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'È proprio vero che si ha paura solo di ciò che non si conosce'.

Daniel

25 ottobre

Non potei dimenticare quella scena, captata a tratti dai miei occhi che non volevano percepire le immagini cosí come apparissero nella realtá. Come un mosaico, cercavano di centellinare la figura che mi si presentava di fronte per poi ricomporla, pezzo dopo pezzo, a formarne l'intera struttura: prima i sentimenti, al centro dell'effigie, contornata da un chiaro scenario di pericolo, di fine di vita, di impotenza.
I colori, mescolati gli uni negli altri, di riunivano tutti in un'unica sfumatura: il nero che all'interno della propria sfumatura ne racchiudeva migliaia. Erano le sensazioni che si accavallavano le une alle altre, lasciandone peró prevalere una in particolare: la consapevolezza che la morte potesse presentarsi in un qualsiasi momento nonostante un forte attaccamento al suo opposto, la vita.
Scuotere il capo e fingere che col solo squassare di quest'ultimo ci si potesse scantonare dalla chiamata alla morte era inutile. Si concludeva solo per trascorrere gli ultimi istanti della propria esistenza illudendosi che non saremmo stati noi l'oggetto di quell'appello.
Ma allora, ci si poteva considerare giá morti ancor prima di esserlo veramente?

L'esprimersi in tali pensieri in maniera così soggettivista mi fece domandare se Andrea avesse preso così tanto a cuore l'argomento come, senza rendermene conto, avevo fatto io. Magari lui non si era minimamente preoccupato del fatto che quelli sarebbero potuti essere gli ultimi istanti della sua vita.
Allora stavo dando per certo che Andrea sarebbe morto?

Chiudendo gli occhi, riuscivo solo a rinnovare il pensiero, frutto delle immagini che iniziavano a susseguirsi non più ben nitide nella mia mente; ad ogni volta in cui sostituivo la visione del mondo al solo colore nero, realizzavo quanto meno rammentassi ad ogni battere di ciglia.
Questo voleva dire che mi stavo rassegnando alla morte di Andrea? Che stavo perdendo ogni speranza in un suo risveglio?
Facendosi spazio fra i mille pensieri che dedicavo ad Andrea, anche i dubbi sul mio stesso riflettere non tardarono a sovvenire.

Che cosa devo pensare, che dovesse per forza sopravvivere? No. Avrebbe voluto illudersi e lo avevo fatto fin troppe volte, arrivando a dover affrontare la sua morte, vista in faccia, colto impreparato e immerso in una bolla utopica.
Questa avrebbe potuto agire senza che io potessi sostenere la sua subitanea venuta.
Dovevo iniziare a credere che lentamente la morte lo stesse portando via?
Su due opzioni, esclusane una, non vidi altra scelta.

Perché, peró, ero stato costretto a non scegliere? Cosa poteva successo di cosí decisivo per stabilire che la sua esistenza stesse volgendo al termine?
Perché quella macchina aveva cessato di funzionare per poi riprendere a farlo in maniera così raccapricciante, inattesa,, fuori dal normale causandomi sconforto,  agitazione, sgomento?
Era ancora vivo, anche se per poco?

Avevo avuto modo di assistere alla visione, ripetute volte, alla proiezione di film a tematiche chirurgiche od ospedaliere in cui un paziente, attaccato allo stesso, medesimo macchinario di Andrea, cessasse di vivere non appena questo, sul cui schermo trasmetteva una linea di colore bianco o rosso, facesse diventare il segmento parallelo all'asse orizzontale. Era ciò che era successo ad Andrea. Quindi lui poteva essere definitivamente morto?

Quel giorno decisi che non sarei andato a trovarlo. Avevo tantissima, troppa paura di ricevere una brutta notizia.
Un senso di panico invadeva il mio stato d'animo, crescendo sempre di più e placandosi solo al ricordo di me ed Andrea, mano nella mano, quando lui ancora stava bene. Ma osservando la mia mano vuota e fredda comprendevo immediatamente che il calore della sua non fosse pronto a riempire il vuoto che il mio palmo lasciava a se stesso.

Non ti lascerò dormire da solo Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora