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Gravity,
Thomas Fiss

Daniel

12 novembre

Riflessioni. Ne avevo fatte molte, nell'ultimo periodo. Per esso intendevo non un lasso temporale di qualche giorno, neppure di sole settimane. Ma mi riferivo a mesi.
Dal coma di Andrea avevo cominciato a divenire una persona molto più riflessiva. Mi capitava spesso di perdermi fra i miei pensieri, vagare da un discorso all'altro senza nemmeno aprir bocca in quanto l'unico interlocutore che avessi a disposizione ero io, me stesso. Ero l'unico a parlare, l'unico ad ascoltarsi, l'unico a udirsi.
Andrea mi aveva reso molto più attento ai dettagli, alle piccolezze che mi circondassero e che costituìssero me stesso.
Osservavo allo specchio il mio viso cambiare, una lieve barba apparire sul mento, un brufolo attraversare la mia fronte per un paio di giorni, una ciglia cadermi sulla guancia, una lacrima percorrere l'intero volto.
E ancora le ferite rimarginarsi sulla pelle e lasciare il posto alle cicatrici, sottili strisce di pelle rosee in mezzo alla cute chiara.

Notavo i miei capelli crescere, il mio peso calare, le mie clavicole diventare più sporgenti.
Stavo cambiando, ma in peggio.

Se pensavo a me, non riuscivo a credere a quali cambiamenti avessi sottoposto, prima di tutto, il mio corpo. Anche la mia psiche, di conseguenza, ne aveva risentito. Ero sempre debole, senza energia, senza voglia di fare.
O almeno, quello ero stato io nelle prime settimane.

Col passare del tempo e il continuare a svegliarmi la mattina, specchio di fronte al volto, non potevo non notare come la sofferenza mi avesse praticamente ridotto in fin di vita. Magro come un chiodo, disordinato e stanco, avevo compreso che non fossi io. Accarezzando la pelle del mio volto, deglutendo, appariva evidente il pomo d'adamo, sporgente dalla gola, mentre le guance, scavate, non donavano più un aspetto sano al mio viso come prima.
La voce, rauca, non veniva mai schiarita. Il bisogno di esprimermi a parole era divenuto pressoché inesisente e ne risentiva essa, che non veniva mai adoperata.

"Daniel, non sei tu" avevo avuto la forza di notare e far notare a me stesso. I miei occhi, la mia voce, il mio fisico, i miei capelli. Non ero più io.

"Cosa ho fatto? Cosa posso fare?" mi chiedevo, non trovando rimedio a una serie interminabile di errori fatti susseguire senza ragione, proprio come il dí e la notte trascorressero senza piú una motivazione valida che permettesse di rendere il primo differenziabile del sole. Ormai non captavo più la gioia dei raggi del sole spuntare con l'alba e cadere sul mio volto pallido; nemmeno più la tristezza del vederlo tramontare mi faceva effetto.

Se riflettevo ancora, cosa che non risultava essere complicata, i miei pensieri ricadevano sul mondo che mi circondava. Solo io ero cambiato? Solo io mi ero accorto dei miri cambiamenti? Forse non erano poi così evidenti. Magari non ero poi cosí mutato.

Non potei mai ringraziare mia madre per aver dato risposta alle mie domande, che ponevo fra me e me sollevando le spalle quando, camminando per strada, tenevo lo sguardo basso e le mani in tasca per intrattenermi nelle giornate di pioggia di quell'autunno che sembrava non volgere mai al termine.

Mia madre aveva detto le stesse cose che io avevo pensato su di me e sulle quali avevo sorvolato, forse per paura che rispecchiassero davvero la realtà dei fatti. Ero cambiato, in peggio.
Era proprio così.
Ma in ciò non mi aveva fatto una colpa. Anzi, ne vide un pregio.
"Se questo sta succedendo, è perché il solo sentire il nome di Andrea ha davvero un significato profondo per te" aveva confessato.
"Ti vedo quando, guardando la televisione capita che pronuncino il suo nome. I tuoi occhi brillano, le tue mani stringono le tue braccia, sempre incrociate forse per darti sostegno e sicurezza, il tuo busto si erge, lo sguardo si fa sveglio, le labbra si schiudono. È il desiderio di avere Andrea accanto a te".

Non ti lascerò dormire da solo Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora