendo cosa sarebbe seguito a quel gesto, l'unica cosa per cui credeva di aver un posto in quella casa.

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