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You Are My Song, David Archuleta

Daniel

Rimasi da solo davanti a quella maledetta porta che mi separava da Andrea e che l'allontanava dal resto del mondo. Decisi di aprirla, finalmente; l'impazienza mi aveva portato a perdere un po' di fiducia. Avevo immaginato che più il tempo passasse, più la probabilità che lui stesse bene si riducesse. Ed era questione di minuti.

Il cuore aveva ricominciato a battere in fretta, dopo un attimo di distrazione dovuto al dialogo col medico; le sue parole erano riusciti a distrare la mia mente per un attimo. Ma poi, il timore aveva fatto capolino, ricordandomi il motivo per il quale mi trovassi lí.

La mano tremante si posò di nuovo sulla maniglia della porta, color crema. Mi ricordava la maglietta del mio ragazzo indossata l'ultima volta che lo avevo visto; quel tessuto, imbrattato del suo odore poiché appena lavatosi e profumatosi, si rievocava in un pezzo di plastica che attendeva di essere scostato verso il basso.
Passandomi un dito in prossimitá delle labbra, ne addentai una nocca, come se tale gesto potesse aiutarmi a riflettere.
Avrei dovuto attendere ancora?
No. L'avevo già fatto abbastanza.

Preso coraggio, l'abbassai con la poca energia che avevo nel braccio, fioco come il resto del corpo, all'idea di incontrare il mio ragazzo in chissá quali condizioni. Esso aveva ridotto al minimo la capacità di agire: nell'incontrare Andrea allo stremo delle sue forze, le mie sarebbero state sufficienti e necessarie solo ad accarezzare il suo corpo giacente sul letto.

Spalancai la porta, lentamente. Roteai gli occhi, sentendomi mancare.
No, non dovevo crollare. Tesi un braccio verso la parete di fronte a me, ruvida e scolorita, chiudendo gli occhi per un istante.

"Coraggio. Manca poco".

Proseguii, facendo susseguire i miei passi dinanzi a me. Arrestati questi ultimi di fronte ad un vincolo notai, proprio davanti a me, un letto dalle lenzuola celesti, sistemato e vuoto.
M'inoltrai nella stanza, oramai richiusa la porta dietro di me, silenziosamente.
"Andrea..." sussurrai a bassissima voce. Mi guardai attorno. Lui non c'era.
Dove poteva essere? Camminai lentamente per la sala, osservandola con attentenzione.
Accanto al letto vi era un comodino dello stesso colore delle lenzuola, di cotone.
Alla destra, un armadio conteneva plichi di fogli e medicinali, sormontati da graffette dal colore metallico.
Ad esclusione della presenza del letto, parve quasi di trovarsi presso un ufficio, disordinato e dall'aria stranamente salubre, fresca. Sembrava che qualcuno avesse recentemente aperto le spaziose finestre per far circolare l'ossigeno.
Ad un certo punto notai che al di lá di un muro portante, la stanza proseguisse, non limitandosi a quei giá spaziosi quattro metri quadrati che erano comparsi al di lá della porta, nell'immediato.

Il mio sguardo, ignaro e colto alla sprovvista, fu subito catturato da ciò che stavo cercando. Il cuore perse un battito, arrestandosi tutto ad un tratto. Trasalii sentendomi, per un attimo, come se mi trovassi su un altro pianeta. Il pavimento sotto ai miei piedi pareva essersi disintegrato; provavo una sensazione strana. Per un istante credetti di fluttuare nel vuoto. L'ossigeno si era tanto rarefatto da parer essere svanito.

Andrea era lì. Sdraiato su quel maledetto letto dalle lenzuola dall'azzurro slavato, le braccia stese lungo il corpo. Gli occhi, chiusi, erano rilassati. Il ventre si contraeva a ogni respiro, profondo.
Un monitor emetteva un segnale acustico regolare a distanza, l'uno dall'altro, di poco meno di un secondo.
Dei segnali luminosi lampeggiavano sul macchinario; uno di questi, rosso a forma di cuore.
Sullo schermo appariva un numero a due cifre, oscillando fra il settanta e l'ottanta. Era il suo battito cardiaco.
Andrea era vivo.

Non ti lascerò dormire da solo Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora