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Daniel

A partire dal giorno successivo volli andare da solo all'ospedale. Non volevo fare in modo che mia madre si stancasse. Aveva giá fatto tanto per me, in quel periodo. Credevo che la sofferenza causata dalla condizione di Andrea non dovesse interessarla; era qualcosa che doveva riguardare soltanto me.
Oltretutto avrei dovuto imparare la strada per giungerci; siccome la mia intenzione era quella di andarci ogni giorno, sarei stato obbligato a farlo, prima o poi. E perché non cominciare subito a memorizzare il percorso?

Decisi così di prendere il pullman. Per quanto fosse trafficato, non vedevo alternative. Il taxi sarebbe stato troppo costoso. E per l'auto avrei dovuto attendere ancora otto mesi, almeno. E per quel periodo, probabilmente la condizione del mio ragazzo sarebbe arrivata ad un punto in cui sarebbe stato facile giungere ad una conclusione: o vivo, o morto.

La distanza fra casa mia e l'ospedale non era molta; controllando su Internet, il navigatore annunciava un viaggio di circa venti minuti fra il percorso in pullman ed una breve passeggiata di qualche minuto a piedi. Lo stesso tempo che impiegavo da casa a scuola con il solo mezzo di trasporto.

Arrivando all'ospedale, ogni volta, mi sentivo sempre come se fosse la prima volta, nonostante si trattasse giá delle terza. Avrei mai appreso a farci l'abitudine?
Il cuore batteva rapidamente, la gola s'asciugava, le gambe parevano non essere più in grado di sostenermi da un momento all'altro. Mi sentivo svenire, dover crollare da un istante all'altro. Ma dovevo essere forte, superare quelle emozioni che volevano solo prendersi gioco di me, farmi mollare. Ma era tutto ciò che mai avrei fatto. Io per Andrea ci sarei dovuto essere fino in fondo.

Entrai presso il cancello ospedaliero esterno con lo sguardo basso, le mani in tasca, non tanto per il freddo, assente, tanto per nascondere i graffi che ancora non avevano cicatrizzato.
Se osservavo le mie braccia, le loro condizioni erano ancora più penose. Vestire con una felpa a maniche lunghe era d'obbligo, per non apparire come uno psicopatico.

Osservando i miei passi appoggiarsi sull'asfalto l'uno seguito dall'altro, non mi accorsi che la porta principale era giá di fronte a me. La spalancai, vedendomi obbligato ad estrarre una mano dalla tasca, ormai riscaldata a tal punto da aver reso la mia pelle sudaticcia ed appiccicosa.

Un'aria poco salubre circolava nell'edificio, dalla pareti candide e i soffitti piuttosto alti. Il via vai dei dipendenti era notevole; ad osservare i loro movimenti rettilinei e frettolosi veniva il capogiro.

Tanto era irrespirabile l'aria all'ingresso, così era anche il secondo piano, quello in cui Andrea mi attendeva, sdraiato nel suo letto da ormai dieci giorni.
Ma lì, l'atmosfera era diversa. Non era solo poco salubre; era insana, carica di mestizia, di staticitá. Di infelicitá. O meglio, della gioia che Andrea esprimeva, ma che era soffocata nel suo viso pallido, nel suo corpo spento ed immobile, nel suo sorriso negato alle sue labbra scolorite.

I disegni dei bambini che decoravano i muri altrimenti sbiaditi non riuscivano, con i loro colori, a rendere spensierato un ambiente che era l'esatto opposto.
E io potevo dirlo, lo stavo vivendo in prima persona.
Sapere che Andrea fosse lì mi faceva credere che gli ospedali fossero dei posti ancora più tristi di quanto pensassi, ancora di più rispetto alla crudeltà dei racconti di qualche amica di mia nonna, quando diceva di avere lontani parenti ricoverati o appena usciti da un'operazione. E lì, giá rabbrividivo, sentendo le parole uscire con vero dispiacere, con reale sentimento.
Ma vivere in prima persona un'esperienza del genere non è come un racconto. Sapere che una delle persone a me più care si trovasse lì, per di più per un tempo indeterminato, mi faceva riflettere e sentire come se il mondo, allegro e ridente fuori, fosse solo una finzione. Perché per me la realtà, la mia realtà, era là dentro; era Andrea. Ed era la cruda, triste, meschina realtà, tutt'altro che felice come lo era stato prima dell'incidente. Ma allora, la finzione era fuori, oppure eravamo noi, io ed Andrea?
Forse a nessuno importava della nostra tristezza. Se tutti erano felici, allora eravamo noi, quelli fuori posto.

Non ti lascerò dormire da solo Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora