Con il passo stanco Ashur arrivò alla camera di Majion, aprendo la porta con delicatezza dopo aver bussato. Non attese la risposta, non l'aspettava mai: in realtà era solo un modo per avvisare l'altro che era lui e che stava entrando. Tre colpi delicati, ravvicinati.
Si chiuse il battente alle spalle, il suono del russare dell'uomo steso sul letto suscitò la sua invidia. Posò il vassoio sul basso tavolino e aprì le finestre, andando a scuotere il braccio di Majion. «Sveglia!»
Un borbottio irritato fu l'unico risultato e il ragazzo iniziò a sospirare, chiedendosi perché Majion dovesse avere un sonno così pesante. Gli sfuggì uno sbadiglio lungo e sentito e si sedette per terra, la schiena contro il letto. «Visto che non ti svegli chiudo gli occhi un minuto, uno solo...» disse a mezza voce, talmente stanco da mangiarsi le paroole. Abbassò le palpebre e si addormentò immediatamente.
Era solo una settimana che aveva iniziato a lavorare con i clienti: uomini e donne sembravano non aspettare altro che passare anche solo qualche ora con lui e, quella notte, cinque clienti l'avevano comprato. La notte prima tre, quella prima ancora quattro... era sfinito. Dormiva pochissimo, anche se Majion gli permetteva di riposare un po' nel suo letto, aveva lo stesso compiti da svolgere e la sera, un'ora prima del tramonto, doveva essere nella sala comune.
«Ashur?» il ragazzo svegliato dal suo nome cercò di aprire gli occhi, ma era così stanco che si rifiutarono di sollevarsi. «Ragazzo, sveglia!» la voce di Majion divenne irritata e una mano lo scosse violentemente. Infine riuscì a sollevare le palpebre e si trovò a pochi centimetri dal viso l'altro, gli occhi chiari dell'uomo che lo fissavano, imperscrutabili.
«Sono sveglio.» la voce impastata sembrava smentirlo, così come gli occhi che impiegarono un attimo a mettere a fuoco l'altro. Poi gli mise una mano in faccia, spingendo Majion indietro. «Sono stanco, scusa. Non volevo proprio addormentarmi, non esattamente...»
«Ma il sole è alto! È giorno fatto, Ashur! Che pigro che sei!» Majion, scimmiottando il tono che aveva avuto a volte il giovane, lo fissò sogghignando. «Così giovane e già così dedito all'ozio, che vergogna!»
«Ho capito.» sbottò alzandosi e strofinandosi gli occhi con la mano. «Sono un idiota, va bene? Se vai a dormire dopo l'alba quest'ora è ancora notte, come dici tu.»
«Sono contento che tu abbia finalmente capito. Ora togliti quell'espressione acida dalla faccia, sei peggio di un limone! Oggi si esce! Servono delle cose e l'intendente deve andare a fare acquisti per la locanda. Visto che non si può mica portare la roba da solo, ho chiesto di andare ad aiutarlo e tu vieni con me.»
Ashur spalancò gli occhi; era la prima volta che poteva uscire da quelle mura da mesi e si sentì improvvisamente euforico. «Posso davvero?» chiese, e Majion rise.
«Sembri un bambino alla festa del solstizio!» la mano dell'uomo scompigliò i capelli di Ashur, dandogli poi una pacca sulla spalla. «Certo, o non te l'avrei detto lasciandoti dormire. Ho discusso un'ora con il padrone, ha paura che scappi. Gli ho detto che non sei così idiota...» lo sguardo dell'uomo trapassò il giovane, che si morse il labbro. «Non lo sei, vero?»
Ashur dopo un attimo scosse il capo «No, non lo sono.»
«Ottimo. Allora andiamo.»
Ashur guardò bene l'altro, appoggiato allo stipite della porta che lo aspettava. I lunghi capelli erano legati da un nastro alla base della nuca e le mani erano nascoste nelle ampie maniche della casacca che indossava. Incrociata sul davanti, di un cotone di un blu slavato e consumato agli orli, era stretta sui fianchi dalla fascia che reggeva gli ampi pantaloni rigonfi, serrati da un laccio sotto il ginocchio. Portava dei sandali consumati di corda intrecciata e Ashur lo fissò per un attimo. Era abituato a vederlo con gli abiti che indossava per i clienti, ma non erano suoi, lo sapeva, e non poteva certo indossarli per quel lavoro. Si guardò la veste semplice ma inadatta a uscire, sollevando un sopracciglio.
Come intuendo la sua domanda inespressa, Majion indicò il letto, dietro Ashur, e voltandosi il giovane vide degli abiti simili a quelli dell'altro, di un colore grigio. «Grazie.» borbottò spogliandosi e iniziando a indossarli. Aveva perso ogni pudore nei confronti dell'uomo, erano inutili e sarebbe solo stato un comportamento ipocrita.
«Non ho dei sandali per te, però.»
Ashur si strinse nelle spalle: «Posso andare scalzo. Ci sono arrivato, qua, camminando senza niente ai piedi, non ne morirò. Non resterò al Loto se posso uscire perché non ho dei sandali!»
«Ottima risposta!» Majion gli diede una vigorosa pacca sulla schiena e si avviò velocemente verso il cortile sul retro.
L'intendente non era ancora arrivato e aspettarono sotto il sole. Ashur fremeva d'impazienza e, anche se Majion lo camuffava meglio, era chiaramente felice a sua volta di poter uscire dalle mura della locanda. Attesero in silenzio, ognuno perso nei suoi pensieri e, quando l'intendente arrivò, fece loro un cenno del capo indicando delle grosse ceste. «Prendetele e andiamo, la lista è davvero lunga, ci vorrà tutto il resto del giorno.» L'uomo, alto e così magro da sembrare emaciato, borbottò con fare irritato. Prese dalla cintura una grossa chiave e aprì il cancello sul retro della locanda, chiudendolo non appena furono usciti e dirigendosi con passo veloce attraverso le strade, una meta ben precisa in mente.
Ashur si guardava attorno: non aveva visto niente della città se non ciò che poteva osservare dalle finestre e non ricordava nulla, se non vaghe immagini, del giro che aveva fatto quando era stato venduto a Zunya. Stare in mezzo a così tanta gente, anche se era impacciato dalla grossa cesta tra le braccia, e camminare su quella strada, gli dava quasi un senso di ebrezza e per un lungo istante si chiese perché non poteva semplicemente continuare a camminare, perdendosi tra la folla.
Scosse tra sé la testa: non poteva. Anche se fosse riuscito a nascondersi per un po' il collare dorato non poteva essere tolto se non da un mago e il tatuaggio rimaneva lo stesso, impresso in modo indelebile. Inoltre era certo che Majion avesse garantito per lui, che sarebbe stato sospettato di averlo aiutato nella fuga e quindi punito. Nonostante tutto il suo desiderio di libertà non voleva quello, così come non desiderava essere punito a sua volta quando fosse stato ripreso, perché era assolutamente certo che sarebbe successo. Sapeva che agli schiavi che avevano tentato la fuga a volte venivano tagliati i tendini di una caviglia, menomandoli per sempre. A volte frustati, altre condannati a morte, e lui non aveva intenzione di fare nessuna di quelle fini. Non quando bastava avere pazienza, poteva comprarsi la sua libertà, con il tempo.
Le pietre della strada sotto le piante dei piedi erano ruvide, sporche, ma non gli interessava. Poter calcare qualcosa di diverso dai pavimenti della locanda era un toccasana per la sua anima. Lentamente attorno a loro le vie si fecero più ampie e, anche se continuavano a essere trafficate, erano come più ordinate, dritte e pulite.
L'intendente si fermò, guardandosi attorno.
«Majion, tu ricordi dov'è la bottega della signora Rhinne? La padrona vuole dei profumi, ma non ricordo mai se da qua è lungo la via del porto o verso il cancello ovest.»
«Verso ovest, intendente.» l'uomo fece un passo avanti, indicando una via in cui le botteghe avevano ampie tettoie sotto cui erano esposte merci di un certo pregio, tenute d'occhio da ragazzi, probabilmente apprendisti, oppure da degli schiavi.
«Andiamo, vai avanti tu.» borbottò e Majion partì di buon passo. Passarono accanto a quei negozi e i profumi di incensi, spezie ed essenze iniziarono a farsi più forti man mano che andavano avanti. Era chiaramente una via in cui la maggioranza dei negozi vendeva profumi, saponi, incensi, creme e trucchi. Vide qualche spaccio che esponeva fermagli per i capelli, spazzole e lozioni. Una zaffata agrumata lo investì quando l'altro si fermò davanti a una bottega dall'insegna bianca e rossa raffigurante uno spiritello dell'aria. Lì non era esposto nulla sotto la tettoia, ma le porte scorrevoli erano spalancate e solo delle sottili tende erano raccolte in un lato, come per invitare all'ingresso.
«Aspettate qua, spero di fare in fretta.» entrò con aria quasi sofferente all'interno e Majion soffocò una risata.
«Detesta fare spese per la padrona, lei troverà sempre qualcosa che non va e gli farà passare un brutto quarto d'ora.» spiegò al giovane, che si trovò a sorridere.
«Ma non era meglio se andava lei con le sue donne, allora?»
«E privarsi del piacere di vedere il vecchio Wenxiu sudare e inchinarsi? Lo odia, e questa è la sua rivincita su di lui.» sorridendo, l'uomo si spostò mettendosi all'ombra, imitato dall'altro.
«Ma che ha fatto l'intendente per meritarsi l'odio della padrona?»
«Qual è il suo peccato mortale, intendi?» un sogghigno divertito apparve sul volto avvenente di Majion, mentre si chinava a sussurrare nell'orecchio di Ashur «Le ha impedito di vendermi, era convinta Zunya stravedesse per me... quello stravede solo davanti ai soldi. E per un periodo stravedere per me o per i soldi era la stessa cosa.»
«Ma non ha senso...» Ashur sussurrò a sua volta «... se porti soldi venderti non ha proprio senso!»
«Infatti.» Majion posò la cesta a terra, lanciando un'occhiata all'interno. «Andrà per le lunghe.» sentenziò.
Ashur annuì e posò a sua volta la cesta ancora vuota, accucciandosi a terra, pensieroso.
«Continuo a non capire,» esordì dopo un po' «sei il fiore all'occhiello del Loto, prima era pure meglio? Il padrone da te non guadagna tanto anche adesso?»
«Oh, sì!» Majion si grattò la guance, poi si strinse nelle spalle. «Ma quando avevo diciannove anni era anche meglio. Una nobile si era innamorata di me, era letteralmente pazza d'amore, o magari era solo lussuria... suo marito era stato molto più anziano di lei.» sogghignò con una punta di malizia, poi proseguì «Era rimasta vedova da poco e mi copriva di regali, pagava ogni cifra che Zunya chiedeva pur di avere l'esclusiva su di me: stava diventando un piccolo scandalo, a modo suo. Questa era convinta che io l'amassi, non le ho mai detto di provare qualcosa del genere, facevo solo quello che dovevo fare... beh. Il padrone era pieno di denaro come mai prima e mi permetteva qualunque capriccio, ma ovviamente rifiutava di vendermi a Banien. Lei alla fine è stata rimessa in riga dalla famiglia, stanca del mormorio e dello scandalo.» sospirò «Bei tempi, potevo fare davvero quello che volevo...»
«Adesso no?» sbuffò a mezza voce Ashur, osservando il via vai sulla strada. Le pietre erano disposte in modo da creare una pendenza che incanalasse l'acqua ed eventuali altre cose verso il piccolo canale di scolo al centro, a sua volta con una pendenza tale da spingere il tutto verso il porto. Guardò il liquido, fissandolo tra il traffico della gente, accovacciato in una posizione comoda che era in grado di mantenere per ore, volendo.
«Adesso meno.» Majion scroccò il collo. «Ad esempio non posso uscire dal Loto quando mi va. Ora devo fare il facchino o accompagnare qualcuno, mentre in quei giorni mi bastava dire che volevo uscire ed erano gli altri che accompagnavano me.» Quello che Majion non disse erano i suoi pensieri al tempo. Come quell'assaggio di libertà, per quanto fasulla, l'avesse scaldato portandolo a cercare un modo per fuggire. Fortunatamente i suoi piani non erano stati scoperti: a posteriori si rendeva conto di quanto fosse stato stupido, all'epoca.
«Però avrai messo da parte un sacco di soldi, no? Hai detto che ti copriva di regali.» lo stomaco del ragazzo brontolò sonoramente «Ma quanto ci mette a prendere una cosa?»
Majion sbirciò all'interno per poi tornare a guardare la strada «Credo abbia quasi fatto.»
Pochi attimi dopo comparve l'intendete, il viso insoddisfatto, mettendo un grosso pacchetto avvolto nella stoffa nel cesto di Majon e avviandosi senza una parola, lasciando che parte della domanda di Ashur non trovasse risposta, dimenticata anche dal ragazzo stesso.
Camminarono per una buona mezz'ora fino ad arrivare nei pressi del porto e, davanti a una taverna, l'uomo si fermò. Estrasse dalla tasca un borsello con dei soldi e una lista mettendole in mano a Majion e fissandolo.
«Io mangio e mi riposo un po', tu e il ragazzo comprate quello che c'è nella lista, sono le solite botteghe, e vedi di non fare il furbo, che so quanto costano le cose.»
Majion sorrise e chinò il capo, solo Ashur notò lo sguardo divertito dei suoi occhi. «Ti ho mai imbrogliato, intendente Wenxiu?»
«No, e questa è la tua fortuna, o non metteresti più il naso fuori dalla locanda. Ora muoviti, che ho fame.»
Con un altro leggero inchino Majion si voltò, afferrando il braccio di Ashur e portandoselo appresso, l'espressione decisamente allegra.
«E... ma si fida?»
«Perché non dovrebbe? Lui sta comodo a bere, a mangiare, e io e te facciamo un giro senza dover tenere la testa bassa e la bocca chiusa.» Majion sghignazzò «Tanto non possiamo andare da nessuna parte. Il collare lo vedrebbe anche un cieco e anche se volessi imbarcarmi su una nave della mia terra e portarti con me, le guardie al porto ci prenderebbero. Non abbiamo contatti e non abbiamo soldi, questi non bastano certo a comprarsi un passaggio clandestino.»
«Sembra tu ci abbia pensato tanto...»
«Certo!» Ashur fissò l'altro, evitando per poco di urtare un venditore di mitili che stava procedendo con il piccolo carretto che trainava a seguito. «Credi che non abbia pensato in questi anni a come tornarmene a casa, o a come essere libero? Almeno il lavoro del Loto permette di comprarsi la libertà, se sei bravo.»
«E un passaggio? Quello no?»
Majion sospirò. «Ho idea tu sia stupido, a volte.»
«Sono tante cose, ma stupido no. Non capire non vuol dire essere stupidi.» lo sguardo di Ashur si era assottigliato e gli occhi avevano una scintilla d'ira. «E io non capisco perché aspetti di comprarti la libertà piuttosto che un passaggio, visto che hai tutti quei soldi da parte.»
«Tu hai visto la tua parte del ricavato della tua prima notte?» Ashur scosse il capo, mentre iniziava, forse, a capire. «I nostri soldi li tiene Zunya: è scrupoloso e onesto, ma non sciocco. Noi non vediamo neanche una moneta di rame, sta molto attento che nelle nostre mani non sosti del denaro. Con che soldi mi pagherei il passaggio?»
«Non ci avevo pensato... non ho pensato molto, ultimamente, in realtà.»
«Mancanza di sonno,» sentenziò con l'immancabile sogghigno «ma ti ci abituerai, tra un po'.» Ashur gli diete un pugno sulla spalla, fissandolo con ira, e le risate di Majion divennero ancora più forti, mentre quello scintillio divertito gli dava un'aria spensierata.
«Tu ridi, io sto dormendo così poco che mi sono quasi addormentato quando... mentre... insomma, hai capito!»
Majion si fermò, ridendo così forte da faticare a respirare, spostandosi sul ciglio della via e appoggiandosi a un muro. Ashur lo fissò, imbronciato e con il viso leggermente arrossato dall'imbarazzo.
«Tu... mentre...»
«Sì!» sbottò Ashur «E allora?»
«Niente, niente... si vede che ti stai abituan...» un calcio negli stinchi zittì l'uomo. «Ho capito!»
Ci vollero diversi minuti ma, alla fine, Majion riuscì a calmarsi. Ogni tanto guardava di sottecchi il ragazzo accanto a lui, soffocando una risata e causando un'immancabile occhiata risentita e offesa da parte del più giovane. Arrivarono davanti a una bottega che, nel porto, vendeva pesce secco, sotto sale, affumicato o conservato in molti altri modi.
Entrarono e vennero accolti da scaffali pieni di merci e una donna dalle forme abbondanti con i capelli strati di grigio. Appena li vide li squadrò da capo a piedi.
«Majion.»
«Gentile Xijan, le porto i saluti del mio padrone.»
La donna a quelle parole sbuffò, «Vedi di portarmi i soldi del tuo padrone. Il tuo intendente l'altra volta ho dovuto minacciarlo per farlo pagare!» agitò un dito davanti all'uomo che le sorrise con aria contrita e dispiaciuta.
«Sono sicuro che il padrone abbia adeguatamente discusso della cosa con l'intendente.»
«Certo, come no.» la donna sospirò, pulendosi le mani sul grembiule e guardandolo. «Ora, se hai finito con la manfrina, dimmi cosa serve stavolta.»
La mano di Majion estrasse dalla tasca il foglio che gli aveva dato l'intendente, porgendolo alla donna con un mezzo inchino. «Credo sia scritto tutto qua, se avete dubbi sono a vostra completa disposizione.»
Ashur alzò un sopracciglio. Aveva dato per scontato che l'altro sapesse leggere ma, probabilmente, non era così. D'altronde chi mai gli avrebbe potuto insegnare? Prendersi la briga di istruire uno schiavo era inutile.
La donna lesse la lunga lista poi la diede di nuovo a Majion che la piegò, mettendola in tasca. Affacciandosi alla stanza sul retro iniziò ad accumulare cose sul tavolo del negozio, una bella quantità di pacchetti. «Il resto mi sa che devo prepararlo, domani in serata ve lo consegno, queste sono le varie salse e le cose spicce della lista.» la donna strinse gli occhi e fissò l'uomo. «Trentacinque monete.»
«Signora Xijan, il padrone vorrà il mio sangue se chiedi quella cifra!»
«Se vuole queste cose il prezzo è quello.»
Majion assunse l'aria più miseranda che Ashur avesse mai visto, così mesta e abbattuta da poter spezzare il cuore a una pietra. «Il padrone mi batterà...»
La donna lo fissò, cercando di essere irremovibile. Poi alzò gli occhi al cielo e sospirò.
«Tu sarai la mia rovina! Trenta, Majion, ma togliti quell'espressione! Che la Dea dei corvi ti becchi! Guarda te se devo avere il cuore così tenero, maledetto te e quegli occhi verdi! Sei un dannato Cestrix! Tu e la tua razza siete tutti imbroglioni!» continuando a borbottare all'indirizzo dell'uomo che tratteneva il sorriso divertito, li sorvegliò mettere il carico nelle ceste e uscire.
«Cestrix?» Ashur lo guardò con aria interrogativa per poi continuare a chiedere «E cos'era tutta quella scena sul padrone che ti avrebbe battuto?»
«Sei pieno di domande.» Majion borbottò «Cestrix è il nome della mia gente e la scena serviva a pagarci qualcosa da mangiare, con quelle cinque monete qualcosa si trova da mettere sotto i denti. Ma se ti ha infastidito posso anche mangiare solo io, sai?»
Senza rispondere, Ashur sorrise all'altro reggendo la cesta, ora decisamente più pesante. Il suo stomaco borbottò e lui sbuffò osservando il sogghigno del compagno.
Avanzarono nella folla fino a fermarsi da un ambulante che, dal retro di un carretto, vendeva delle forme di pane piatto e morbido che riempiva con pesce cotto in una specie di sugo.
«Due!» disse Majion. L'ambulante li squadrò, sospettoso, ma alla vista delle monete porse i due involti di pane. Li presero, sedendosi più avanti lungo i moli in un punto meno affollato. Ashur osservò quel cibo a lui sconosciuto. Il pesce era una relativa novità per lui, alla capitale ne arrivava poco e soprattutto di fiume. Lo addentò e un sapore speziato e piccante gli esplose in bocca, gustoso. Finì fin troppo presto la sua parte e si leccò le dita, per poi stiracchiarsi al sole, stendendosi con la schiena sulle pietre e osservando la distesa del mare.
«Majion?» un verso dell'altro gli giunse come risposta e lui lo guardò «Tu non sai leggere, giusto?»
L'uomo inghiottì l'ultimo boccone e si leccò le dita a sua volta. «No. Non si insegna a leggere a uno schiavo, di solito.»
Ashur annuì, girandosi a mezzo verso di lui. «Se vuoi ti posso insegnare. Non è difficile...»
«Perché?»
«Non vuoi imparare?» ribatté sorpreso Ashur, ma Majion scosse il capo in un gesto strano.
«Non ho detto quello. Ti ho chiesto perché mi vuoi insegnare, Ashur. Io vorrei saper leggere, è una cosa utile.»
«Perché, beh, perché mi sembra gentile.»
«Non mi interessano le gentilezze fatte per mettersi l'anima in pace, ragazzino. Ho anche io un orgoglio, la carità non mi serve. Quando sarò liberò pagherò qualcuno perché mi insegni.» sbottò, alzandosi e caricando la cesta tra le braccia. «Andiamo, mancano altre compere e non abbiamo molto tempo prima che l'intendente si ubriachi tanto da non camminare.»
«No! Non...» ma era palese che Majion non lo avrebbe ascoltato. Ashur sollevò la cesta e si affrettò dietro l'altro, inseguendolo mentre girava per le vie, tallonandolo in silenzio, cercando di capire cosa aveva sbagliato. Voleva solo fare quello che poteva per Majion. A modo suo l'uomo gli era amico. Perché si era offeso a quel modo?
Entrarono e uscirono da delle botteghe e neanche una volta Majion gli rivolse la parola. Mentre tornavano verso la taverna dove l'intendente li aspettava il sole era quasi al tramonto e Ashur si sentiva spossato. Aveva passato la giornata a correre dietro all'altro, domandandosi cosa fare per scusarsi e cosa mai avesse detto di così offensivo.
«Ashur!» una voce forte lo apostrofò e il ragazzo si bloccò, imitato da Majion. Poco lontano il nobile Shiin della Fenice lo guardava, avvicinandosi rapidamente, affiancato da un uomo che dall'aspetto doveva essere il padre.
Si affrettò a inchinarsi, così come Majion al suo fianco.
«Mio signore...»
«È lui allora, Shiin?» l'uomo guardò il giovane, sollevando un sopracciglio e guardando poi Majion, con occhio altrettanto attendo. «Avevi ragione.»
«Sì, padre, lo so.» il giovane nobile posò di nuovo lo sguardo su Ashur, chinato di fronte a lui, e sorrise appena. «Come mai in questa zona? Credevo non facessero uscire dalla locanda un fiore così bello e prezioso.»
Sentendosi arrossire e infuriandosi con se stesso per quel colorito imbarazzante scosse il capo. «Il padrone ha mandato me e Majion a fare compere, mio signore.»
«Capisco,» disse Shiin «quasi non ti riconoscevo, ma è impossibile non notare così tanta bellezza e grazia.»
La mano del nobile si posò in una rapida carezza sul viso del giovane, paonazzo.
«Siete troppo gentile, mio signore.» Ashur guardò di sottecchi Majion, pregando l'altro trovasse un modo per farli andare via, ma non sembrava intenzionato ad aiutarlo: si stava divertendo.
«Troppo gentile?» Shiin scosse appena il capo, poi alzò lo sguardo oltre i due schiavi. «Non direi, Ashur. La verità non è gentilezza, e quando dico che sei la creatura più bella che abbia visto in vita mia non mento. Andate pure, ora, ho rubato abbastanza tempo ai miei impegni.» il nobile si avviò, iniziando a parlare con il padre mentre si allontanavano.
Anche Majion e Ashur si avviarono praticamente di corsa, arrivarono alla taverna e Majion entrò per recuperare l'intendente, decisamente alticcio. Gli mise in tasca il borsello con i soldi avanzati, la lista e, lasciando che Ashur portasse anche il suo cesto, si caricò l'uomo sulla schiena, avviandosi verso il Loto.
«Lo sapevo che facendo tardi lo trovavo così.» sbottò a mezza voce, irritato. «Come minimo il padrone punirà me.»
«Te? Perché?» Ashur non riuscì a far a meno di chiedere e l'altro lo fulminò con lo sguardo.
«Perché mi lascia andare fuori con lui a patto che lo riporti abbastanza sobrio. Invece ho perso un sacco di tempo a ciondolare.»
«Ma abbiamo corso da una bottega all'altra...» disse perplesso. Le sue gambe ricordavano perfettamente il passo sostenuto che avevano tenuto tutto il giorno e che ancora tenevano.
«Non abbastanza, adesso smettila di parlare e cammina.» Il fulvo aumentò il passo, l'intendente sulla sua schiena che borbottava confusamente.
Quando raggiunsero il Loto era ormai il tramonto e, ad accoglierli, trovarono la cuoca. Con aria severa fissò l'intendente, sospirando. «Lascialo sul gradino della cucina e posate lì le ceste. Il po'shin vi vuole, tutti e due.»
Fecero come era stato loro detto e attraversarono il cortile, presentandosi al piccolo ufficio di Zunya. L'uomo alzò lo sguardo su di loro solo dopo diversi minuti passati a controllare delle somme su un foglio, squadrandoli con aria seria e vagamente seccata.
«Majion, vuoi davvero tirare così tanto la corda con me? Qual è il motivo per cui ti lascio uscire con l'intendente?»
«Evitare che si ubriachi e che gli acquisti vengano fatti senza errori.»
«So che hai eseguito metà dell'ordine, ma mi pare che Wenxiu non sia tornato sobrio. Vi hanno visto tornare dalle finestre del piano di sopra e tu lo portavi a spalle.» Zunya tamburellò con le dita sul tavolo. «Allora?»
«Sono desolato, padrone.» l'uomo chinò il capo mostrando contrizione. Ashur aveva molti dubbi sull'autenticità di quel sentimento, si era reso conto che l'altro era un ottimo attore, quando lo voleva. «Ho cercato di fare il più in fretta possibile, non ho fatto abbastanza...»
«No, non lo hai fatto. Non accompagnerai più tu l'intendente. Nessuno dei due.» Zunya li squadrò, gelido. «Ora andate a prepararvi, tra poco inizieranno ad arrivare i clienti.»
Si inchinarono e uscirono. Sulla porta della cucina, Majion fissò Ashur, torvo. «Preparami un bagno.» ordinò e il ragazzo strinse le labbra. Era irritato per la decisione di Zunya a cui sapeva non esserci appello. Aveva assaporato una briciola di libertà per vedersela tolta a quel modo. Irritato, si rese conto che doveva riuscire a lavarsi a sua volta: puzzava di sudore e aveva i piedi sporchi, neri. Se li pulì il minimo indispensabile prima di entrare nella cucina e poi si precipitò a scaldare l'acqua. Non sarebbe stato un bagno particolarmente caldo quello di Majion, probabilmente.
Quando andò a chiamarlo, trafelato, notò quanto l'uomo fosse ancora furioso. Ashur non aveva detto una parola, intuendo che l'altro era di quell'umore in cui era capacissimo di fargli i tiri peggiori, rifugiandosi nel silenzio. Passò all'altro il sapone e la pezza per lavarsi ma, prima che potesse chiedergli se poteva andare a lavarsi a sua volta, Majion parlò.
«Quel porco schifoso di Zunya.» quel sussurro furibondo fece sobbalzare il ragazzo. «Quello schifoso sterco di porco, quel cadavere putrescente, quel caprone puzzolente... non aspettava altro! Lo so! Non aspettava che il momento giusto, la scusa!»
«Mi dispiace...» sussurrò Ashur, capendo come la decisione facesse arrabbiare molto più di lui Majion. Era la prima volta che vedeva l'altro così. Non era solo rabbia, c'era altro, ma non riusciva a decifrare quello che Majion celava nell'anima.
«Mai quanto a me, ragazzino, mai quanto a me.» ringhiò a mezza voce. «Muoviti, il tempo è poco e non ho voglia di essere sgridato perché tu sei in ritardo, io finisco da solo, tu lavati.»
Con quelle parole Ashur venne congedato e Majion uscì dalla tinozza, asciugandosi velocemente per poi risalire di corsa verso la sua stanza, usando i passaggi interni.
Con un sospiro Ashur entrò nella vasca accanto, nell'acqua che definire tiepida era un esercizio di sfrenato ottimismo, lavandosi il più velocemente possibile. Tralasciò i capelli, annodandoli in cima alla testa e uscendo pochissimo tempo dopo dalla tinozza. Si infilò la veste che si era portato, correndo alla stanza di Majion per ridargli gli abiti.
Arrivò per ultimo alla locanda, dove con sguardo gelido la padrona gli disse di andare in una delle stanze private, lì trovò Shiin ad attenderlo e non se ne sorprese.
Per quasi un mese il nobile della Fenice venne quasi tutte le sere a richiederlo, mentre Zunya sembrava fiorire sotto quella quantità di monete che scuciva al dyku. Inoltre anche Majion, a quanto pareva, aveva trovato un cliente che, a sua volta, aveva sviluppato un attaccamento quasi morboso per lui.
Il giovane, però, avrebbe preferito mille volte di più che Shiin non lo desiderasse così tanto. Aveva quasi smesso di fargli domande, e di certo avere un solo cliente per tutta la notte era meno stancante di averne tre o cinque, ma davanti a un guerriero, a un capo guerra di cui sentiva continuamente tessere lodi di coraggio e onore, si sentiva male. Non era solo disagio, erano le domande che gli affollavano la testa sull'altro. Sul fatto che un simile uomo, un simile guerriero, preferisse un maschio senza dare peso a quella preferenza, senza sentirsene disturbato.
Lo trattava con dolcezza e gentilezza, continuando a elogiare la sua bellezza, dicendogli che era più bello anche delle donne più belle che aveva avuto, mettendolo in imbarazzo. Lo accarezzava e lo baciava, cercando il suo corpo come se ne sentisse il bisogno, e Ashur non capiva. Come poteva essere così abile, feroce, spietato e un così grande guerriero nella battaglia, senza timore per il sangue e la morte, se indulgeva in quei vizi che gli avevano insegnato essere vergognosi e indegni?
Un giorno ne aveva parlato con Majion, che si rifiutava di dire qualunque cosa sul misterioso cliente che l'aveva preso come preferito, e l'uomo gli aveva dato una pacca sulla fronte.
"Sei proprio stupido, Ashur! Cosa dovrebbe importare cosa fa un uomo con il suo pisello durante una battaglia?" gli aveva detto, squadrandolo con espressione incredula "È un ottimo stratega, intelligente, bello, e sopratutto abile con la katana come pochissimi. Il fatto di mettertelo in culo non sminuisce nessuna delle sue qualità!"
"Non è onorevole!" aveva ribattuto Ashur con veemenza. "Un guerriero ha un codice morale e indulgere nel sesso con altri uomini è sbagliato!"
"Lo pensi davvero? Sei qua da mesi e lo pensi ancora? E perché, per tutti i vostri Dei, sarebbe così orribile infilarlo nel culo di un uomo piuttosto che tra le gambe di una donna?" la domanda, fatta in tono esasperato, aveva zittito per un momento Ashur.
"Io... i libri del guerriero, dicono che è mancare di rispetto verso se stessi... che è un atto che porta confusione e fa dimenticare i ruoli..."
"Ti hanno riempito la testa di merda, ragazzino." Aveva detto a quel punto l'uomo, scostandosi i lunghi capelli fulvi dal viso. "È quando non ragioni con la tua testa che manchi di rispetto a te stesso, quando credi in qualcosa perché ti hanno detto che è così. Sei intelligente, quando vuoi, comincia a farti delle domande, Ashur, delle domande serie. Chiediti se davvero è dare il tuo corpo a un uomo, o se è essere costretto a farlo da Zunya, a farti stare così male. Chiediti cosa è che ti fa stare davvero male, guarda la situazione cambiando punto di vista. Tutto il tuo blaterare sulla vergogna e l'onore mi stanno iniziando a dare i nervi. Cresci, che è ora che apri un po' gli occhi."
Ashur sospirò appena, anche quella sera Shiin era lì, con lui, in una delle stanze più belle e si era appisolato stringendolo a sé. Cercando una risposta alle sue domande chiuse gli occhi, le braccia del dyku che lo tenevano fin troppo stretto, cercando di appisolarsi a sua volta. Era stupido sprecare quell'occasione, aveva imparato che ogni minuto di sonno rubato era prezioso.
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L'ultima moneta
FantasyAshur ha compiuto il peccato peggiore possibile: ha avuto paura. Davanti alla Dea dai mille e nessun nome è fuggito, portando il disonore sulla sua famiglia. Ora ciò che lo aspetta è solo l'esilio, mentre suo padre, il generale delle mille fiere, gl...