24

155 31 20
                                    

'Non è un animale in una
gabbia dello zoo'.

María Inés

"Per favore, dimmelo" ordinai, sentendomi in dovere di sapere la verità. L'espressione poco serena di Rita aveva lasciato trapelare l'inevitabile tabù che aveva cercato di celare con un rumoroso deglutire di saliva.

"María Inés" ripeté il mio nome. Non seppi se lo facesse per prendere tempo, per darsi coraggio. O forse, cercava la risposta da darmi in me. Ma cercai di non lasciare che emozione alcuna influisse su ciò che mi avrebbe detto e nel modo in cui l'avrebbe fatto.

"Cosa c'è?" pronunciai insipidamente.
"Io...". Stillava le parole, centellinandole fastidiosamente.
"È... in coma". Tutto ad un tratto, declamó le uniche tre parole che avevessero senso in tutto quel giro di congiunzioni, pronomi e nomi propri, boccheggiati e balbettati con insistenza.

"Come?" domandai, non sapendo se fosse davvero la realtà, ciò che mi era appena stato annunciato.
"Sí. Mi dispiace". Il suo volto s'abbassó, oscurandosi dopo che la luce proveniente dal soffitto non aveva più avuto modo di sfiorare il suo viso.

Sentendomi abbandonata a me stessa sia dalle sue parole che dai suoi occhi, che non erano riusciti a sostenere lo sguardo per la crudezza delle parole pronunciare poco più in basso, lì dalle labbra, coperte da una linea di matita tracciata da una mano poco esperta.

Il mondo mi crollò addosso. Ed io avevo le braccia troppo fragili per arrestare la sua caduta contro al mio esile corpo ed evitare che mi precipitasse addosso.

"Come fa... ad essere in coma?" cercai di farmi spazio nella conoscenza dell'origine del male.
Rita si vide obbligata a guardarmi. Le sue mani si poggiarono l'una nell'altra, le dita vennero strette a tal punto da causarne un accavallamento di alcune sulle altre, segno di concitazione.
"Ha riportato una commozione cerebrale".
"Ma... da quando? Da quando è in coma?".
"Da una settimana, oramai". Oramai. Quella parola mi scosse come un fulmine a ciel sereno. Oramai era sinonimo di abbandono, di trascuratezza. Di qualcosa che, una volta avvenuto, non poteva più essere adoperato, ripreso, rivissuto. Qualcosa che era giá trascorso. Qualcosa che aveva giá subito l'avanzare del tempo.
Una settimana era un tempo interminabile. E l'oramai sottolineava quanto quel lasso di tempo fosse oggettivamente significativo.

"Ma si riprenderà?" chiesi stoltamente.
"Non lo sappiamo, María Inés. Non si può sapere" fu la risposta più lapalissiana e indesiderata che avrei voluto udire.

"È grave?". Qui, la perspicuitá della domanda era meno rilevante.
Vedendola comprimere la bocca, sentendola mugugnare sillabe, non potei fare a meno di pendere dalle sue labbra.
"Sî, purtroppo" sentenziò, inesorabilmente.
"C- ome?" domandai con la voce tremante.
"Sì, María Inés. Mi dispiace tanto" ripetè ulteriormente.
Socchiusi le labbra, cercando di prendere fiato anche se risultò complesso tanto quanto cacciare via le lacrime, che imploravano di precipitare dalle palpebre, gonfie, esauste di contenere quelle minuscole gocce salate in altrettanto piccole sacche di pelle.
Un senso di vuoto prese posto in me. Appoggiando una mano sul petto, mi parve d'essere stata trafitta da una lama che, tagliente, mi aveva svuotata d'ogni mio singolo organo vitale. Mi sentivo privata dei polmoni, la respirazione si stava pressoché annullando; spogliata dalla mia pelle; non avvertivo più caldo nè freddo; espropriata dei sentimenti, il cuore aveva cominciato a decellerare il battito.

Sentivo come se non avessi più alcun obiettivo da raggiungere. Quello che volevo conoscere lo avevo saputo. Ed in quel momento, che ormai la verità era parte di me, ed era una verità che non mi andava giù, quale sarebbe stato il mio scopo? Come avrei fatto a cambiare il destino, rivoltante, raccapricciante, indesiderato?

Non ti lascerò dormire da solo Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora