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Io... io ero solo il ragazzo.

Daniel

9 ottobre

Quel giorno fu diverso rispetto agli altri. Il pomeriggio non era stato scandito da un continuo osservare l'orologio, prossimo a spingere la lancetta delle ore verso il numero tre, orario di uscita, il precipitarsi di corsa verso la fermata del pullman che mi avrebbe portato all'ospedale. Quello che, se non avessi corso, avrei dovuto attendere per una ventina di minuti, con lo zaino alle spalle, magari la pioggia sulla testa e lo stress di una giornata cominciata male su tutto il corpo.
Ed ancora la mezz'ora che rendeva diversa la routine di ogni giorno. Quella in cui programmavo attentamente cosa fare, quella che tentavo di rendere diversa rispetto alla medesima che era stata il giorno prima o che sarebbe avvenuta il dí successivo.

Alle quattro e quattro minuti misi piede a casa, né inzuppato d'acqua, né col peso dei libri a far inarcare la schiena dal dolore. Nemmeno con la preoccupazione di un brutto voto preso durante le sei ore a cui ero stato sottoposto in quella giornata cosí solita, ma cosí fuori dal comune.
Nonostante non avessi una ragione valida per accusare malessere, non mi sentivo a mio agio. Qualcosa mi turbava. Ed io sapevo chiaramente quale fosse la causa.

"Mamma, sono a casa". La mia voce echeggió per la casa, rimbalzando da una parete all'altra, fino a giungere alle orecchie di mia madre la quale rispose dopo qualche secondo.
"E tu cosa ci fai qui? Sono appena le quattro!" mi fece notare ció che era l'ovvietà.  Facendo spallucce, butttai lo zaino a terra, trascinandomi malamente fino in camera mia. Sentii lo sguardo di María Inés percorrere, assieme ai miei passi, il tragitto fino alla mia stanza. Incredula, incroció le braccia al petto. A breve avrebbe domandato spiegazioni esplicative.

Chiusi la porta con la punta del piede, sporta con fatica per raggiungere l'anta, che ruotó fino a socchiudersi. Dopo essermi accomodato sul letto, sospirai, lasciando cadere la testa sul cuscino.

"Daniel, sei qui?". La voce di mia madre si fece chiaramente udire, a pochi metri da me. La porta era stata aperta ed il suo viso era comparso attraverso la fessura lasciata da quest'ultima.

"Mamma, lasciami in pace" bofonchiai, girandomi sull'altro lato in modo da nascondere il mio viso dai suoi occhi.

"Daniel, per favore" pronunció, obbligandomi a voltarmi verso di lei.
"Perché sei giá qui a quest'ora?".
La domanda che non avrei voluto mi ponesse.
"Daniel?". La sua voce mi spronó ad esporre rapidamente la veritá.
"Non ho potuto visitare Andrea. E tutto a causa dei suoi genitori. Fine" raccontai brevemente, rigirandomi per la terza volta.
"Non capisco".
"Mamma, cosa cavolo c'è da capire?" sbottai nervosamente.
Era incredibile come il non vedere Andrea mi mandasse fuori di testa.
"Com'è che i suoi genitori non ti permettono di vederlo?".
"Ma che ne so. Lasciamo perdere" dissi, chiudendo gli occhi.
"Per favore. Vorrei sapere. Mi potresti raccontare cos'è successo?".

Quel pomeriggio mi ero diretto, come di consuetudine, all'ospedale.
Ma quel giorno avevo trovato Romita ed il marito, lì, a pochi metri da me che, col sorriso sulle labbra, avevo assistito alla loro brusca ed inaspettata comparsa in un orario di visita per loro non consono e riservato solamente alla mia persona.

Vedendo le porte dell'ascensore aprirsi, mi aspettavo di vedere il nulla: le solite pareti candide, qualche infermiere abbagliato dello stesso colore, ma nessuno ad interporsi nella mia visita quotidiana di mezz'ora.
Ed invece la serenità svanì tutta ad un tratto.

Vedere le loro figure comparire inaspettatamente davanti a me, ignaro ed immerso in una relativa spensieratezza corrispose al ricevere un colpo direzionato al centro cuore. Mi sentii mancare.
"E adesso cosa accadrà?" avevo pensato, pronto ad appoggiare una mano sulla fronte in segno di disperazione.
"Se loro sono lì, lo sono per impedirmi di vedere il mio Andrea" ipotizzai, senza sbagliare.

Non ti lascerò dormire da solo Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora