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Daniel

F

acendo susseguire i passi l'uno dietro l'altro, percorrevo il sottile marciapiede che accostava le larghe carreggiate attraversate, seppue raramente, da grossi mezzi di trasporto quali autobus o camion. Sollevando il capo per osservare questi ultimi rumoreggiare con le potenti cilindrate, mi chiedevo chissà quale merce trasportassero all'interno dei container saldamente chiusi, che nascondevano il loro contenuto con spesse lastre color metallo. Un po' come la tonalità slavata dei lampioni che, ancora spenti e pronti ad accendersi all'imbrunire, riflettevano sulla loro sottile circonferenza i raggi del sole. Questi rimbalzavano nelle pupille, riducendole a piccoli punti neri. E diventava inevitabile che la mano si poggiasse sulla fronte a mo' di visiera, come a nascondere la pelle che, candida, avrebbe solo voluto godere di qualche gradazione di colorito in piú.
Obbligato a tenere lo sguardo basso, osservavo le crepe venire calpestate sotto alle mie All Star, prossime allo slacciarsi.
Queste, ogni tanto, lasciavano che Madre Natura si appropriasse nuovamente di ciò che l'uomo, fondando l'urbanitá in cui anche quest'ultima era stata ingoiata, aveva tolto: un sottile stelo di una comune pratolina aveva avuto la forza di fiorire in mezzo all'asfalto, cinereo e duro, in forte contrasto con la tenerezza dei candidi petali che circondavano il tondo cerchio di polline giallo come il sole.

Soffermandomi ad osservare ogni dettaglio, probabilmente sfuggente agli occhi di qualsiasi altra persona, udii il fragoroso rumore di un clacson avvicinarsi a me. Sollevai lo sguardo, spalancando la bocca ed irrigidendo la muscolatura.
"Ragazzo, levati di qui!". Un signore, smanicato e sigaretta munito, si sbracciava dal finestrino del tir del quale era alla guida.
"Forza, devo passare!" insistette, tenendo fra i denti la cicca oramai largamente consumatasi.
Mi guardai attorno, senza accorgermi che i miei occhi avevano quasi varcato le orbite oculari. Dallo spavento ero rimasto immobile per qualche secondo, scatenando l'ira del mio interlocutore, che alla terza presa di parola non potè trattenersi dall'imprecare.
"Cazzo, levati! Devo andare a lavorare. Merda, sono giá in ritardo". Affiancando le sue crude parole ad una mano chiusa a pugno, cercò di minacciarmi dall'alto del sedile del suo camion sul quale sedeva.
"Mi scusi" risposi, spostandomi da dove mi trovassi, in mezzo alle strisce pedonali.
Grugnendo un paio di volte, sentii le ruote dell'ingombrante mezzo porre attritto con l'asfalto; poi iniziarono a ruotare, causando lo spostamento del tir, altissimo.
Il braccio, muscoloso e poggiato sul bordo del finestrino, venne ritirato e quest'ultimo sollevato, facendo sparire il volto dell'omaccione al di lá del vetro, oscurato.
Rimasi impassibile ad osservarlo allontanarsi, stupito dalla situazione che avessi appena vissuto.
Per poco non avrei rischiato di farmi tirare sotto.

Ancora scosso da ciò che avevo passato, dalle parole che avevo udito precipitarsi fuori dalle labbra violacee di quel signore, riflettei. Avrei dovuto fare più attenzione; era sì un paese pressochè campagnolo, quasi disabitato, ma non per questo meno pericoloso quando in prossimitá di una strada, anche se rara.

Sudato per la temperatura che nel frattempo era aumentata ed accaldato per l'adrenalina che prima aveva scosso il mio corpo, arrivai davanti a casa di Andrea. Cercai di evitare le strade, preferendo passare per un sentiero terroso, costituito da pietruzze cineree che accompagnavano un terriccio dal colore simile all'ocra rossa.
Immerso nella folta vegetazione che mi circondava, cercavo di scrutare del celeste del cielo, senza riuscire; gli alti rami degli alberi me lo impedivano.

Giungendo di fronte alla dimore del mio ragazzo, venni attratto da un particolare insolito: qualche grande pietra lucida e grigia era stata messa attorno all'abitazione a scopo decorativo. Una quercia si ergeva imponente alle spalle della casa mentre la cassetta della posta, di una bella vernice rossa, era situata a fianco alla parete esterna dell'abitazione, sulla destra.
Una pozzanghera di fango piuttosto profonda e di circonferenza larga giaceva sul prato, alla fine del sentiero, teneramente colorato d' una clorofilla verdissima. Quella zona era perennemente oscurata dai raggi del sole per via dei lunghi rami dell'albero che parevano voler nasconderla da essi.
Al termine del terroso sentiero, piacevolissimo da percorrere sentendolo scrocchiare delicatamente sotto alla pressione dei passi, si era obbligati a passare su un letto d'erba, ben curato; essa non era troppo alta, ma piuttosto definibile folta nel suo ordine.

Non ti lascerò dormire da solo Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora